Nei libri del ciclo de “Il Sole dell’avvenire” racconti alcune modifiche avvenute nel mondo del lavoro tramite riforme governative a cavallo tra l’800 e il ‘900. In questi mesi il governo Renzi ha sferrato un attacco senza precedenti ai diritti del lavoro tramite il Jobs Act. Sicuramente è un ritorno alla legislazione precedente agli anni ’70, ma spesso ci sembra che quasi si ritorni alle condizioni ottocentesche. Quanto c’è di vero e di falso in questa suggestione?
Molto di vero, temo. Persino rispetto ai primi del ‘900, quando i lavoratori organizzati, soprattutto precari operanti in ambito rurale, conquistarono uffici di collocamento gestiti da loro stessi, turnazioni, garanzie di impiego continuativo. Fino all’imponibile di manodopera: facoltà dei sindacati (le Leghe di resistenza) di stabilire quanti lavoratori impiegare, e dove, perché nessuno rimanesse disoccupato. Tutto ciò fu cancellato dal fascismo. Il poco che è rinato, dal secondo dopoguerra in avanti, viene adesso aggredito da Renzi e dal suo partito. Il lavoratore deve ridiventare unità singola, che contratta individualmente il proprio destino. E’ un presupposto dell’economia neoliberista. Appartiene al XIX secolo, sotto le mentite spoglie della modernità. Un arretramento che non esiterei a definire tragico. Solo che oggi la maggioranza del movimento sindacale se ne fa complice.
Racconti spesso degli scontri tra braccianti e mezzadri, della proletarizzazione di questi ultimi e di come venivano artatamente contrapposte le loro istanze. A noi ha ricordato un po’, con i dovuti distinguo, chi contrappone i lavoratori autonomi a quelli dipendenti. La precarietà , la parcellizzazione delle classe lavoratrice, l’autosfruttamento nascosto spesso dietro le cd. “false partite IVA” per molti sono una novità di questi ultimi anni, ma, secondo te, non sono una costante dello sviluppo capitalistico?
Una mezzadria ormai sfinita, perché era emersa la sua natura di autosfruttamento, fu rivalutata prima dalle forze clericali e poi dal fascismo. Parlo degli anni Venti del ‘900. La sua virtù stava nel fatto che il mezzadro si credeva mezzo padrone, a un passo dal divenirlo del tutto. Il fascismo giocò molto su questa illusione. In realtà, riportò tutto ai termini iniziali. Il mezzadro lavorava oltre il numero di ore stabilito dai contratti. Era eliminabile da un momento all’altro. Non godeva di alcuna effettiva autonomia decisionale. Insomma, un salariato in altra veste, e con meno diritti. Vediamo riaffacciarsi lo stesso inganno in vari momenti storici. Credo anch’io che sia una ricorrenza dello sviluppo capitalistico. Equivocata da chi, a sinistra, crede che l’espandersi del lavoro “autonomo” cambi i termini della questione sociale.
Le terre oggetto dei tuoi ultimi romanzi sono i luoghi in cui è nato il movimento cooperativo. Da quello che traspare nelle tue pagine, il mutualismo non era una forma di solidarietà “caritatevole” fine a se stessa o di auto-sostentamento, ma uno strumento nelle mani dell’organizzazione che aveva come obiettivo la resistenza e lo sviluppo delle lotte. Già tu racconti di alcune storture che emergevano nei primi periodi, ma chi avrebbe mai potuto pensare che quello stesso mondo riuscisse ad esprimere un Ministro del lavoro che in prima persona si è impegnato nello smantellamento della garanzie dei lavoratori, ed ovviamente ci riferiamo al Ministro Poletti? Chi avrebbe mai pensato che le stesse cooperative diventassero loro stesse uno strumento di sfruttamento, e ci riferiamo in primis alle lotte dei lavoratori del campo della logistica, che quasi sempre sono inquadrati proprio in forme cooperative (basti pensare alle lotte contro Granarolo, avvenute nelle stesse zone in cui il movimento era nato)?
