Intervista a Perry Anderson, decano della “new left” inglese. Il populismo europeo, la debolezza dei “movimenti antisistemici” e il liberismo “made in Renzi”.
Perry Anderson, docente della University of California di Los Angeles, nonché tra i teorici fondatori della «New Left» anglosassone e della rivista «New Left Review», è osservatore meticoloso della scena europea e di quella italiana in particolare, da lui studiate secondo un metodo comparativo delle strutture politiche e assetti culturali che tiene ben presente il magistero gramsciano. Fin dagli anni Settanta, lo storico inglese ha intrecciato dialoghi illuminanti con figure cardine del nostro panorama intellettuale: Lucio Colletti, Norberto Bobbio, Carlo Ginzburg, fino alle recenti, sentite commemorazioni di Sebastiano Timpanaro e Lucio Magri apparse sulla «London Review of Books». Gli articoli che da anni dedica all’Italia sulla «Lrb» sono stati ora pubblicati, accompagnati da una nuova conclusione, per la prima volta da Castelvecchi con il titolo L’Italia dopo l’Italia. Il libro è un’analisi spietata degli ultimi venticinque anni di politica nazionale, dal dominio berlusconiano all’offensiva neoliberista dell’attuale presidente del consiglio, dove il personalismo autoritario di Matteo Renzi, convinto com’è di poter riformare il paese sul duplice fronte economico e istituzionale, si tinge di gaullismo. Lo abbiamo raggiunto via email da Los Angeles.
Il suo libro, «L‘Italia dopo l’Italia», che traccia l’intera storia della Seconda Repubblica fino allo scorso autunno, è stato accolto dal silenzio quasi completo dei media. Ne è sorpreso?
No. «Pensiero unico» è un termine che contiene un elemento di esagerazione, ma indica un’ovvia realtà: l’ampiezza di un consenso ideologico neoliberista dalla fine della guerra fredda, mai del tutto assoluto, ma che lascia poco spazio per visioni del mondo meno conformiste. I giornalisti che lo impongono non fanno che svolgere professionalmente il loro lavoro. Ciò detto, nemmeno molti libri che rientrano nel pensiero dominante sono recensiti. Nell’accoglienza a un libro vi è sempre un elemento aleatorio, di occasione colta o mancata, indipendentemente dalla sua qualità.
Un anno fa, lei aveva previsto il destino di Berlusconi e del Pd per mano di Renzi. Cosa la rendeva così sicuro che sarebbero finiti come poi è andata?
Il patto di Berlusconi con Renzi era un prodotto sia dell’eccessiva debolezza della sua posizione, una volta giudicato per evasione fiscale e radiato dal Senato, sia di una perdita soggettiva di discernimento, già evidente nella facilità con cui Napolitano lo aveva liquidato come premier, diventata poi palese quando le ansie personali ottenebravano il calcolo politico. Ritenendo ingenuamente che, al ritiro di Napolitano, l’appoggio risoluto alle macchinazioni costituzionali ed elettorali di Renzi gli avrebbe valso la selezione di un presidente a lui gradito e capace di ripulire i propri trascorsi penali, si è lasciato complessivamente gabbare dal suo socio.
Il patto si fondava su una riforma elettorale studiata per la ripartizione del bottino tra i due, con un premio che garantiva una maggioranza parlamentare a chiunque avesse ottenuto più voti ed eliminato le forze minori sotto la soglia dell’8 per cento. Fin dall’inizio, questo ha praticamente assicurato a Renzi – con il grosso vantaggio del Pd su Fi nei sondaggi, la vittoria in qualunque prossima elezione nel prossimo parlamento. Ben presto, tuttavia, Renzi ha ritoccato l’accordo per tenere a bordo Alfano e il suo partito, riducendo la soglia dall’8 al 3 percento, e – cosa assai più importante – ha mutato il percorso per l’ottenimento del premio automatico, che nella versione originale poteva essere vinto da una coalizione di partiti, ma che ora è diventato soltanto a lista unica.
