Un tempo si pensava che la vita dei marinai fosse piena di avventure. In realtà è un lavoro duro che a volte si basa su gravi forme di sfruttamento. Ecco cosa succede nel porto di Amburgo
Chi ha viaggiato per mare qui si sente subito a casa, perché questo posto ricorda il ventre di una nave: dal soffitto arriva una debole luce al neon e nei corridoi ci sono corrimano di ferro fissati alle pareti. Il pavimento, però, non oscilla. Nel seminterrato dell’ospedale Groß-Sand di Wilhelmsburg, ad Amburgo, sono le vite umane che rischiano di andare a fondo.
Nella sala d’attesa c’è un marinaio che chiameremo John. La parete è coperta di vetrinette con orsacchiotti di peluche vestiti da marinaio. John non li guarda neanche, è troppo occupato a digitare messaggi al cellulare. Sta parlando con casa sua, dall’altra parte del mondo, dove tutti sperano la stessa cosa che spera lui: che Doc lo lasci tornare a bordo della sua nave. “L’unica cosa che possiamo fare è pregare”, dice John, che è cattolico come quasi tutti i filippini.
John è sbarcato da poche ore. È piccolo di statura, e la barba un po’ lunga e rada lo fa sembrare un ragazzo. È arrivato dall’Asia a bordo di una nave cargo in grado di trasportare più di diecimila container. Una montagna di casse d’acciaio che fanno arrivare in occidente tutto quello di cui l’europeo moderno crede di aver bisogno: iPad, giocattoli di plastica, scarpe da ginnastica, camicie maschili che per pochi centesimi fanno il giro del mondo. L’uomo moderno resterebbe nudo senza le merci contenute nelle gigantesche navi portacontainer e senza persone come John, che le mettono in movimento facendo girare gli ingranaggi del commercio mondiale.
A bordo John ha il compito di sorvegliare il carico e di pulire la nave con la pompa d’acqua a pressione. Tempo fa gli si è conficcata una scheggia nell’occhio: ci è mancato un pelo che finisse tutto. Ogni giorno John raschia via la ruggine e poi vernicia, raschia e vernicia: per evitare che il salmastro corroda la nave, bisogna ridipingerla due volte all’anno. John è un Ab, cioè able seaman, un marinaio scelto. Oggi i marinai si chiamano così: lui corre da una parte all’altra del ponte per dieci ore al giorno, dal lunedì al venerdì, e per otto il sabato e la domenica. Ma questa volta ha corso troppo in fretta: il gradino era bagnato ed è scivolato battendo il ginocchio. Ora gli fa un male del diavolo, più della solitudine. John può solo pregare che Doc faccia la cosa giusta.
Un cartello rosso lo conduce da Jan Gerd Hagelstein: sopra c’è scritto Arzt/ Doctor/Médico, ma nel porto di Amburgo lo chiamano tutti Doc. È il medico della gente di mare, quello dell’ambulatorio dei marinai. Hagelstein sa bene cosa si aspettano da lui quelli che fanno questa professione, un lavoro che definisce “assolutamente brutale”. Doc è stato ufficiale medico e con la marina tedesca è arrivato fino in Somalia. Ha la barba grigia, come potrebbe averla un comandante, e dentro si porta un peso: “A bordo delle navi”, mi dice, “si vedono cose che non lasciano indifferenti”.
I marinai che vanno da lui hanno spesso un’aria esausta, sono pallidi, dimostrano molti più anni di quelli che hanno. Alcuni piangono per la nostalgia di casa, ma per quella non ci sono medicine. Quasi tutti, dice Doc Hagelstein, arrivano “quando stanno già malissimo, ma devono continuare a lavorare”. Si presentano dal medico, ma chiedono subito di tornare a bordo, tanto che a volte, quando Doc riesce a rimetterli in piedi alla meglio, gli baciano addirittura le mani. “Almeno il 70 per cento vorrebbe tenersi i suoi disturbi e continuare a lavorare anche se, dal punto di vista sanitario, farebbe bene a licenziarsi”. Certi giorni Doc si chiede se non è solo una rotella dell’ingranaggio. Una rotella che manda avanti qualcosa che non va.
