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Il lavoro va sempre pagato senza spacciarlo per volontariato

Quali siano i diritti minimi di cui un essere umano può godere in quanto migrante, e quale sia la contropartita, rimane un tema che divide sia la politica sia l’opinione pubblica.

Spesso quel che emerge dagli opposti schieramenti è la totale assenza di una visione che vada oltre la questione dei migranti in sé, come nel caso della proposta del prefetto Mario Morcone – capo del dipartimento immigrazione al ministero dell’interno – che dalle pagine del Corriere della Sera suggerisce di usare il volontariato come strumento per favorire l’integrazione. In particolare, secondo Morcone, i rifugiati o chi ha già presentato richiesta di asilo, per compensare le spese di accoglienza potrebbero svolgere lavori socialmente utili, per esempio nell’agricoltura, nell’edilizia, nell’assistenza agli anziani. Un meccanismo che nella sua proposta non dovrebbe essere obbligatorio, ma servire da strumento incentivante per ottenere il “permesso umanitario”.

Si tratta di una posizione non minoritaria in un paese come l’Italia dove forme di razzismo e di odio verso il basso conquistano quotidianamente spazi di riflessione e azione politica.

La visione sottostante le parole di Morcone va contro il principio che il lavoro serva ad avere una identità, a costruire la propria vita, a essere utile per la collettività. Anche se oggi si parla di migranti, non è difficile riconoscere il rischio di una definitiva istituzionalizzazione del volontariato come obbligo al lavoro senza alcun diritto al salario.

È utile infatti guardare oltre la proposta di Morcone, e confrontarla con le politiche locali e nazionali già in atto o in via di definizione.

Esempi tra tutti sono il volontariato gratuito nelle amministrazioni locali per i destinatari di assistenza al reddito, oppure le condizionalità – tutt’ora ipotetiche –previste per l’assegno di ricollocazione: questi sono elementi chiave delle nuove politiche del lavoro.

Più in generale, appare chiaro lo stravolgimento del concetto stesso di lavoro, in un paese che, nel primo trimestre 2016, conta 3.087.000 disoccupati. Lo stesso paese in cui la domanda di lavoro da parte delle imprese è nel 2016 in calo, nonostante persistano ampi sgravi sul costo del lavoro.

Per questo, l’ipotesi del volontariato apre una contraddizione di fondo: se è possibile fare volontariato significa che quei posti di lavoro potrebbero esistere, tuttavia non si è disposti a retribuirli. Non solo nel privato, ma anche nel pubblico. Il quadro che si delinea è quello per cui il ruolo e il peso del lavoro all’interno della società va via via sfumando non perché “così vanno le cose, così devono andare”, ma per una sequenza ben precisa di interventi politici che non riguardano più solo i migranti ma anche i cittadini italiani.

Gli enti locali stretti nella morsa del patto di stabilità interno, del blocco del turnover e della convenienza politica hanno già ceduto al volontariato. Si ricordi, per esempio, il protocollo siglato tra Anci (l’Associazione nazionale dei comuni), ministero del lavoro e le associazioni del terzo settore, a gennaio del 2015, in attuazione di una legge ordinaria del dicembre 2014, che “prevede che i soggetti beneficiari di misure di sostegno al reddito possano partecipare ad attività di volontariato a fini di utilità sociale, nell’ambito di progetti realizzati congiuntamente da organizzazioni di terzo settore e da comuni o enti locali”.

Più di un dubbio

Per partecipare al programma bisognava essere beneficiari di assistenza al reddito ovvero: a) cassa integrazione guadagni ordinaria e straordinaria, anche in deroga alla vigente normativa; b) integrazione salariale e contributo a seguito di stipula di contratti di solidarietà; c) indennità di mobilità, anche in deroga alla vigente normativa, Aspi e miniAspi (cioè Naspi con il jobs act); d) prestazioni, legate alla cessazione del rapporto di lavoro o alla sospensione o riduzione dell’attività lavorativa, anche a carico dei fondi di solidarietà; e) altre prestazioni di natura assistenziale finalizzate a rimuovere e superare condizioni di bisogno e di difficoltà della persona, erogate a livello nazionale e locale.

Per esempio, un lavoratore in cassa integrazione, cioè non licenziato ma che a causa di una crisi aziendale lavora solo qualche ora o giorno alla settimana, può prendere parte a un progetto di volontariato nel proprio comune, così come i lavoratori (dipendenti) disoccupati che hanno diritto agli assegni di disoccupazione. Lo stesso vale per i più poveri, cioè i destinatari della social card o meccanismi simili attivati a livello locale. Queste persone potranno prestare un servizio presso gli enti locali, senza però essere remunerate.

Il monitoraggio nei primi otto mesi (gennaio-agosto 2015) di attuazione del programma non evidenzia un’enorme diffusione: 119 progetti. In particolare, i progetti finora inseriti si rivolgono principalmente al settore di intervento dell’“accoglienza e inserimento sociale di soggetti svantaggiati e vulnerabili”, con 34 progetti presentati. A seguire, i settori principalmente interessati sono quelli relativi alla “promozione della cittadinanza attiva e partecipata” (17 progetti) e all’“accompagnamento e assistenza sociale” (16 progetti). Un posto di rilievo occupa anche il settore riguardante l’“educazione ed istruzione” (12 progetti).

Se ciò avveniva nel 2015, le recenti dichiarazioni riguardo l’avvio dell’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro (Anpal), come ultimo tassello del jobs act, creano più di un dubbio sulla capacità politica e amministrativa di affrontare il tema del lavoro, nella sua accezione classica e costituzionalmente riconosciuta.

da http://www.internazionale.it/

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