Le cooperative nacquero con due scopi precipui: aggiudicarsi opere pubbliche per dare lavoro ai disoccupati e, al tempo stesso, dimostrare che un’organizzazione economica di tipo socialista poteva funzionare. Con lo sviluppo del movimento sindacale e delle Leghe di resistenza, diventarono anche un’importante retrovia del conflitto di classe. Quelle di consumo facevano credito agli scioperanti, quelle di produzione assorbivano chi, per via della lotta, era senza reddito. Naturalmente il fascismo distrusse e trasfigurò queste esperienze, tuttavia, nel secondo dopoguerra, si riprese l’esperimento interrotto. Solo che la matrice di classe, fortissima agli inizi, si fece sempre più labile. Le cooperative cominciarono ad assumere forza-lavoro salariata distinta dai soci (un tempo sarebbe stata una bestemmia), e la definizione stessa di cooperativa diventò uno smilzo codicillo riguardante il reimpiego dei profitti. La mitica “Emilia rossa” è stata all’avanguardia di questa trasformazione, man mano che il PCI si convertiva al liberalismo e appoggiava un capitalismo “moderato”. Oggi la cooperazione è un puntello come un altro del sistema dominante, e la si ritrova in prima linea non solo nello sfruttamento dei lavoratori della logistica, ma anche nello scempio della Val di Susa. Porta ormai un nome abusivo, senza più nessi con la sua storia.
Quali erano le principali forme di lotta del periodo oggetto del tuo lavoro? Siamo rimasti colpiti dalla quantità e diversità di forme che il proletariato riusciva a mettere in campo, specialmente in un contesto come quello che racconti, prefordista, caratterizzato, come una gran parte del mondo del lavoro oggi, da un’estrema precarietà e mobilità, che richiedevano forme di organizzazione e lotta adeguate. Per fare un esempio è interessante notare come il boicottaggio fosse un’arma di lotta che vivesse nei territori e nei diversi settori sociali, colpendo anche individualmente chi si macchiava di soprusi e bloccando tutta la filiera di produzione, in modo completamente diverso da come spesso il boicottaggio viene inteso adesso, come pura scelta individuale, legata ai comportamenti di consumo del singolo. Come, quanto e che cosa possiamo imparare, in termini di organizzazione, dal lavoro dei compagni in quegli anni là?
Le armi erano, a parte lo sciopero, il boicottaggio (oggi proibito dalle leggi italiane): rifiuto totale di collaborare, e a volte persino di intrattenere rapporti individuali, con chi si opponesse alle richieste sindacali. Arma potente contro il crumiraggio. Si arrestavano intere filiere produttive, dato che, per esempio, nessun trasportatore, dai carrettieri alle ferrovie, accettava le merci di un’azienda boicottata. Allo stesso modo, un negoziante che vendesse generi alimentari a un crumiro era boicottato. Se ne usciva solo versando una somma alle Leghe di resistenza o a organismi di soccorso pubblico. Poi veniva il sabotaggio, caro ai sindacalisti rivoluzionari. Azioni quasi individuali capaci di fare danni, equivalenti a uno sciopero, a un’intera azienda. Dagli incendi dei pagliai alla vite incuneata negli ingranaggi di una macchina. Nel secondo dopoguerra diventò comune lo “sciopero a rovescia”: i disoccupati iniziano un lavoro non richiesto, poi pretendono di essere pagati. Tutto ciò è riproponibile oggi? Non lo so, a quei tempi esisteva una compattezza di classe che per ora non scorgo.
