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Sull’Unione Europea e sull’euro

L’analisi e la proposta politica di Ross@. Indice del documento

1. Introduzione
2. Teoria e forma della governance dell’Unione Europea: verso una nuova forma-Stato
3. L’Esercizio della “governance”: trattati, dispostivi e nuovi apparati
4. Capitalismo finanziario, debitocrazia e unione monetaria: l’euro come strumento politico della governance
5. Geopolitica e imperialismo

1. Introduzione

L’analisi e la sintesi politica che Ross@ di seguito propone, muove dalla propria riflessione sul tema Europa e unione monetaria. Non è nelle intenzioni di Ross@ fare della semplice “politica culturale”, ma ritiene che ragionare su questi temi sia già in sé un atto politico fondamentale e necessario, per incidere concretamente e per promuovere attivamente un orientamento politico in grado sovvertire lo stato di cose presente.

L’angolo prospettico scelto ribadisce la centralità della “questione europea” e del superamento del sistema di governance incarnato nell’UE, come elemento chiave di una politica di emancipazione, che contraddistingua una reale forza di sinistra e anticapitalista. Il presupposto del ragionamento contenuto nella proposta ruota attorno al tema della “rottura e dell’unità”. Rottura con il sistema di “governance” della UE e unità in quanto aggregazione più ampia possibile sulla base dei contenuti, con tutte le forze e i singoli che si ritrovano nella dimensione della rottura. Non intendiamo con questo una semplice sommatoria di ciò che già esiste, nell’intento di riunire le membra sparse della sinistra antagonista, in modo autoreferenziale e identitario, ma cercare aggregazione sulle tematiche proposte.

Siamo consci che abbiamo scelto un angolo prospettico che ha favorito certe tematiche trascurandone volutamente altre. Riteniamo che le questioni volontariamente omesse debbano essere affrontate in una riflessione dedicata: per esempio la questione lavoro, precarietà e sindacato nel contesto italiano ed europeo, che ci ripromettiamo, quindi, di mettere in campo a breve. Inoltre, è necessario aprire questa riflessione ad un contesto extra-nazionale e più ampio. Anche su questo versante ci proponiamo di rimandare a breve lo sviluppo di un dibattito e un’azione politica che coinvolga soggetti non italiani.

2. Teoria e forma della governance dell’unione europea: verso una nuova forma stato.

Situazione

La costruzione europea e la sua architettura istituzionale vennero sin dall’inizio concepiti come un progetto politico, pertanto è riduttivo considerare l’Unione europea come la sedimentazione graduale di una sorta d’inevitabile integrazione economica. La lettura dell’UE come costruzione incompleta poiché “solo economica” (e per questo mancante della sua parte politica) è del tutto fuorviante, ma alimenta ancora gran parte dell’asfittico dibattito italiano sul tema Europa. Va innanzitutto sottolineato che tale costruzione sovranazionale è un progetto di lungo periodo, databile almeno a partire dalla fine della seconda guerra mondiale[1] e di cui solo ora incominciamo ad intravvedere la sua compiuta forma. Le prime comunità europee traggono origine, infatti, da una precisa ideologia, l’ordoliberalismo[2], che pone come principio cardine la costruzione di uno stato regolatore, basato sulla tutela del principio di concorrenza a la salvaguardia del libero mercato.  Si tratta di una dottrina e di un’ideologia, che considera lo stato di diritto come elemento formalizzante delle regole del gioco economico, in cui gli unici veri attori sono i singoli, considerati come individui o imprese. Lo stato di diritto cambia forma in questo capitalismo rinnovato, facendosi esclusivamente garante di un quadro giuridico-istituzionale dove l’unico obiettivo è, appunto, la garanzia delle regole del gioco economico tra imprese e singoli.

