La “speranza in cui poter credere”, di cui parla sempre Obama, ha rivelato il suo volto più minaccioso e violento. L’assassinio extragiudiziale di Michael Brown, Eric Garner e del dodicenne Tamir Rice, tutti maschi neri e disarmati uccisi da poliziotti bianchi, ha creato una tempesta emotiva nel paese, presto sfociata in rabbia e in proteste di una dimensione che non si vedeva negli Stati Uniti da molti anni.
A far precipitare le cose, più che l’uccisione in sè di queste persone, è stato il rifiuto da parte di due diversi giudici di incriminare i poliziotti che avevano ucciso Brown e Garner. In particolare, a sconvolgere gli americani e il mondo, è stato il video in cui si vedeva Garner morire strangolato da un poliziotto, mentre lo pregava di smettere, urlando “I can’t breathe” (Non riesco a respirare!).
Proteste di massa
La risposta è stata spontanea, globale, e organica, con decine di migliaia di persone, appartenenti a ogni tipo di cultura e di etnia, che hanno partecipato ogni tipo di iniziativa, dai silenziosi sit-in in cui si fingeva di essere tutti cadaveri (rinominati con un gioco di parole “die-in” [pronuncia: dai-in], in cui “die” significa morto) alle manifestazioni improvvisate dagli studenti usciti spontaneamente dalle scuole; dalle veglie di massa alle manifestazione lungo le strade tortuose dei centri delle città; dall’occupazione delle strade e degli svincoli principali ai semplici individui che con passione urlavano “La vita dei neri è importante!” nel mezzo di spazi pubblici affollati.
Intorno a questo argomento si è mobilitato chiunque, dai senzatetto agli immigrati più recenti, ai lavoratori edili, alle infermiere, così come intere facoltà di studenti di medicina e di legge. Persino dei giocatori della NBA (Basket) e della NFL (Football) e altre celebrità hanno espresso la loro solidarietà. In molti casi i manifestanti hanno connesso queste morti con la brutalità dello stato e la collusione con i cartelli della droga in Messico, con proteste di solidarietà con Ferguson e Ayotzinapa che si sono sovrapposte nelle ultime settimane.
Grazie ai social media, oggi i video che mostrano la polizia che uccide o picchia a sangue degli innocenti sono ampiamente diffusi e la bugia per cui i poliziotti sono li per “servire e proteggere” (“to serve and protect”, uno slogan della polizia molto diffuso) appare sempre più evidente. Come era facile prevedere, la copertura data a questi eventi da parte dei mass media ufficiali si è spostata da un ritratto abbastanza onesto degli eventi iniziali e della risposta popolare a un interesse sempre più marcato e sensazionalistico sugli elementi violenti, gli anarchici che spaccano le vetrine e i provocatori al soldo della polizia. Ma questo movimento è molto più che una valvola di sfogo per la rabbia popolare. Quello a cui stiamo assistendo è il principio di un cambiamento radicale nella consapevolezza che gli americani hanno della loro società, dei veri interessi di classe e dei rapporti di forza che la attraversano.
Il KKK (Ku Klux Klan) è stato, nel passato, un forza importante negli Stati Uniti, che riceveva sostegno tanto dalle piccole città del sud quanto dalla Casa Bianca. Una forza che non solo colpiva e terrorizzava le minoranze etniche e razziali e chi le difendeva ma che regolarmente organizzava manifestazioni di massa a sostegno del razzismo. Fino a qualche anno fa le tensioni razziali tendevano a degenerare in “rivolte razziali” fortemente polarizzate e caratterizzate da saccheggi e scontri tra neri, latinos, asiatici e altri. Ma questa volta la risposta a questa spregevole parodia della cosiddetta giustizia borghese è stata del tutto diversa. È emersa una nuova ondata di azioni e di solidarietà che ha visto unite la classe operaia e i giovani, anche se in modo embrionale, individuale e non coordinato. Il modo di pensare e di vedere la questione delle razze è cambiato in modo molto radicale negli ultimi anni, riflettendo la maggiore integrazione e concentrazione dell’economia, il cambiamento demografico come la maggiore facilità con cui può accedere alla cultura e ai mezzi di comunicazione. Quindi, e non solo a causa dell’elezione di un presidente nero, in futuro sarà sempre più difficile per la classe dominante giocare grossolanamente la carta del razzismo, che porta i lavoratori a scannarsi a vicenda.
Mancando una chiara guida da parte dei leader del movimento operaio su questa o su qualsiasi altra questione vitale per la classe lavoratrice, la necessità si è espressa attraverso il caso e ha trovato la sua strada verso la superficie attraverso questo canale. L’indignazione per il razzismo e gli abusi incessanti si è inserita in una profonda riserva di frustrazione. Milioni di americani, in particolare i giovani, si sono sentiti per molto tempo impotenti di fronte a poteri forti, economici e sociali, che sembravano essere oltre il loro controllo. Decine di migliaia di persone che prima erano “apatiche” o “apolitiche” hanno all’improvviso maturato una coscienza politica. Le illusioni sull’imparzialità della giustizia americana o sulla presunta America “post-razziale” sono svanite nel nulla.