Lo Stato e il Capitale italiano hanno usato il piombo come prima arma nella repressione dei movimenti socialisti e anarchici, ma la violenza fisica non è stato certo l’unico metodo per provare a contenere l’avanzata del proletariato. Ampio fu l’utilizzo di crumiri, che venivano scortati dalla forza pubblica, e lo spostamento delle attività produttive in zone più “tranquille”. Non pensi che l’ideologia della produttività, dei premi produzione, il continuo ricatto del licenziamento e della disoccupazione stiano generando un esercito di “crumiri inconsapevoli”? Questa “mobilità” delle attività produttive ha degli elementi in comune con quelle che adesso vengono chiamate delocalizzazioni? Secondo te le esperienze di lotta precedenti possono insegnarci qualcosa sul come contrastare queste manovre?
Molto prima di dover affrontare i fascisti, il proletariato dovette scontrarsi con le violenze e le insidie dello Stato, che del Capitale era il braccio armato e legiferante. Il fascismo stesso non avrebbe mai vinto, se non avesse avuto l’apparato statale alle spalle. Quanto ai crumiri, prodotto della stessa miseria, erano difesi dalla forza pubblica nel nome di una inesistente “libertà di lavoro”, e scortati da una provincia all’altra per spezzare gli scioperi. Il movimento delle classi subalterne sventò la minaccia non solo con reazioni violente, ma anche con l’educazione e con l’espandersi di un’organizzazione ferrea, capace di soffocare il crumiraggio là dove nasceva. Alcune province note per fornire crumiri, come quelle di Ferrara e di Padova, diventarono nel giro di un decennio teatri di lotte di classe molto estese. E’ proprio l’organizzazione che oggi mi sembra mancare. L’indebolimento sindacale è una vera tragedia, come l’evaporare di una volontà politica antagonista. Ciò in un quadro in cui decentramento e delocalizzazione non avvengono più tra province, bensì su scala addirittura mondiale, e l’ideologia del merito e della competizione tra individui è propagata a ritmo quotidiano, in forma ossessiva. Si tratta di rafforzare e di espandere, anche fuori del proprio territorio nazionale, i pochi settori ancora capaci di resistere, trasformandoli da difensivi in offensivi. Qualche piccolo esempio c’è stato (sciopero sociale ecc.), ma è ancora insufficiente. Mancano avanguardie che diano continuità a un lavoro che si profila lunghissimo.
Leggendo i dialoghi, gli scontri tra i protagonisti dei tuoi romanzi, sembra che, sia molto presente la tematica della conquista del potere, da chi pensa al “socialismo in solo municipio” a chi crede che “o la vittoria sarà internazionale, o non sarà”. Non pensi che l’aver cancellato dai nostri dibattiti e orizzonti la questione della presa del potere e della vittoria influenzi anche il nostro fare politica quotidiano?
Indubbiamente. E’ chiaro che oggi è impossibile, in Italia come in gran parte dell’Occidente, una presa del potere attraverso un atto insurrezionale di tipo tradizionale. Sono possibili, però, passi avanti tramite conquiste parziali (anche elettorali, in determinate circostanze). Mancano però due fattori: una forza comune che abbia ben chiari i fini, e un modello a cui ispirarsi. Servirebbero azioni esemplari, che dessero un’immagine concreta della società che si vuole costruire. Detto questo, che rispecchia il mio modo di vedere, devo precisare che la mia attività è di romanziere. Non sono un attivista, non ho indicazioni da dare al movimento reale, per sopraggiunti limiti di età. Non sta a me, ma a voi, che siete sul terreno, escogitare soluzioni concrete e praticabili per l’abbattimento del capitalismo. Che, da solo, attraverserà mille crisi ma non cadrà mai, senza una spinta vigorosa.
Nei tuoi ultimi due lavori traspare quella che sembrerebbe una caratteristica peculiare del socialismo dell’epoca: una fiducia illimitata nel progresso, anche tecnologico, visto come possibilità, nelle mani della classe lavoratrice ovviamente, di accelerare i processi di liberazione dal lavoro. È stato davvero così o è solo una nostra suggestione? Quanto si è perso, quanto si può e quanto si deve, forse, recuperare oggi di quell’approccio, dopo che 30 anni di – importantissime – lotte ambientaliste hanno portato un po’ tutti a guardare con sospetto finanche alla sola parola “progresso”?