Altro elemento cardine della costruzione europea è rintracciabile nel funzionalismo.  Un approccio che operò una svolta nel campo delle relazioni internazionali, affermando il principio di separazione dell’autorità sovrana da un territorio delimitato. La “sovranità” onnicomprensiva avrebbe dovuto frammentarsi ed essere ricondotta ad attività specifiche di gestione, ad una funzione[3], svincolata dalla dimensione territoriale normalmente coincidente con il confine nazionale. Si antepone così la “funzione”, alla ragion di stato e alla sovranità democraticamente intesa. Sovrana diventa la funzione, il “come si decide” (la pura gestione di un settore in senso tecnico) e non il “chi decide”, il “perché si decide”, verso quale direzione, a favore di quale soggetto sociale ecc. La dimensione funzionale, tuttavia, non è mai neutra, ma è sempre a favore del grande capitale. In base all’assunto funzionalista l’idea di sovranità può benissimo sciogliersi in un sistema di norme extra-statali, in regimi regolatori che debordano necessariamente la sfera nazionale, poiché esigenze funzionali (trasporti, energie, comunicazione, ecc.) devono essere gestiti in modo congiunto, al di fuori dallo stato.

La disgregazione del modello westfaliano[4] dopo la seconda guerra mondiale non ha, come spesso erroneamente si crede, portato all’indebolimento degli stati, ma ha consentito al capitalismo europeo di riorganizzarsi e reinventarsi una “sopravvivenza” degli stati stessi in una nuova forma di “statualità”, e di ordine, secondo il principio della “sovranità condivisa” (eterodiretta dagli USA). Le origini di questo primo esperimento di nuova forma stato sono  rintracciabili nella creazione della CECA (1951) e CEE (1957)[5]. Non fu il risultato di una semplice cooperazione di carattere intergovernativo e di accordo fra stati, ma di un progetto che conteneva in sé il germe della sovranazionalità basata sull’ordoliberalismo e il funzionalismo; che prevedeva cessioni di quote di sovranità e che creava nuove istituzioni sovranazionali sganciate dai classici meccanismi di democrazia rappresentativa.

L’Unione europea che si è venuta a creare, quindi, non è né un super stato né una federazione, ma piuttosto una super struttura parastatale, contenente il “con”, il “fra” e l’“oltre” gli stati. Una struttura che tiene insieme residuali pezzi di classica forma stato (“con”), facendoli interagire (“fra”), ma che allo stesso tempo è capace di creare un nuovo ordine integrato al mercato (“oltre”). Una strutta di “governance” multilivello.

Questa struttura multilivello si gioca in modo osmotico su più dimensioni: locale, nazionale e sovranazionale. In ambito nazionale occorre rintracciare i legami con il sistema che è parte integrante di questa nuova forma-stato e che nell’ambito politico si esprime con il partito della “governance”; in Italia attualmente incarnato dal Partito Democratico e dal sistema ad esso legato.

Sintesi e proposta politica:

La questione della riformabilità di questa architettura, per come sopra descritta,  è un’arma spuntata, perché la sua capacità trasformativa è già inscritta nel sistema stesso che la costituisce: dinamicità, adattabilità al sistema capitalistico. Per lo stesso motivo non  sussiste  la possibilità di riformabilità in senso democratico.

Inoltre, ridurre la questione al “deficit democratico” indicherebbe, quindi, che all’Europa mancherebbe qualcosa, sia essa la democrazia “insorgente” e “conflittuale”[6], il potere costituente, un’opinione pubblica europea, una cittadinanza, un popolo, una federazione compiutamente politica, ecc. Il rischio di porre la questione in questo modo è che si crei una distinzione tra una “democrazia conflittuale” e una “democrazia istituzionale” che non stabilisca una frontiera, un taglio decisivo e che tale distinzione finisca per tradursi fatalmente in una democrazia a venire o nella sussunzione di entrambe nel processo circolare della “democratizzazione”, intesa già di per sé come politica. “Più Europa!”, dunque, ma il riformismo democratico (nelle sue varianti più o meno “radical”) aggiunge: “per un’altra Europa!”, cioè qualitativamente differente.

Al contrario, politica significa “rottura”. Rottura, ossia rovesciamento dell’intero sistema:

“Rottura con l’Unione Europea”.

È inevitabile porsi la domanda di come qualificare il termine “rottura”. Esso ha una valenza se viene inteso come un “campo strategico” e come “leva contingente”. Questa leva si deve articolare su un piano che non sia subordinato necessariamente a soluzioni e scenari aprioristicamente precostituiti (ritorno alla nazione, area mediterranea, generico internazionalismo, Europa dei popoli, ecc.), ma che abbia la capacità di inserirsi in ogni contesto di rottura apertosi concretamente e storicamente, sperimentando contemporaneamente nuove istituzioni e luoghi della politica nei quali rivitalizzare un’idea comunista, che non si richiami semplicemente a logiche identitarie (già viste e vissute) e residuali.