Si tratta di un cambiamento qualitativo, anche se per ora il movimento non ha una vera e riconosciuta leadership o delle chiare rivendicazioni, limitandosi per lo più a una mera solidarietà antirazzista e alla rabbia contro la brutalità della polizia. Ma insieme ai movimenti del Wisconsin e a quello di Occupy, rappresenta un ulteriore passo nella trasformazione della coscienza americana. Sempre più persone si stanno rendendo conto che i problemi che abbiamo di fronte hanno radici profonde che non possono essere semplicemente ignorate o nascoste.
Brutalità della polizia
Gli Stati Uniti hanno una lunga e sporca storia per quanto riguarda il razzismo e la brutalità dello stato. A partire dal diverso trattamento dei ribelli neri da quelli bianchi dopo la rivolta di Bacon nel 1676, all’impiccagione, lo scorticamento, la decapitazione e lo squartamento di Nat Turner a seguito della fallita rivolta degli schiavi del 1831; dai cani poliziotti aizzati contro i pacifici manifestanti a Birmingham nel 1961, al bombardamento da parte della polizia degli attivisti di MOVE a Philadelphia nel 1985; dal video che ha ripreso il pestaggio di Rodney King a Los Angeles nel 1991, all’assassinio a sangue freddo di Amadou Diallo, un immigrato disarmato colpito da 41 proiettili sparati dagli agenti della polizia di New York; la lunga scia di sangue della repressione e dell’orrore ha origine molti secoli addietro e continua tutt’oggi su basi quotidiane.
Dai calcoli della stessa FBI, ogni anno oltre 400 “omicidi giustificabili” vedono coinvolti poliziotti che uccidono semplici cittadini. Poiché queste dati derivano da una auto-dichiarazione da parte degli stessi servizi di polizia, il numero di morti e di episodi di violenza della polizia, anche mentre i sospetti sono in loro custodia, è probabilmente molto più alto. Una recente indagine condotta dal Wall Street Journal su 105 dei 110 più grandi dipartimenti di polizia rispetto agli omicidi che vedono coinvolti degli agenti, ha rivelato che i dati federali non includono o travisano centinaia di incontri fatali con la polizia. Il criminologo della Università del Sud della California, Geoff Alpert, ha scoperto che circa il 98,9% delle accuse per “uso eccessivo della forza” vengono archiviate come giustificate. Perfino il Dipartimento federale di Giustizia, una componente centrale dell’apparato statale americano, ha riconosciuto che nei dipartimenti di Albuquerque e Cleveland “vige una modalità operativa o comunque una pratica diffusa dell’uso eccessivo della forza, incluso l’uso letale, in violazione del quarto emendamento (l’emendamento alla costituzione americana che tutela il cittadino dagli abusi del potere statale ndt).”
Evidenti disparità razziali continuano ad esistere, nonostante le forme legalizzate di discriminazione e segregazione siano state abolite con le lotte di massa del recente passato. Queste disparità si possono osservare nel livello di povertà, l’accesso alle cure, agli alloggi e all’educazione, nell’incidenza delle malattie cardiache, del diabete, e più in generale nell’aspettativa e nella qualità della vita. Ma diventa più evidente e quindi, forse, più inaccettabile quando si parla di violenza da parte della polizia. Agenti bianchi uccidono persone nere due volte alla settimana negli Stati Uniti – con una media di 96 casi all’anno. Secondo ProPublica, i giovani neri hanno 21 volte più possibilità di essere colpiti da un proiettile della polizia rispetto ai loro coetanei bianchi. “I 1217 casi di morte causata sparatorie con la polizia dal 2010 al 2012 raccolti nei dati dei federali, mostrano che i neri, di età compresa dai 15 ai 19 anni, sono stati uccisi con una frequenza di 31,17 ogni milione, mentre i loro coetanei bianchi sono stati uccisi dalla polizia per 1,47 ogni milione.” A Ferguson, il 92% di tutte le persone arrestate nel 2013 era nera, nonostante i neri siano solo il 65% della popolazione.
Non stupisce quindi constatare che tra quelli che pensano che la polizia locale tratta allo stesso modo sia i bianchi che i neri, i bianchi siano il doppio dei neri (74% vs 37%). Tra i latinos, spesso anche loro vittime di discriminazioni razziali, la situazione è simile, con solo il 45% che pensa che la polizia locale non abbia pregiudizi. Si è portati a pensare quindi che il nesso tra razza o etnia e la violenza della polizia sia incontrovertibile.