Le tracce del mito
I turisti hanno in mente un’immagine molto diversa quando invadono Amburgo a frotte per visitare il porto. Passeggiano lungo l’imbarcadero, comprano berretti da capitano e panini ripieni di pesce, ascoltano i suonatori di fisarmonica che strimpellano vecchie canzoni di Hans Albers, piene della nostalgia da cui è attanagliato chi va per mare. Vanno a zonzo per la Reeperbahn, la celebre via del quartiere a luci rosse, e si fanno mostrare dalle guide i luoghi dove un tempo si azzuffavano i marinai. È per questo che molti vengono ad Amburgo: per inseguire le tracce del mito di quegli uomini, che arrivati in porto dopo mesi passati in mare a lottare contro la natura, sperperavano la paga in rum e ragazze, prendendosi qualche malattia venerea.
È probabile che le cose andassero proprio così, in quel lontano passato in cui gli scaricatori di porto svuotavano ancora le stive a braccia e le navi restavano ormeggiate alle banchine per settimane intere. Oggi invece il carico è stipato dentro i container e uno non lo vede più, non ne sente più l’odore. Il container è subito issato da gru enormi e scaricato in tempi brevissimi. I giganti del mare riprendono il largo dopo dodici, diciotto ore al massimo: il ruolino di marcia li spinge di nuovo verso l’Asia. “Ogni ritardo costa molto, molto caro”, mi spiega Arnold Lipinski, responsabile del personale marittimo per conto degli armatori amburghesi Hapag-Lloyd. Lipinski avverte subito i suoi apprendisti marinai: “Se volete navigare per vedere il mondo, avete sbagliato posto. Conoscere altre civiltà? Quel tempo è finito”. E le malattie veneree? A Doc Hagelstein non capita più di curarne: “Le cose sono cambiate radicalmente”, dice.
John sbarca ad Amburgo ogni tre mesi. Quante volte è stato a passeggio sulla Reeperbahn? Il conto è presto fatto: “Never”, mi risponde, “no time”. E subito aggiunge: “Doesn’t matter”. John non va certo per mare perché è attratto dai mondi lontani, né perché è in cerca di una vita avventurosa e di una donna in ogni porto. A casa, nelle Filippine, ha una moglie e due figli piccoli. No, lui va per mare perché non ha alternative: “No choice”. Insieme alla sua famiglia ha fatto un patto con il diavolo, come se ne fanno a migliaia nel suo paese, dove per persone come lui non ci sono posti di lavoro e l’unica via d’uscita è imbarcarsi e solcare i mari.
John è cresciuto in una capanna e avrebbe potuto diventare commerciante, magari vendendo frutta esotica per strada per un pugno di dollari al giorno. Ma il suo vicino aveva una casa lussuosa e faceva il marinaio. E così la sua famiglia ha unito le forze, la madre gli ha dato i suoi risparmi e John si è iscritto all’istituto nautico. Per tre anni ha pagato 800 dollari a semestre e al termine degli studi si è presentato a una delle molte agenzie di Manila che rimediano equipaggi. John ha firmato. Il suo primo imbarco è durato undici mesi, durante i quali è nato il suo secondo figlio. Quando John è tornato a casa voleva prenderlo in braccio, ma il bambino si è messo a piangere: di quell’estraneo non ne voleva sapere. “Sacrifice”, dice John. Lui si sacrifica perché la sua famiglia abbia una vita decente. Ha già comprato una casa a rate e i figli frequentano una scuola privata, così avranno qualche opportunità nella vita. O almeno l’avranno finché il padre è in salute e lavora, intascando lo stipendio mensile: la paga base di 600 dollari più 800 dollari per 120 ore di straordinario. Quando si ammala, un marinaio prende solo la paga base. E dopo qualche settimana neanche più quella. All’armatore un marinaio tedesco costa almeno tre volte di più, quindi costa troppo. Ecco perché non si vedono quasi più marinai tedeschi (in passato erano 70mila, mentre oggi sono appena settemila). Sulle navi lavorano quasi 70mila filippini, la metà di tutti i marinai in attività: senza di loro il mondo, così come lo conosciamo, si fermerebbe.
Le dimensioni delle navi sono aumentate, e con loro quelle dei porti. Guardandoli si ha l’impressione che sulla Terra abbiano preso il potere le macchine. Solo gli uomini sono rimasti uguali. John è alto poco meno di un metro e 70, ma a bordo ha l’impressione di rimpicciolirsi ancora un po’: la nave è lunga quasi 400 metri, ma ospita appena 26 persone, che nel corso della giornata s’incontrano due volte: alla pausa caffè (venti minuti) e a pranzo (un’ora).