“Rottura con il sistema PD”

Rompere con il PD, vuol dire innanzitutto rompere con la produzione di consenso a mezzo consenso e con le relative politiche consensuali. Occorre ribadire la nostra interpretazione del PD come “partito di governance”, qualificando il renzismo come espressione congiunturale di questo modello e non come semplice partito-persona, “premierato assoluto” o epifenomeno del berlusconismo ecc. Il problema è il PD e il suo sistema, non Renzi. Con la parola sistema non si vuole identificare solamente un’organizzazione partitica, ma tutta la sua ramificazione in ambito sociale, culturale ed economico (dal sistema delle cooperative, al clero universitario di sinistra, al modello Repubblica e delle maggiori testate giornalistiche nazionali, ai centri di potere finanziari e bancari, come Monte Paschi ecc.).

3. L’esercizio della governance: trattati, dispositivi e nuovi apparati

Situazione

L’impianto precedentemente esposto ha trovato esecuzione in un preciso ordinamento giuridico che si concretizza con il sistema dei trattati. La nozione di trattato in ambito europeo ha assunto un significato peculiare: non si tratta di un semplice accordo internazionale tra stati, ma di un atto giuridico ibrido che ha valore costituzionale. In questo senso i trattati europei, pur non essendo ascrivibili al modello della carta costituzionale in senso “classico”, producono tuttavia un diritto vincolante per gli stati membri, dotato di un primato sul loro diritto interno. Si tratta di un sistema di norme che si è evoluto attraverso le modifiche dei trattati stessi. Un’evoluzione e una ricodificazione che hanno prodotto diritto fuori dallo stato ma con il consenso degli stati: a partire dai trattati di Roma (1957) che hanno costituito la CEE e l’EURATOM, passando per la prima grande modifica in senso neoliberale con l’Atto Unico Europeo (AUE, 1986) e alla relativa spinta per il completamento del mercato unico e l’abbattimento delle barriere non tariffarie. Il trattato di Maastricht (1992) ha dato vita, poi alla UE e ha posto le basi per la creazione della moneta unica, dando seguito a successive modifiche: il trattato di Amsterdam (1997) e quello di Nizza (2001), che hanno consolidato l’europeizzazione dei settori in materia di immigrazione, cooperazione poliziaria, giustizia, affari interni e introdotto una carta di diritti fondamentali di chiara matrice neoliberale. L’ultima modifica risale al trattato di Lisbona (2009). Con quest’ultimo trattato si ha la definizione della razionalizzazione giuridica dell’Unione Europea, anticipata dal fallito trattato costituzionale (2004), e che porta la forma di super struttura parastatale ad un grado molto avanzato di sviluppo, consolidandone il quadro quasi-federale ed estendendo i poteri del Parlamento europeo.

Si tratta di un sistema neo-costituzionale multilivello, che ingloba le costituzioni nazionali e al tempo stesso le modifica. Si può quindi a ragione, parlare di una costituzione senza stato oltre che di una costituzione senza popolo. Nonostante l’Unione Europea faccia meno di questi due riferimenti (stato-popolo) – per questo essa non è definibile come un super stato – non rinuncia tuttavia a formare un ordine ideologico (individualismo, libero mercato, concorrenza, atomizzazione della società, ecc.); dotato anche di apparati (per es. la rete di agenzie tecniche chiamate a coadiuvare il processo legislativo. Per es. l’autorità per la sicurezza alimentare EFSA, l’ufficio per l’armonizzazione del mercato interno OAMI, l’agenzia europea per i medicinali EMA, ecc.); dotato di regimi di controllo (per es. Frontex per il controllo delle frontiere e i flussi dei migranti, Europol per la cooperazione poliziaria, l’Unione bancaria per la vigilanza degli istituti di credito, ecc.)  e una nuova tipologia di amministrazione pubblica (“soft law”, ossia atti o procedure informali, pseudo consultazioni come i libri verdi e i libri bianchi sul lavoro, l’ambiente, ecc.) che eludono e rendono inutile l’espressione popolare ed erodono il diritto al lavoro (come il Patto Euro Plus del marzo 2011, che aveva chiesto agli Stati di assicurare l’evoluzione del costo del lavoro in linea con la produttività, attraverso la “revisione degli accordi di fissazione dei salari e, quando necessario, del livello di centralizzazione del processo di negoziazione e dei meccanismi di indicizzazione, pur mantenendo l’autonomia delle parti sociali nel processo di negoziazione”).

