Per attirare gli investitori in India, il primo ministro Narendra Modi propone di aumentare la flessibilità lavorativa. Come dimostra l’importante sciopero del 2011-2012 alla Maruti-Suzuki, i giochi non sono del tutto fatti. Solidarietà tra precari e dipendenti, rinnovamento sindacale: i giovani lavoratori resistono e sconvolgono il repertorio tradizionale della lotta in fabbrica.
Sesto produttore mondiale con due milioni di autoveicoli costruiti nel 2013 (1), l’India spera di salire al quarto posto entro il 2016. La riforma del lavoro presentata a ottobre 2014 dal nuovo primo ministro Narendra Modi dovrebbe favorire un ritorno alla crescita pari a quella che il settore ha conosciuto negli anni 2000 (nell’ordine dell’8% l’anno in media). Essa impone la diminuzione degli ispettorati del lavoro, la «semplificazione» di alcune leggi, l’allungamento della durata dell’apprendistato, spingendo al ricorso sistematico a una mano d’opera non stabile e pagata meno (2). Queste misure sono in parte destinate ad attirare gli investitori stranieri, mentre la campagna del governo «Made in India» è al suo culmine. Esse rischiano di aggravare la precarizzazione che coinvolge l’industria da parecchi anni e che ha fatto emergere negli operai giovani pratiche e aspirazioni nuove. Il conflitto che ha scosso il costruttore Maruti-Suzuki nel 2011 e 2012, dove la mobilitazione persiste malgrado la durezza della repressione, funge sempre da modello.
La zona industriale di Manesar, sorta all’inizio del millennio, si estende ai bordi dell’autostrada che collega New Delhi a Jaipur, che si percorre in una nebbia di polvere e inquinamento, con i taxi collettivi (autorickshaws) che faticano a farsi strada tra i giganteschi camion. Tra un McDonald’s e un campo incolto dall’erba ingiallita, grandi cartelli pubblicitari annunciano la prossima nascita di un lotto di appartamenti – «lusso, calma e serenità». Una volta superata la nuova città di Gurgaon, polmone economico di New Delhi dove si costeggiano centri commerciali, call center, abitazioni private, fabbriche tessili e agglomerati operai, un cartello avvisa: «Benvenuti nella zona industriale modello». È in questa città rettilinea e senza alberi di Manesar che si trovano le nuove unità produttive della Maruti-Suzuki.
Nata sulle macerie dell’impresa di Stato Maruti Motors Limited, creazione del figlio del primo ministro Indira Gandhi, la società nel 1981 prende la forma di una joint-venture con la giapponese Suzuki Motors, società straniera pioniera sul suolo indiano. Da questo partenariato pubblico-privato nasce la prima fabbrica a Gurgaon, dove si assembla la famosa Maruti 800, piccola utilitaria dalle forme angolose. In una situazione di quasi monopolio, l’impresa avvia allora la «rivoluzione delle quattro ruote»: commercializza dei motori a buon mercato accessibili alle classi medie-basse. Ben presto, le principali arterie urbane si riempiono di Maruti, simbolo dell’India moderna. Nel corso degli anni ’90, decennio della liberalizzazione dell’economia, lo Stato si disimpegna progressivamente fino alla privatizzazione completa nel 2007 in favore di Suzuki, che detiene il 54,2 % del capitale. Quell’anno a Manesar sono costruite delle linee di produzione supplementari progettate per diventare la fabbrica d’eccellenza del gruppo.
Dagli anni ’80 e per la prima volta nel mondo industriale indiano, il management di Maruti- Suzuki inculca la «cultura del lavoro» attraverso la puntualità, le scadenze rispettate, lo spirito di performance. La direzione applica il «toyotismo», ricette di gestione del personale elaborate dal gigante giapponese Toyota. Macchine timbra cartellini sono installate ai portoni di entrata, «anche per i direttori», precisa R. C. Barghava, presidente del gruppo Maruti e autore di un libro sulla sua storia (3). Gli operai arrivano quindici minuti prima per una serie di esercizi fisici obbligatori. Secondo il famoso principio del kaizen (messo a punto in Giappone), riunioni di emulazione collettiva, i «cerchi di qualità» ora diffusi complessivamente nel mondo dell’automobile intimano agli impiegati di proporre ciò che potrebbe migliorare la produttività giornaliera. Coloro che partecipano guadagnano in più il privilegio di pranzare con il capo. Un solo sindacato è tollerato nell’azienda: il Maruti Udyog Kamgar Union (Muku), un sostituto della direzione impiantato nel sito storico di Gurgaon. La fabbrica di Manesar non dispone di alcun delegato.