Eppure, le cose non sono così semplici, come spesso capita con fenomeni così sfaccettati. Uno studio del 2003 ha dimostrato, infatti, che l’uso della violenza da parte della polizia può essere collegato al livello di sviluppo economico di una zona urbana – tradotto, maggiore è la povertà, maggiore è il tasso di criminalità, maggiore è la violenza della polizia, indipendentemente da quale etnia sia più diffusa in quell’area. Dal momento che, per via di una discriminazione istituzionale (cioè perpetuata dalle istituzioni statali), i neri e i latinos sono per lo più concentrati nelle zone povere del paese, è facile capire come si innesti un ciclo perpetuo di crimine, razzismo, e violenza della polizia.
Il razzismo della polizia non è quindi solo una costruzione ideologica, derivante da “persone cattive”, o “cattive volontà” o ancora “cattive idee”. Si tratta piuttosto del riflesso di una realtà oggettiva più profonda. L’essere sociale determina la coscienza sociale. La penuria conduce a una lotta per la conquista di risorse limitate. Chi possiede il grosso della ricchezza è una minoranza, che deve quindi dotarsi di una forza capace di colpire con devastante brutalità la maggioranza povera, allo scopo di “tenerla in riga”. Ma la mera violenza non basta. Servono anche altri mezzi, molto più subdoli. Lo sviluppo di un sistema di discriminazione fondato sul colore della pelle e il revival dello schiavismo sono diventati un’arma indispensabile nell’arsenale del “divide et impera” a disposizione dei capitalisti. Facendo si che gli sfruttati e gli oppressi lottino fra di loro per le briciole, è più facile distrarli dalla vera relazione tra ricchezza e potere che è alla base della società.
È il razzismo strutturale del sistema capitalista che genera una mentalità e una ideologia razzista, non il contrario. Non c’è alcun dubbio che ci sia una componente fortemente razzista nell’individuazione degli obiettivi, nel peso e nella frequenza della brutalità della polizia. Non appartiene al marxismo la tendenza a ridurre questo o ogni altro tipo di complesso fenomeno sociale esclusivamente e meccanicamente alla lotta di classe. Ma in ultima analisi, se non ci fossero le classi sociali, non ci sarebbe bisogno della polizia, e senza la polizia non ci sarebbe ovviamente la brutalità della polizia. Solo in una società dove esistesse la sovrabbondanza, in cui non ci fossero povertà o penuria, e non esistesse quindi la lotta per la sopravvivenza, solo in quel caso i pregiudizi comincerebbero a svanire. Èper questo che i marxisti spiegano continuamente che non esiste alcun antidoto efficace contro il razzismo all’interno del sistema capitalista, che forma e divide la società al solo scopo di garantire il dominio della borghesia.
Questo chiaramente non significa che dobbiamo aspettare il socialismo per lottare contro il razzismo e la brutalità della polizia. Al contrario! Sarà proprio durante il processo della rivoluzione socialista, che unirà insieme la lotta politica ed economica contro i padroni, così come quelle contro il razzismo, la misoginia, la xenofobia e tutte le altre forme di discriminazione e oppressione, sarà in quel processo che si forgerà l’unità di classe necessaria per vincere. Èsolo attraverso la lotta comune contro i nostri comuni nemici che la classe lavoratrice può davvero capire quanto abbiamo in comune gli uni con gli altri, e nulla in comune con i padroni.
La classe lavoratrice può passare al contrattacco e vincere
Solo la lotta unitaria e militante della classe lavoratrice può lottare e sconfiggere il potere dei padroni. Molte pantere nere (cioè militanti del Black Panthers Party), così come Martin Luther King e Malcolm X, stavano arrivando alla stessa conclusione. Prima di essere assassinato a sangue freddo dalla polizia di Chicago e dalla FBI, Fred Hampton (leader del Black Panthers Party) scrisse queste parole:
“Dobbiamo ammettere alcuni fatti. Le masse sono povere, le masse appartengono a quella che si chiama la classe più bassa, e quando parlo delle masse, intendo le masse bianche, la masse nere, le masse marroni e anche le masse gialle. Dobbiamo ammettere il fatto che anche se c’è gente che dice che il fuoco si combatte meglio con il fuoco, la verità è che il fuoco si spegne con l’acqua. Allora diciamo che non possiamo combattere il razzismo con il razzismo. Il razzismo lo combattiamo con la solidarietà. Allora diciamo che non possiamo combattere il capitalismo con il capitalismo dei neri; il capitalismo si combatte con il socialismo.”