In questo nuovo quadro giuridico normativo è stato inserito l’Euro come parte integrante e non disgiunta dei trattati. Occorre ricordare che il progetto di unione monetaria risale ai primi anni ’70 (piano Werner) e che prima di diventare moneta circolante si è concretizzato nel controllo dei tassi di cambio tra stati membri dell’unione, in SME (Sistema monetario europeo) e successivamente, con la creazione della BCE, in vera e propria unione monetaria (Euro che nasce, come progetto francese volto a contenere l’espansione tedesca e che invece si traduce, per eterogenesi dei fini, in un progetto particolarmente favorevole all’economia della Germania). La creazione dell’Euro accompagna, quindi, il processo stesso di integrazione europea e l’evoluzione stessa dei trattati. I parametri di Maastricht e il Patto di stabilità e di crescita sono, infatti, funzionali all’integrazione monetaria per un’Europa costruita sul mercato unico e dotato quindi di moneta unica.

Mentre all’interno degli stati membri il sistema giuridico si è caratterizzato da un’evoluzione anche in senso democratico, dovuta alla progressiva limitazione della discrezionalità del potere statale (conquista diritti sociali e collettivi) e aprendo margini di intervento popolare democratico in ambito costituzionale, nel sistema dell’UE nessun elemento popolare è mai intervenuto nel processo di formazione del sistema giuridico (sovrani dei trattati restano i governi). Ciononostante l’ordinamento giuridico europeo ha progressivamente acquisito la sua autonomia e tale ordinamento non è assimilabile nella sfera del diritto internazionale ed è molto più incisivo di quest’ultimo nel determinare effetti “retroattivi” sul diritto interno degli stati membri. Da questo per esempio deriva un’esclusiva competenza dell’UE a poter sottoscrivere trattati internazionali, soprattutto in ambito commerciale, come TTIP, TISA, TPP, ecc. con l’effetto di sottrarre sovranità agli stati membri e al controllo democratico (sono accordi di ambito commerciale la cui influenza e pervasività va ben al di là della sfera economica inerente la circolazione delle merci, ma sono volti anche al consolidamento della super struttura parastatale ed inseriti in relazioni interimperialistiche).

 

Sintesi e proposta politica

Visto quindi il carattere sui generis della costruzione comunitaria e  la particolare natura appena esposta dei trattati europei, occorre porre con forza il principio della forzatura e rottura dei trattati, come elemento prioritario di lotta politica, superando le limitazioni settoriali e mirando al loro intero impianto.

Come portare avanti questa lotta?

Sicuramente con le battaglie costituzionali e referendarie che mettono in discussione indirettamente l’impianto dei trattati e rimettono al centro l’elemento di sovranità democratica. Come per esempio la cancellazione del pareggio in bilancio nell’Art. 81 della Costituzione.

Ci basta questo?

No. Occorre assumere pienamente la prospettiva di un orizzonte post-democratico ed essere consci che la liberal democrazia (e gli annessi suoi strumenti giuridici) è andata irreversibilmente in pezzi. Occorre mettere in discussione l’intangibilità dei trattati europei, andando al di là dello stesso ripristino delle disposizioni costituzionali. Cominciamo ad affermare che un trattato regolante tutta la vita economica e occupazionale di un paese o di una regione non può essere definito semplicemente come trattato internazionale in termini classici. Per questo occorre portare la battaglia su un livello più alto e prendere in considerazione la critica del recupero dello stato nella sua forma socialdemocratica e liberale, per come lo abbiamo conosciuto fino alla fine degli anni Settanta. Concretamente non si dovrebbe parlare solo del ripristino di diritti perduti, ma proporre anche un avanzamento verso nuovi principi giuridici, come la pronuncia popolare su trattati che di “internazionale” non hanno più nulla.

In questa fase, per il momento, occorre rimettere in discussione l’articolo 5 della Costituzione che impedisce la pronuncia popolare sui trattati internazionali, in modo da poterli minare dal basso e aprire le contraddizioni per la rottura dell’Unione europea.