Aperte nel 2007, le nuove unità sono edificate «sul modello della fabbrica di Kosai, in Giappone, per introdurvi un alto livello di automazione e le migliori pratiche di Maruti-Suzuki» s’inorgoglisce Barghava. Venuti dai villaggi vicini – molti precari tornano per la mietitura –, i circa quattromila operai lavorano sei giorni su sette, otto ore e mezza al giorno, senza contare il lungo tragitto in autobus e il quarto d’ora d’anticipo obbligatorio. Come lo raccontano Sateesh Kumar e Kushi Ram, rimossi nell’agosto 2012, «per i figli di contadini, era prestigioso entrare in Maruti. Ma la disillusione è stata veloce. Sulla catena di montaggio, la pressione è permanente. Abbiamo quaranta secondi per ogni automobile per effettuare le nostre verifiche. Ci prendono per dei robot! Quando il collega non arriva a dare il cambio, dobbiamo continuare, e non siamo pagati per gli straordinari».
I dipendenti rifiutano l’adesione al sindacato interno
Gli operai sanno ugualmente che i loro stipendi non raggiungono – e di gran lunga – quelli della fabbrica madre di Gurgaon, dove i lavoratori strutturati (in minoranza) guadagnano circa 30.000 rupie al mese (350 euro), una somma che talvolta vale loro il soprannome di «aristocratici della classe operaia». A Manesar, la quota fissa dei salari prima del 2012 era soltanto di 5.000 rupie (58 euro), con una retribuzione totale che raggiungeva in media 8.000 rupie (85 euro) per un interinale, e 17.000 rupie (200 euro) per un lavoratore fisso.
Qualche minuto di ritardo, e la direzione preleva la metà dello stipendio giornaliero. Un’urgenza familiare senza aver avvertito con anticipo, e quasi tutta la quota variabile scompare. «Gli errori sono registrati nelle lettere di richiamo. Se tu ne hai due o tre, allora non puoi diventare un lavoratore dal posto fisso», riferisce Bouddhi Prakash, operario presso Suzuki Powertrain, che produce motori Diesel e trasmissioni. L’intensificazione del lavoro e la differenza di status tra dipendenti fissi e interinali sono al centro del conflitto che scoppia nel 2011. Nel mese di giugno, quando Maruti-Suzuki annuncia il passaggio di ruolo per la metà soltanto dell’organico di Manesar, gli operai presentano all’amministrazione locale una domanda di iscrizione a un sindacato indipendente. Fin dal giorno dopo, la direzione spinge i dipendenti a firmare una dichiarazione che attesti la loro adesione al sindacato interno. Solo il 10% si piega all’intimazione, altri cominciano un sit-in. È l’inizio del movimento.
«Quando siamo arrivati, uscivamo tutti dagli stessi istituti tecnici. Assieme eravamo apprendisti in fabbrica, si sono creati forti legami di amicizia. Di colpo alcuni si sono ritrovati a essere di ruolo, altri sono rimasti precari, per lo stesso lavoro e per metà retribuzione», testimoniano Kumar e Ram. Oltre alle differenze di stipendio, gli interinali non hanno accesso agli autobus aziendali e al premio di Diwali (festa delle luci, equivalente al Natale). Provenienti da famiglie contadine povere, questi giovani tra i 20 e i 25 anni provano un misto di invidia e rivolta nei confronti del modo di vivere dei centri urbani e commerciali di Gurgaon ai quali non possono accedere. Ranjana Padhi, membro dell’organizzazione non governativa People’s Union for Democratic Rights (Pudr), analizza la mobilitazione come «il frutto di una forte consapevolezza di ciò che lo sfruttamento vuol dire, in un contesto dove la precarietà è la norma, mentre l’80% della mano d’opera era regolarmente assunta negli anni 1980. È ciò che ha fatto nascere questa solidarietà inedita tra lavoratori fissi e precari». Un’unità favorita dall’occupazione della fabbrica, un metodo d’azione poco diffuso a Manesar, dove ci si raggruppa di solito davanti ai cancelli del sito senza entrarvi.
Dopo molte sospensioni e scioperi bianchi, la direzione decide la chiusura (lock-out) per trenta giorni per sciopero illegale con l’obbligo di firmare un impegno di «buona condotta» per poter tornare al lavoro. Sebbene i sindacati siano legali dal 1927, il diritto di sciopero non esiste in India, che non ha ratificato la convenzione dell’Organizzazione internazionale del la- voro (Oil) sulla contrattazione collettiva. Dopo nove mesi di lotte, nel marzo 2012, gli operai ottengono il riconoscimento del loro sindacato, il Maruti Suzuki Workers Union (Mswu). Non si era visto un tale braccio di ferro dal movimento contro la precarizzazione del 2005 presso il produttore della due ruote Honda Hero.
Tuttavia, poiché la direzione disdegna sempre le rivendicazioni, la tensione si accresce il 18 luglio 2012 quando un caporeparto insulta un operaio facendo riferimento alla sua appartenenza alla casta degli intoccabili e lo licenzia. Il conflitto degenera. Avnish Kumar Dev, direttore generale delle risorse umane, trova la morte nell’incendio di uno degli edifici. Sono arrestati centoquarantotto operai, tra i quali i dodici rappresentanti del nuovo sindacato. Il mese successivo, la direzione licenzia senza preavviso più della metà del personale organico. «I lavoratori indiani non sono degli assassini, commenta l’esperto dei movimenti operai Djallal Heuzé. Si ricorre alla violenza quando non ci si può più esprimere altrimenti, quando il sentimento di ingiustizia è così forte che tutto esplode.»