Data la sua posizione nella società, cioè quella di avere milioni di lavoratori impiegati nelle principali industrie, il movimento operaio deve essere l’avanguardia di questa lotta. Purtroppo, oggi non è così. La politica di collaborazione di classe degli attuali leader del movimento operaio gli ha portati a balbettare qualche frase di rito di fronte a una questione decisiva come questa; mentre servirebbe una mobilitazione di massa dei lavoratori iscritti al sindacato nelle piazze, azioni di sindacalizzazione su larga scala, campagne di educazione di massa per sradicare il razzismo dalle organizzazioni dei lavoratori, scioperi e scioperi generali, e la fondazione di un partito di massa dei lavoratori per combattere politicamente i padroni. Ad ogni modo, anche questi appelli simbolici all’unità sono un passo avanti rispetto al passato, quando i sindacati erano impegnati a sostenere in prima linea gli attacchi razzisti.
Non dobbiamo perdere di vista anche il fatto che la militarizzazione della polizia è un sintomo della debolezza, non della forza dello stato borghese. Devono ricorrere alla forza bruta e alla intimidazione perchè la carota economica che hanno fatto oscillare danti al naso della classe lavoratrice dalla fine della Seconda Guerra Mondiale in poi non è più disponibile.
Gettare le fondamenta del futuro
La scelta scellerata di non incriminare i poliziotti coinvolti nell’assassinio di Micke Brown e Eric Garner ha spinto le persone a scendere in piazza, così come non se ne vedeva da tanto tempo negli Stati Uniti. Per molte persone, capire che ci sono delle discriminazioni razziali, di genere o altro, e che queste discriminazioni sono parte integrante del sistema capitalista, rappresenta un primo importante passo verso lo sviluppo di una più profonda coscienza di classe. Il risveglio politico che deriva da queste questioni lo si può ben definire “il guscio esterno di bolscevismo immaturo”, per citare Trotskij quando parlava del nazionalismo dei lavoratori delle nazionalità oppresse dallo sciovinismo della Russia zarista (in contrapposizione con il nazionalismo borghese e piccolo borghese).
Questa recente ondata di proteste e di solidarietà interrazziale sono un ulteriore chiaro sintomo di una avanzata nella polarizzazione della società americana, una polarizzazione su linee di classe, e non su linee razziali, come sarebbe stato più probabile in passato. Ma al contrario di quello che pensano molti militanti e attivisti, nella loro disperata impazienza di voler “fare qualcosa”, il compito principale dei marxisti non è quello di “costruire il movimento”.
Il proliferare a livello mondiale delle proteste prova ampiamente che quando le condizioni sono mature, i movimenti emergono come risultato delle contraddizioni e delle dinamiche del sistema stesso. Ma come disse una volta Sam Adams (uno dei protagonisti della rivoluzione americana, ndt), che sapeva una o due cose sulla rivoluzione, “è che il nostro compito non è quello di creare gli eventi, ma quello di migliorarli saggiamente”.
Così, mentre i marxisti americani hanno partecipato attivamente a dozzine di queste proteste, in diverse sono intervenuti dal palco degli oratori, e alcune le hanno anche organizzate, il nostro compito principale oggi resta quello di “spiegare pazientemente” e cercare di connetterci con quei soggetti che stanno cercando delle risposte e una prospettiva a lungo termine per capire come si possa, collettivamente e una volta per tutte, cambiare questo sistema. Senza una seria organizzazione e e una chiara piattaforma rivendicativa che sappiano collegare tra loro le necessità della classe lavoratrice e dei giovani, come posti di lavoro, salari più alti, la possibilità di saldare i propri debiti, il diritto alla salute e all’educazione, senza queste cose il movimento è destinato a finire. Ma anche fosse, i problemi concreti dei lavoratori e dei giovani rimarranno, portando inevitabilmente in futuro alla nascita di nuovi e più grandi movimenti.
Accettare che il veleno del razzismo non possa essere eliminato entro i limiti del capitalismo è in realtà un passo molto importante da fare, ed un passo che la maggior parte delle persone non fa alla leggera. Ma portare le proprie convinzioni alla loro logica conclusione, vuol dire decidere di fare qualcosa al riguardo. Come dice il detto, “se non sei parte della soluzione, sei parte del problema”. È compito dei marxisti aiutare le persone ad arrivare a queste conclusioni rivoluzionarie.
L’esperienza insegna che è proprio dopo la fine di un movimento che è più facile per noi avere una dialogo serio con gli elementi più lungimiranti e disposti al sacrificio, quelli che hanno attraversato questa esperienza, ma che ancora vogliono qualcosa di più essenziale. Non sarà un processo lineare, o automatico, ma intervenendo in questo e negli altri movimenti che si svilupperanno nel prossimo periodo, nei mesi e negli anni a venire, riusciremo a reclutare nuovi compagni alle idee del marxismo, del socialismo e della TMI.
* da www.marxism.com (traduzione di Falcemartello)
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