Questo comporta lo smarcarsi da due attuali diversi approcci. Il primo che identifica la sfera del diritto come sempre coincidente con il potere e, dunque, sempre e comunque nemica, poiché rappresentante la “macchina statale” nella sua articolazione locale-nazionale-sovranazionale. Questo approccio non è contestabile sul piano teorico, ma lo è su quello politico: nella mancata considerazione degli attuali rapporti di forza in campo.  Tale approccio si declina sovente in micro-lotte, che pur comprendendo lo scontro con l’UE, ne perdono l’orizzonte complessivo e si richiudono in ambito sociale e locale, rischiando così di divenire poi perdenti qualora l’austerità dovesse essere superata da politiche più intelligenti. L’altro approccio da cui occorre smarcarsi è quello della lotta ripiegata solo su battaglie legalistiche o giuridiche. Piuttosto dovremmo lavorare discriminando al loro interno le forze disposte ad allargare il discorso in direzione della rottura con UE e sistema PD, facendo scontrare queste proposte con il loro limite interno spingere le battaglie costituzionali al punto in cui si scontrano con i meccanismi UE, dichiarando così la necessità della loro trasformazione in “altro”.

4. Capitalismo finanziario, debitocrazia e unione monetaria: l’euro come strumento politico della governance

Situazione

Il periodo che va dalla fine della seconda guerra mondiale fino alla fine degli anni ’60, è contraddistinto dal patto fordista “capitale-lavoro”, che ha permesso allo stesso sistema capitalistico di autoalimentarsi e che è stato  caratterizzato da crescita e pieno impiego di matrice keynesiana. Il sistema, però, comincia a dare i primi segni di crisi da sovrapproduzione negli anni ’70 e in questo periodo ha luogo la prima soluzione messa in campo dagli stati per rinviare la crisi e “guadagnare tempo”[7]: “la soluzione inflazionistica”. L’erosione dei salari era contenuta da  sindacati forti che erano in grado di tutelarli in un regime di indicizzazione, mantenendo al contempo  le strategie di piena occupazione in una sfera di stabilità del sistema voluta dal capitale stesso. Sebbene l’inflazione non incidesse sui salari, erodeva, però,  pian piano il patrimonio e il margine di profitto del capitale che, assieme allo stato, procedette ad adottare una nuova soluzione: “l’indebitamento pubblico” (anni ’80). Gli stati vengono costretti dal capitale ad interrompere le politiche inflazionistiche, si ha un forte aumento della disoccupazione (governi Reagan e Thatcher). Gli stati, quindi, per calmierare le frizioni capitale lavoro si vedono costretti a ricorre allo strumento del debito pubblico per accrescere le spese in aiuti sociali non più garantite dalla precedente soluzione inflazionistica. Inoltre, però, lo strumento dell’indebitamento consente agli stati di recuperare risorse non ancora disponibili volte a finanziare, attraverso il mercato dei titoli, il capitalismo stesso che perdura nella crisi continuamente rinviata. Il debito pubblico non è solo acquistato dai cittadini, ma dagli operatori finanziari  che, negli anni anni ’90, esigono le remunerazioni dovute e da questo momento si apre una fase, perdurante ancora oggi, in cui gli stati sono eterodiretti dai mercati finanziari (attraverso il rafforzamento di agenzie monetarie internazionali come FMI, OMC, Banca mondiale). Non si tratta semplicemente di neoliberismo, ma della creazione di un sistema in cui lo stato entra nella finanza stessa. In questa fase il sostegno della domanda aggregata viene generata da un continuo incremento del debito privato che sussume direttamente il lavoro, il risparmio da lavoro e il debito pubblico, grazie ai processi finanziari globali [8] (questa fase è quella che nella teorizzazione marxiana viene individuata con la formula D-D’) .  Il sistema di soluzioni non regge e la crisi si manifesta nuovamente nel 2008.

Attualmente si potrebbe avanzare l’ipotesi che sia in atto un movimento di “definanziarizzazione”[9], che contrariamente a quanto il termine potrebbe suggerire circa un ritorno all’economia reale, indica piuttosto il punto di intervento delle politiche capitalistiche per attrezzarsi ad una risegmentazione dei mercati da un lato, e dall’altro, ridurre la bolla creata dalla speculazione finanziaria introducendo valore reale che si traduce in perdita di posti di lavoro e perdita del welfare.