A seguito della carcerazione dei dodici rap- presentanti sindacali, è stato costituito un comitato provvisorio per sostenerli e proseguire il lavoro di sindacalismo autonomo. La direzione di Maruti-Suzuki ha fatto delle concessioni. Ha risposto a molte rivendicazioni, predisponendo degli autobus per gli interinali, aumentando i loro salari del 25% e quelli dei lavoratori fissi del 75%. In particolare, ha annunciato l’abbandono progressivo del lavoro interinale, sostituito dal ricorso a lavoratori occasionali assunti direttamente dall’impresa. Questi operai usa e getta sono pagati un po’ meglio degli interinali, con 12.000 rupie (140 euro) al mese, ma sono rimossi ogni sei mesi e sostituiti da altri. Essi vengono da regioni più lontane, al fine di evitare i contatti con le persone licenziate e la solidarietà con gli abitanti dei villaggi.
Nella primavera del 2013, la casa madre giapponese ha riorganizzato la direzione indiana e imposto due dei suoi – un amministratore aggiunto e un consigliere alle risorse umane. «In Giappone non ci sono stati scioperi durante gli ultimi cinquantotto anni. L’idea è di importare i metodi delle risorse umane del Giappone in India», rivela un dirigente nel giornale economico Mint (4). Per Suzuki, la posta in gioco è enorme: la multinazionale punta sull’Asia, e la fabbrica indiana è la più redditizia delle sue filiali. Polmone economico della regione, indispensabile ai subappaltatori che impiegano circa trentamila operai nei quartieri popolari e nelle baraccopoli di Gurgaon, Maruti-Suzuki sa esercitare il suo potere presso le autorità locali dello Stato dell’Haryana. Essa ha più volte brandito la mi- naccia della delocalizzazione, evocando allettanti proposte da altri Stati indiani. Allora il governo regionale ha usato il metodo forte.
Unione sacra tra giustizia, Stato e multinazionale
Un migliaio di poliziotti inviati dall’amministrazione locale sono appostati in modo permanente alla fabbrica di Manesar e all’interno dei suoi pullman. Sono state installate nuove videocamere. Fino a oggi, i centoquaranta operai, tutti accusati di omicidio, non hanno ottenuto la libertà provvisoria, un diritto ac- cordato di solito dopo alcune settimane di carcerazione. «L’incidente ha compromesso la reputazione dell’India nel mondo. Gli investitori stranieri temono di investire i loro capitali in India per paura dell’agitazione operaia», si può leggere nel testo della sentenza dell’Alta Corte del Punjab, dove è stato trasferito il processo.
Nonostante quest’unione sacra tra la giustizia, lo Stato e la multinazionale, la gioventù operaia non abbandona la sua rivendicazione di organi rappresentativi autonomi, indipendenti dalle confederazioni sindacali. Prima confederazione fondata nel 1920, la All India Trade Union Congress (Aituc), legata al Partito comunista indiano, è stata a lungo la più influente sulla zona industriale Gurgaon-Manesar. «È molto istituzionalizzata e lontana dalla gente: i suoi dirigenti sono dei notabili anglicizzati, formati a risolvere i conflitti dinanzi ai tri- bunali», spiega Heuzé. Con la liberalizzazione dell’economia e l’arrivo delle imprese straniere, i sindacati confederali si sono ripiegati sulla funzione pubblica e su alcune imprese di Stato. Deboli nel settore privato, essi rappresentano solo i lavoratori dipendenti, tralasciando gli interinali che ormai costituiscono il grosso della mano d’opera. Dopo un tentativo di affiliazione alla All India Trade Union Congress, «gli operai hanno deciso di agire senza il suo avallo», spiega Nayan Jyoti, studente sindacalista e membro dell’organizzazione Krantikari Naujawan Sabha. Hanno dato vita a sessioni di autoformazione e a modalità decisionali proprie, per essere rappresentati dai lavoratori della fabbrica piuttosto che da quadri esterni. Una mobilitazione che paga: nell’aprile 2014, il sin- dacato indipendente Mswu è stato eletto nelle due fabbriche, Manesar e Gurgaon.
(1) Cifre dell’Organizzazione internazionale di costruttori di veicoli a motore, www.oica.net.
(2) Cfr. «Shramev Jayate: Modi govt plucks some key low- hanging fruit for labour reforms», The Indian Express, New Delhi, 17 ottobre 2014.
(3) R. C. Barghava, con Seetha, The Maruti Story. How a Public Sector Company Put India on Wheels, HarperCol- lins, New Delhi, 2010.
* da Le Monde Diplomatique (Traduzione di Monica Guidolin); segnalazione dei compagni di CortoCircuito di Firenze
(4) Amrit Raj, «Maruti Manesar’s Fallout: A Management Shuffle», Mint, New Delhi, 9 aprile 2013.
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