Il luogo dove i marinai riprendono le loro normali dimensioni è il porto di Amburgo, tra il frastuono dei treni merci e dei camion. Gli uomini salgono volentieri sull’autobus che li porta al Duckdalben, una missione religiosa che si dedica alla gente di mare. Appena arrivano, si affrettano a sedersi davanti ai computer per parlare con i familiari su Skype, e già dopo qualche minuto gli altoparlanti diffondono il pianto di bambini piccoli. In quell’istante i marinai cambiano faccia, mi spiega Maike Puchert, che li assiste in qualità di diacona: “Finalmente sono rilassati, come se si fossero tolti un peso di dosso”. Per giunta al circolo Duckdalben il pavimento smette per un po’ di oscillare sotto i loro piedi e possono finalmente farsi una partita a biliardo. In media gli uomini si trattengono qui un’ora e mezza, poi devono tornare a bordo. Alcuni trovano il tempo di spedire qualche centinaio di dollari alle mogli, nelle Filippine, per pa- gare un parto cesareo. Altri mandano una cartolina con la foto della Reeperbahn abbellita da una donna a seno nudo e dietro ci scrivono “Ti amo”. Duckdalben è Amburgo così come la conoscono i marinai, sempre che abbiano il tempo di scendere a terra.
Ma se sono costretti a restare a bordo, Maike Puchert va a trovarli e gli porta qualche tessera telefonica. A volte, durante quelle visite, i marinai le consegnano qualcosa. Spesso si tratta di bigliettini con su scritto “Abbiamo una sola tuta da lavoro e non riusciamo mai a lavarla”. Oppure “Abbiamo quasi finito le provviste: a bordo ci resta solo un sacco di riso, ma il capitano non ne ordina altri”.
In quei momenti la diacona Puchert ha davvero la sensazione che i marinai lavorino per dei trafficanti di schiavi. Molte delle persone che si occupano della gente di mare, qui ad Amburgo, prima o poi usano l’espressione schiavitù moderna. Molti menzionano gli armatori greci, che hanno la fama peggiore. Ma ci sono anche tedeschi, i tedeschi di Amburgo, che soprattutto con la crisi dei trasporti marittimi ora risparmiano sull’unica voce su cui possono farlo, cioè sull’equipaggio. Alcuni non pagano l’ultimo stipendio ai loro uomini, rischiando un processo. Altri li costringono a firmare una dichiarazione in cui attestano di aver riscosso la paga e poi gli versano un importo molto inferiore. Quasi tutti tollerano che le loro imbarcazioni battano bandiere che fanno risparmiare, come quella della Liberia, di Antigua o di Barbuda, dove gli equipaggi costano meno e lavorano più ore di quelli tedeschi. Attualmente la proporzione tra queste e la bandiera tedesca è di 2.811 a 375.
Richiesta d’aiuto
Se c’è un problema, i marinai telefonano al porto e si fanno passare Ulf Christiansen, un uomo dall’aria talmente tranquilla che viene da chiedersi come può aver voglia di litigare con armatori e comandanti senza scrupoli. Chi lo sottovaluta, però, sbaglia. Da giovane anche Christiansen è andato per mare. L’ha fatto negli anni settanta e ottanta, un’epoca in cui navigare era ancora bello. In India, quando la sua nave rimase in porto per tre settimane, Christiansen in- gaggiò un motociclista e con lui attraversò la giungla. “Fantastico”, dice. Ma la voglia di andare per mare gli è passata da un pezzo: ne ha viste troppe quando era ispettore dell’International transport workers’ federation (Itf), il sindacato dei trasportatori che tutela anche i marinai.