Tale nuovo processo non produce un’omogeneità globalizzata e deterritorializzata, ma si configura nella formazione di nuovi blocchi, barriere, nuove frontiere, nuove forme di protezionismo tra grandi aree, costituite anche attraverso nuove generazioni di trattati per la creazione di aree di libero scambio, come il TTIP, TPP, TISA, ecc. Emergono nuove aggregazioni geopolitiche (per es. BRICS) e un nuovo ciclo egemonico si sta affacciando nella scena mondiale, senza che ciò comporti necessariamente una coincidenza tra crescita economica e potenza politica.

In questo quadro generale si inserisce l’Euro, come strumento di controllo sempre più stretto sulle politiche di bilancio nazionali, sia nella fase di finanziarizzazione (indebolimento delle monete nazionali e concorrenza monetaria con il dollaro), che in quella attuale di definanziarizzazione. La logica della debitocrazia perdura anche con le recenti riforme e la manovra della BCE definita “Quantitative easing”, volute da Mario Draghi (QE – “Quantitative easing”, ovvero l’acquisto dei titoli di stato, di fatto detenuti dagli istituti di credito privati, da parte della BCE. Azione che serve, ancora una volta, a salvare le banche private garantendole nella loro esposizione in titoli pubblici. L’iniezione monetaria  sarà garantita dalle banche centrali dei singoli stati, ossia dagli stati stessi, cioè dai soldi pubblici)[10].

Gli elementi di segmentarizzazione dei mercati  sono presenti all’interno della stessa UE, con processi di concentrazione di capitale in alcune aree (Germania e nord Europa, paesi “core”) e anche attraverso l’attuazione di politiche di deflazione salariale e di chiara marca monetarista volte al rigore di bilancio, al  severo controllo della stabilità dei prezzi, “austerity”, ecc. L’effetto è quello di determinare, al contrario, delle aree sempre più impoverite (mezzogiornificazione europea[11]) come nei paesi mediterranei (PIGS).

Va sottolineato, infine, lo stretto legame tra l’Euro e l’ordinamento giuridico europeo (diritto primario – i trattati – e diritto derivato – regolamenti, direttive, comunicazioni ecc .) a cui sono stati attribuiti un primato e un’autonomia sul diritto interno nazionale, grazie soprattutto all’attività interpretativa della Corte di Giustizia dell’UE (già a partire dagli anni Sessanta con le sentenze “Van Geend en Loos”, “Costa v Enel” ecc.). Anche con le ultime sentenze della Corte (caso “Pringle” e la sentenza sulle operazioni OMT – Outright Monetary Transactions[12]) si intende confermare questo approccio, puntando a conferire una sorta di “legittimazione” di tipo post-costituzionale a tutte quelle disposizioni atipiche e non convenzionali (come il MES, il Fiscal compact, ecc.), concepiti inizialmente in sede intergovernativa (frutto delle negoziazioni asimmetriche tra i governi, a netto vantaggio tedesco) e che ora si vogliono far rientrare a pieno titolo nel sistema generale di governance, cercando, ex-post, di legittimare la BCE nell’applicazione delle politiche monetariste.

Sintesi e proposta politica

Il quadro capitalistico sopra delineato, obbliga a prendere in considerazione le sue ricadute in ambito europeo, considerando l’unione monetaria, cioè l’Euro,  come punta più avanzata del capitalismo europeo, inteso come espressione non solo economica. Essendo dunque l’euro anche uno strumento di governo e intrinsecamente politico, non relegabile alla mera sfera economica,  diviene prioritario assumere una posizione definita considerandolo come l’elemento centrale, insieme ai trattati, della battaglia politica. L’euro, quindi, non è disgiungibile dall’intero impianto di governance e quindi dai trattati fondativi dell’UE.

“Rottura con l’Euro”.