Tradizionalmente, nel raccogliere una più ampia coalizione di forze differenti il centro-destra è sempre stato più capace del centro-sinistra. Con un colpo solo, il cambiamento lo ha spogliato di questo vantaggio, lasciando Forza Italia esposta a una contrapposizione frontale con il Pd, che al momento gode di quasi il doppio dei sostegni. Come ha detto Fitto, per Fi, l’allinearsi alla versione riveduta del neo-Porcellum è stato un suicidio politico. Eppure Berlusconi era così disperato e beffato da insistere che Forza Italia appoggiasse il pacchetto, credendo che Renzi lo ripagasse col concedergli voce in capitolo nella scelta di un nuovo presidente, di lì a una settimana, offrendogli della protezione al Quirinale. Invece Renzi si è semplicemente intascato i propri guadagni, installando un presidente che avrebbe placato gli animi nel Pd. Politicamente parlando, Berlusconi ha fatto la figura dello sciocco che è diventato, con il suo partito in rivolta per la débâcle nella quale l’aveva sospinto.
Il risultato netto del suo amoreggiare con Renzi — nel quale ha giocato un ruolo una sorta d’infatuazione narcisistica, come se quest’ultimo fosse una versione più giovane di sé — è stata semplicemente quella di spaccare il suo partito e lasciare il campo libero alla Lega perché lo prendesse in contropiede nell’opposizione al governo.
Dall’inizio, lei non ha preso in considerazione una minima, efficace opposizione a Renzi nel Pd. Non vi sono forse molteplici segni di disagio nei suoi confronti nel partito?
Si, ci sono, ma nessuna opposizione che possa minacciare la sua posizione o alterarne il corso. Lo scontento si presenta in due forme. Da una generazione più anziana tutt’altro che radicale, ma la cui moderazione incarna onorevoli valori – un senso della decenza, un certo attaccamento al movimento operaio – della tradizione del Pci, in disaccordo con le posture di sfacciato neoliberismo di Renzi: un’eredità impersonata da figure come quella di Bersani o di Gotor. C’è poi una più giovane generazione di carrieristi, alcuni dei quali, come Orfini, sono saliti sul carro di Renzi, mentre altri – Fassina, Civati – rumoreggiano critiche perché messi da parte. Nessun gruppo è incline a opporre alcuna ferma resistenza a Renzi, ne è testimone la loro performance sul Jobs Act, la riforma elettorale, l’abolizione del Senato. Renzi getta loro delle briciole di volta in volta, sapendo che di più non chiederanno. La ragione è semplice. Con il declino di Forza Italia e il premio automatico in Parlamento, il Pd potrebbe arrivare ad avere un’egemonia in Italia simile a quella della Dc, un quasi monopolio del potere. Non sarebbe però la stessa cosa, per due ragioni.
La Dc era un vero e proprio partito di massa, con una tradizione politico-culturale sostanziale e con radici profonde nella società civile, mentre ora il Pd è poco più dell’attrezzo elettorale di un carismatico opportunista. In tal senso, il Pd è assai più debole. Ma d’altro canto ha nelle sue mani la carta vincente di una legge truffa che la Dc mancò per poco: con un mero quarto dell’elettorato – purché la lista classificatasi seconda nella votazione successiva sia ancora più bassa – potrebbe continuare a disporre di una maggioranza in parlamento schiacciante. La prospettiva di un mantenimento indefinito del potere è troppo appetibile perché una qualunque corrente rilevante nel Pd si opponga seriamente lungo il percorso.
Anche se fosse così, perché dovremmo immaginare che l’ordine neoliberista di cui Renzi ha promesso l’introduzione sia a prova di reazioni sociali?
Non lo sarà. Ma molto dipende dalla forma che queste prenderanno. Negli anni Ottanta, Giovanni Arrighi, Immanuel Wallerstein e altri teorizzarono quelli che chiamarono «movimenti antisistema». Con questo intendevano movimenti che rifiutavano il capitalismo. Tali movimenti oggi in Occidente non vi sono. Il termine è ancora rilevante, ma il suo significato è cambiato. Il «sistema» contro il quale si sono levati i movimenti popolari non è il capitalismo in quanto tale, ma la sua forma oggi dominante: il neoliberismo. Nell’Unione europea, la camicia di forza istituzionale che lo impone sono il patto di stabilità e la moneta unica così come concepiti a Maastricht.