Questa mattina gli è arrivata per email una richiesta d’aiuto. Proveniva da una di quelle piccole navi portacontainer che prelevano nel porto di Amburgo il carico delle navi giganti e lo distribuiscono al di là del mar Baltico, in Scandinavia o in Russia. Un marinaio filippino gli scriveva: “The chiefmate has no mercy for us”, il primo ufficiale è spietato con noi. Lui e i suoi compagni dovevano ripulire la nave dalla ruggine di continuo, mentre sopra le loro teste venivano caricati i container. In porto cambiavano ormeggio anche sette volte in due giorni, e perfino in piena notte, per stivare il carico. “Stress”, gli ha scritto il marinaio. Ma il termine scientifico che indica l’esaurimento della gente di mare è fatigue. Quasi non riescono a dormire, e se prendono sonno non riposano davvero, per via del rumore, delle vibrazioni e del movimento incessante della nave. Dopo aver passato anche solo pochi mesi a bordo, le loro energie toccano il fondo, e la cosa può risultare mortale. “L’80 per cento degli incidenti a bordo è frutto di errore umano”, mi dice Marcus Oldenburg, un ricercatore dell’Istituto centrale di medicina del lavoro e marittima di Amburgo. Secondo Oldenburg, in quegli incidenti non sono le persone che fanno errori. È un fallimento di tutto il sistema che le sovraccarica.
Ulf Christiansen si mette un elmetto bianco e percorre a lunghe falcate la passerella molleggiata, diretto verso la murata buia. Vuole ispezionare la nave. Durante il sopralluogo nessuno deve rivolgergli la parola, ma molti lo fanno lo stesso, perché in porto Christiansen è un personaggio potente. Va dove i marinai vengono “davvero presi per il culo” e parla con i portuali, con cui cerca sempre di avere ottimi rapporti. E quelli magari rinviano le operazioni di scarico. A quel punto, mi spiega Christiansen, molti armatori si mostrano improvvisamente disponibili a scendere a compromessi. Come ad aprile, quando un marinaio filippino ha ricevuto in un attimo 3.800 dollari di arretrati.
Il primo ufficiale, un giovane bielorusso, lo accoglie con i sandali ai piedi. Christiansen gli dice che desidera parlare agli able seamen presenti a bordo. Nessun problema: gli uomini sono convocati via radio. Si presentano quattro filippini, sorridendo timidamente. Il rumore dell’impianto di aerazione e il fracasso dei container impedisce quasi di sentirli. Gli uomini indossano tute rosse incrostate di vernice secca, uno somiglia a un’opera d’arte moderna. Il primo dei tre dice che queste ultime notti ha dormito “dalle due alle tre ore” per volta. “Siamo sotto pressione”, spiega il secondo. Il terzo esclama in tono implorante: “Non vogliamo che ci facciano un rapporto negativo, ci rovinerebbe la carriera”. Temono di finire sulle liste nere delle agenzie di reclutamento e corre voce che se ti capita nessuno t’ingaggi più. Ma dev’essere successo qualcosa di grave perché un marinaio di questa nave chiedesse aiuto via email.
Christiansen entra in un locale illuminato al neon e chiede al capitano di stampargli l’elenco dell’equipaggio. Sulla nave lavorano uomini di otto nazionalità: gli ufficiali vengono dall’Europa orientale, i marinai sono quasi tutti asiatici. È una combinazione non facile: quelli dell’Europa dell’est hanno un modo di fare ruvido e diretto, mentre gli asiatici sono riservati e per gentilezza non dicono mai di no. Christiansen parla a bassa voce con il capitano. Non minaccia, semplicemente gli fa capire che tiene d’occhio la sua nave.
Nel ventre dell’ospedale di Wilhelmsburg Doc Hagelstein entra finalmente nella sala d’attesa. In mano tiene un unguento per le contusioni e una confezione di antidolorifici. Mette tutto sul tavolo davanti a John e gli dice di prendere una compressa solo quando sente dolore: “No pain, no tablets”. Poi gli consegna una relazione scritta in inglese, nel caso in cui nel prossimo porto debba andare dal medico. Sul foglio c’è scritto: sospetto danno al menisco. John riceve anche una fasciatura e il consiglio di piegare il ginocchio il meno possibile. Quindi Hagelstein lo congeda dicendogli che l’autista verrà a prenderlo tra poco. John ha l’aria sollevata, sembra quasi contento di poter tornare a bordo. Sa che raggiungerà la sua nave, tra poche ore salperà e da quel momento tornerà a raschiare via la ruggine e a verniciare, raschiare e verniciare, giorno dopo giorno. A sera, quando la solitudine lo tormenta, John va nella palestra di bordo a fare sollevamento pesi. Lavora con i manubri fino a quando non ne può più. Solo allora piomba in un sonno che narcotizza ogni dolore.
* M. Widmann, Süddeutsche Zeitung, Germania Foto di Oliver Tjaden, traduzione a cura di Internazionale
* Segnalazione dei compagni fiorentini di CortoCircuito
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