Un’azione considerata però ”ostile” persino dal ministero per lo Sviluppo Economico e dagli enti locali interessati, che stigmatizzano il comportamento dell’azienda del gruppo Thyssen.
Dopo che il 30 aprile era scaduta la cassa integrazione straordinaria per i 611 dipendenti ieri è arrivata ai sindacati la notizia dell’avvio della procedura di mobilità per i dipendenti e della chiusura dei due impianti. Immediata la proclamazione di 16 ore di sciopero nel gruppo e la richiesta di convocazione di un incontro al ministero dello Sviluppo. Nei giorni scorsi il ministero aveva chiesto all’azienda di presentare un nuovo piano industriale.
Ieri sera, dopo l’annuncio del gruppo, l’intervento del ministero che con le Regioni Emilia Romagna, Veneto e Piemonte, il Comune di Copparo e la Provincia di Ferrara ”stigmatizzano” la decisione presa dalla direzione Berco ”che non può non essere considerata come un atto di ostilità nei confronti dei lavoratori e delle istituzioni”.
Nella nota diffusa si registra ”con sorpresa l’ennesimo strappo alle regole di corrette relazioni istituzionali e sindacali compiuto oggi dalla direzione Berco che ha deciso di avviare formalmente la procedura per il licenziamento di 611 dipendenti degli stabilimenti collocati nelle tre realtà”.
Il ministero spiega inoltre di aver già chiesto un incontro con i vertici di ThyssenKrupp per un chiarimento ”che avverrà in tempi rapidissimi”. Un occasione in cui si sottolinea sarà ribadito quanto le istituzioni hanno già detto chiaramente ai vertici della Berco. Ovvero: che la disponibilità al confronto è massima, ma i problemi occupazionali vanno affrontati con gli ammortizzatori sociali conservativi (quindi senza la chiusura di alcun impianto) e che il piano di ristrutturazione deve essere condiviso, anche dall’acquirente”.
Il problema appare però ormai decisamente un altro, e la “correttezza” c’entra molto poco. Le multinazionali – in Italia come altrove – ritengono di non avere alcun obbligo né verso i loro dipendenti, né verso il paese che ha messo loro a disposizione infrastrutture, vantaggi fiscali, ecc. La domanda è quindi: cosa si fa quando un’impresa, multinazionale o “indigena”, dichiara di non voler proseguire più alcuna attività? Si resta a tamponare con gli ammortizzatori sociali oppure si mette in moto una politica industriale?
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