Le ribellioni antisistematiche al neoliberismo — a differenza di quelle che avevano in mente Arrighi e i suoi compagni — vengono sia da destra che da sinistra. In un discreto numero di paesi europei le rivolte da destra si sono dimostrate più pugnaci ed efficaci di quelle da sinistra, producendo leader di maggior talento, che hanno guadagnato più ampi strati di classe operaia e posto più di una minaccia all’ordine costituito. In Francia basta paragonare il Front National con il Front de Gauche, in Gran Bretagna l’UKIP coi Verdi, in Italia la Lega con Sel. Solo in due paesi i movimenti di sinistra vanno per la maggiore: la Spagna – (dove non c’è un movimento antisistema di destra) e la Grecia (dove, a differenza di altri movimenti di destra, «Alba Dorata» è apertamente fascista). Podemos e Syriza rappresentano di gran lunga lo sviluppo più speranzoso in questo scenario. Ideologicamente, il Moviemento Cinque Stelle è un caso intermedio, un ibrido di ceppi di sinistra e di destra in cui quelli di sinistra predominano, ma che rischia la sterilità sotto l’autocrazia del leader.
Se guardiamo all’Europa nel suo complesso, da nord a sud e da est a ovest, il bilancio complessivo del vantaggio finora pende dalla parte dei movimenti antisistemici di destra.
Secondo lei come si spiega?
Attraverso due fattori. Il primo è ovviamente che i movimenti di destra di solito giocano sull’ostilità ai migranti, un sentimento ampiamente diffuso in quasi tutti i paesi europei e non meno tra le classi popolari. Questa è una potente attrattiva, oltre che — naturalmente e giustamente – un tabù per la sinistra. Ma che non è necessariamente in disaccordo con una rivolta contro l’ordine neoliberale in quanto tale. Poiché nessuno stato europeo ha mai consultato la propria popolazione su quanta immigrazione voglia, o di che tipo. Il capitale ha semplicemente importato o attratto forza lavoro in surplus dai paesi più poveri alle spalle della cittadinanza. Il fatto che nel procedimento non sia mai stata espressa alcuna volontà democratica, lo pone oggettivamente in linea con il modo in cui i mercati finanziari — anziché le assemblee elettive — dettano le politiche economiche e sociali nel sistema neoliberista. I movimenti antisistemici della sinistra resistono alla xenofobia di quelli di destra, ma di solito mancano di qualunque controproposta coerente propria.
Un secondo fattore è specificamente europeo. I movimenti di destra non hanno difficoltà a rivendicare apertamente l’uscita dall’Euro come dal giogo monetario dell’austerità che il neoliberismo ora esige. Anche i movimenti di sinistra denunciano gli effetti della moneta unica, ma sull’Euro solitamente temporeggiano, suggerendo nel migliore dei casi varie macchinazioni per alleviarne i rigori. Queste tendono tuttavia a soffrire di due svantaggi politici: sono tecnicamente troppo complicate per essere intellegibili ai più e non hanno praticamente alcuna chance di accettazione da parte di Bruxelles o Francoforte. In confronto, le risolute chiamate a disfarsi dell’Euro sono non solo prontamente comprensibili da tutti, ma, realisticamente parlando, più plausibili come scenario possibile. Dunque la sinistra è svantaggiata anche qui.
Come valuta le possibilità di successo oggi di una rivolta di questo o quel tipo?
Come dimostrano tutti i sondaggi, l’attaccamento all’Unione europea è scemato drasticamente nell’ultimo decennio, e per una buona ragione. Ora è ampiamente visto per quello che è diventato: una struttura oligarchica, zeppa di corruzione, costruita sul diniego di qualunque tipo di sovranità popolare che impone un aspro regime economico di privilegio per i pochi e di costrizione per i molti. Ma ciò non significa che abbia di fronte alcun mortale pericolo dal basso. La rabbia nella popolazione cresce. Ma la paura la sovrasta ancora largamente. In condizioni d’insicurezza crescente, ma a una certa distanza da una catastrofe, il primo istinto naturale sarà sempre quello di aggrapparsi all’esistente per quanto ripugnante, piuttosto che rischiare quel che potrebbe essere radicalmente diverso. Ciò cambierà soltanto se — e quando — più della paura sarà la rabbia.
* da Il Manifesto del 4 marzo 2014
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