Non si tratta semplicemente di esercitarsi nella continua evocazione degli scenari “post-euro” possibili, va innanzitutto ricordato che sia nel caso dell’uscita (unilaterale o coordinata che sia), sia nell’ipotesi della permanenza nell’Unione, sempre di “lacrime e sangue” si tratta. Non ci sono quindi soluzioni tranquillizzanti o magicamente risolutive. Però, assumere la battaglia politica della rottura con l’Euro, rappresenta un punto di precipitazione in grado di sviluppare una consapevolezza su cosa sia l’impianto europeo, determinare, a diverse intensità, cambiamenti nei rapporti di forza e, quindi, aprire le necessarie contraddizioni per il suo superamento.

Questo ragionamento non può essere disgiunto da una riflessione sulle battaglie immediate già in corso che obbligano ad una presa di posizione. Ad esempio la questione del referendum 5 stelle. Un conto è non volersi mettere a traino di proposte già esistenti, un altro è, nel caso il referendum dovesse passare, non entrare nella campagna per un’ipotesi di uscita. Oggi le posizioni sono sostanzialmente due: a) quella della sinistra no euro, cioè “siamo consapevoli dei pericoli e dell’ineffettuabilità di un referendum sull’euro, ma lo appoggiamo come mezzo per far crescere il fronte eurocritico” b) quella di Syriza-Rifondazione (la lista Tsipras italiana nel suo insieme è più moderata) “non potendo decidere sull’euro facciamo campagne per altre lotte radicali (tipo non pagamento del debito, annullamento della legge di stabilità ecc.) che di fatto entrano in contraddizione con l’assetto monetario della UE”. 

Posizioni come quella del “superamento cooperativo” non hanno nessun senso, in quanto private del necessario elemento conflittuale e di forzatura dei trattati stessi e presupponendo un’irreale simultaneità nell’azione di superamento.

È inevitabile porsi la domanda di come qualificare il termine “rottura con l’Euro”. Esso ha una valenza se viene inteso come un “campo strategico” e come “leva contingente”, unitamente del rovesciamento del sistema dei trattati. I due ambiti non possono essere  disgiunti. Questa leva si deve articolare su un piano che non sia subordinato necessariamente a soluzioni e scenari aprioristicamente precostituiti (ritorno alla monete nazionali, introduzione della moneta comune, uscita coordinata, ecc.), ma che abbia la capacità di inserirsi in ogni contesto di rottura contingente in grado di aprire una crepa, anche se apparentemente possa sembrare un elemento di “ritorno”, di arretramento ecc.



[1]   I primi progetti di cooperazione fra gli stati europei risalgono, infatti, al piano Marshall per la gestione dei fondi (ERP) degli USA, destinati all’Europa, l’OECE (Organizzazione per la gestione della ricostruzione economica degli stati europei), il Congresso dell’Aja (1948) da cui nacque il Consiglio d’Europa, l’organizzazione internazionale per la tutela dei diritti umani, ecc.

[2]   Scuola economica di Friburgo, nata attorno alla rivista “Ordo”, i cui esponenti di spicco sono Walter Eucken, Wilhelm Roepke, Ludwig Erhard.

[3]   Cfr. David Mitrany, A Working peace system (1943)

[4]   L’equilibrio tra gli stati europei che si è retto, con alterne vicende, conflitti e guerre dal 1648 (pace di Westfalia) fino alla seconda guerra mondiale.

[5]   La CECA (La Comunità europea del carbone e dell’acciaio) seguì esattamente questo indirizzo funzionalista: condividere funzioni (la gestione del carbone dell’acciaio), prima di condividere sovranità.

[6]   Si vedano le posizioni di Etienne Balibar  e Toni Negri

[7]    Wolfang Streeck – Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico

[8]    Cfr. Nozione di keynesismo privatizzato di Riccardo Bellofiore

[9]    Cfr. Nozione di definanziarizzazione presa da Piero Pagliani

[10]  Cfr. Leonardo Mazzei, Te lo do io il quantitative easing, (www. sinistrainrete.info). Sergio Cesaratto, Il bluff di Draghi sul quantitative nothing, Il Manifesto, 13 gennaio 2015.

[11]  Paul Krugman

[12]  L’OMT prevede che la BCE possa acquistare titoli di un Paese in crisi, solo una volta che questo abbia concordato un piano di aiuti e un programma economico con le autorità europee e quindi solo dopo che si impegni ad attuare le cosiddette “riforme strutturali”, ovvero tagli al welfare, politiche di compressione salariale e flessibilizzazione del mercato del lavoro.

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