La nozione di progresso va vista in maniera “laica”, senza le suggestioni salvifiche dei primi del secolo scorso. Non c’è dubbio, per esempio, che lo sviluppo tecnologico porti a un risparmio di forza-lavoro. Solo che, in mani padronali, questo risparmio si ripercuote a danno delle classi subalterne, invece che in un vantaggio. Non riduzione della giornata lavorativa, ma al contrario lavoro schiavistico per pochi e precarietà e disoccupazione per tanti. La questione centrale non è la decrescita, ma il governo dei processi. Il potere effettivo. Con la sensibilità maturata da molti decenni in qua, una saggia organizzazione collettivistica terrebbe presenti i problemi ambientali (vedi le richieste di base all’Ilva di Taranto), quanto le esigenze produttive. Un “progresso” effettivo è recuperabile, come nozione, solo nell’ambito di un progetto socialista.
Molto spesso tra compagni si crea un dibattito piuttosto sterile tra chi si occupa di lavoro e chi si focalizza solo sui “territori”, come se ci fosse un aut aut tra le due cose. Nei tuoi ultimi romanzi, secondo la nostra opinione, è molto vivido il legame esistente. Che ne pensi? Le nuove forme di sfruttamento della forza-lavoro possono restituire ai territori una centralità che non sia, come a volte è accaduto in anni recenti, “interclassista” e legata ad un generico concetto di cittadinanza?
Il territorio, sede di attività produttive spesso ad alto tasso di sfruttamento (vedi le piccole e medie imprese), possono divenire zone di ricomposizione sociale tra figure apparentemente incompatibili, come operai, precari, disoccupati, proletariato marginale. Più che richiamare quanto fatto su questo piano ai primi del ‘900, francamente irripetibile, penso alle esperienze di “contropotere territoriale” della fine degli anni ’70, tante volte efficacissime. Purtroppo chi le ereditò, i centri sociali, nacque in una fase in cui il movimento iniziava a ripiegare sotto la repressione e stava smarrendo la precedente compattezza. Si ripiegò sulla controcultura (che ci vuole, sia chiaro), ma la partecipazione al conflitto sociale diventò scarsa e sporadica, almeno in molti casi. Invece un presidio territoriale può essere di aiuto a quei proletari che, sul luogo di lavoro non hanno forza sufficiente per lottare, e fare incontrare categorie diverse.
Sempre intorno a questi argomenti: a sinistra spesso si vede il ritorno alla terra come una alternativa allo sfruttamento capitalista e al rapporto di lavoro salariato, come se questo fosse possibile solo al centro della “metropoli”. Noi pensiamo non sia così e ci interesserebbe parlare della penetrazione del capitalismo nelle campagne. Quanto ha contato questo, storicamente, nella costruzione di un movimento comunista? Quanto può contare in questo momento storico?
Le campagne hanno perso completamente il ruolo, importante, avuto nello sviluppo del movimento prima socialista e poi comunista. Ciò fin dai primi anni ’60 del secolo scorso, quando meccanizzazione e industrializzazione resero superflua gran parte della manodopera dei campi. I contadini e i braccianti del 1960 li troviamo, pochi anni dopo, trasformati in operai nei grandi stabilimenti del nord. La forza-lavoro agricola è oggi scarsa, molto specializzata o molto emarginata (i migranti) e non in grado di condurre lotte di ampia portata. Quanto a un ritorno “liberatorio” alla terra è una semplice sciocchezza. Nei miei romanzi ho finora parlato di proletari che dalla terra e dalle culture contadine si vogliono emancipare, ritenendole schiavismo. Se poi qualcuno nutre il sogno di avere un campicello in cui coltivare quattro ortaggi, faccia pure. Non spacci però la sua aspirazione individuale per proposta politica.
da http://clashcityworkers.org
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