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Prima parte
[L’associazione ¡A la Calle! di Rimini è in Kurdistan, tra Turchia e Siria, per partecipare alla delegazione di osservatori internazionali organizzata dall’Ufficio di Informazione del Kurdistan in Italia. La delegazione sta affiancando il popolo Curdo durante i festeggiamenti del Newroz, il capodanno curdo, più volte duramente repressi da esercito e polizia Turca]
Lice 16/03/2015
Le pianure della Mesopotamia avvolgono Dyarbakir in un abbraccio che rapisce gli occhi, fatto di infiniti campi di grano ed ulivi minuti, quasi timidi, che riempiono la valle del Tigri e spezzano il profilo imponente dei monti del Tauro Orientale.
Le mura bizantine della città, in basalto di colore grigio scuro, intonate al cielo plumbeo di questi giorni di fine inverno, lasciano presto spazio a palazzoni dalle linee severe e squadrate nati da una speculazione immobiliare figlia legittima del boom economico Turco.
È sufficiente allontanarsi dal centro della città di pochi chilometri per ritrovarsi avvolti dalle distese di grano verde che corrono tutto attorno fino all’orizzonte sormontate dalle cime innevate del Tauro.
Per i curdi Amed, per i turchi Diyarbakir, la città oggi conta oltre 800mila abitanti, molti dei quali esiliati interni dopo la distruzione di centinaia di villaggi curdi nei primi anni novanta da parte delle forze armate di Ankara in tutto il KurdistanTurco.
È la città più grande ed il cuore politico ed economico del Kurdistan Turco.
La città deve il nome alla sua storia fatta di dominazioni, conquiste ed intrecci di storie e relazioni.
Il nome turco, con cui la città è nota, risale alla conquista araba del 639 quando il clan (“banu” significa tribù in arabo classico) arabo dei Banu Bakr prese possesso della città.
I saffavidi di Persia, che da Isfahan controllavano una buona parte del Vicino Oriente e dell’Asia Centrale, la strapparono agli arabi sul finire del XV secolo per perderla a vantaggio dei Turchi Ottomani qualche anno dopo.
Poco alla volta la strada, una striscia di asfalto ampia, ben curata e monotonamente diritta, taglia con il suo grigiore il verde intenso dei campi di grano e sale con dolcezza verso i villaggi curdi dell’area metropolitana di Diyarbakir aggrappati alle pendici di montagne che sono state, e sono ancora oggi, rifugio accogliente per quante e quanti hanno scelto di servire la propria comunità declinando un’idea di giustizia sociale verso cui orientare la lotta.
Durante gli anni ’80 e ’90, questi villaggi, circa 40 km a nord est di Diyarbakir, sono stati il teatro di un feroce conflitto fatto di deportazioni e massacri, confische di terreni e devastazioni, combattuto da uno stato contro un popolo.
Occorre circa un’ora di viaggio per arrivare a Lice.
La striscia di asfalto poco alla volta sale ed i mandorli in fiore e i boschi di roverella prendono il posto dei campi di grano.
I colori che mi circondano sono intensi ed aiutano a fissare i ricordi nella mente.
Il verde rigoglioso che incastona mucche e cavalli al pascolo, le sfumature di un cielo scuro fatto di grigi minacciosi sotto cui si rincorrono i cani pastore che vigilano con fare annoiato sulle greggi di pecore.
Il bianco dei monti innevati dalle abbondanti nevicate di questo inverno dipingono uno scenario quasi alpino.
Ogni tanto lo sguardo viene distratto dal transito dei blindati dell’esercito turco, che procedono in direzione contraria alla nostra.
Arriviamo a Lice dopo un’ora di viaggio, 11mila anime e 15 mila soldati turchi, un centro medico e cinque caserme.
In questo distretto è nato il PKK, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, e l’associazione delle idee porta la mia mente a Crossmeglen, nel South Armagh.
Terra di banditi per il governo Inglese e i partiti unionisti e al contempo terra liberata per i repubblicani Irlandesi.
Prima del 1980 erano oltre 50mila gli abitanti di Lice, ma il conflitto ha portato alla fuga di numerose famiglie.
Gli 11 mila abitanti di oggi vivono di un’economia di sussistenza fatta di artigianato, piccolo commercio, pastorizia e agricoltura su ciò che resta delle terre espropriate e riassegnate dal governo turco ai guardiani dei villaggi, o gestite direttamente dai militari.
La lobby militare turca, custode della Repubblica secondo la carta costituzionale, ed anima nera della politica turca dalla fondazione della Repubblica ad oggi è quasi monopolista nella produzione nazionale di hascisc con i cui proventi vengono illecitamente integrati gli stipendi dei militari di stanza in Kurdistan.
Per la legge nazionale turca un terreno privato non coltivato per 20 anni è legittimamente confiscabile senza indennizzo, il che ha consentito dai primi anni ’80 ai militari turchi di gestire illecitamente un immenso patrimonio agricolo come conseguenza della fuga, o dell’espulsione, di molte famiglie curde in altre città o in altre nazioni.
In Bosnia come in Palestina passando per il Kurdistan, la multinazionale dell’esproprio ricava enormi profitti da guerre e occupazioni.
I guardiani dei villaggi sono uomini curdi che accettano di collaborare con le agenzie dello stato turco, in particolar modo con l’esercito, facendo da guide durante le operazioni militari in montagna, fornendo informazioni di vario genere e ricevendo in cambio uno stipendio fisso e la possibilità di coltivare parte dei terreni confiscati e gestiti dalla lobby militare.
I curdi li chiamano utilizzando il dispregiativo giash, traducibile grossomodo con la parola “infame”.
I guardiani dei villaggi li vedi lungo la grande strada che da Diyarbakir scende verso Urfa seduti ai margini della carreggiata fuori da piccoli edifici di pietra.
Sono a tutti gli effetti collaboratori fissi dell’esercito e regolarmente stipendiati ed in questi giorni di Newroz, tengono monitorare le grandi arterie di comunicazione.
Il governo Turco ha utilizzato varie modalità per cacciare la popolazione curda dalle proprie terre. Interi boschi sono stati dati alle fiamme per sottrarre rifugi ai guerriglieri del PKK, villaggi rasi al suolo con i buldozer, o incendiati con gli animali ancora nelle stalle e la popolazione rinchiusa nelle mura di case che sono diventate tombe.
Nel solo 1990 furono 56 i villaggi curdi bruciati. Una pulizia etnica di cui poco si è parlato avvenuta ai confini dell’Europa.
Ancora oggi comitati popolari e familiari cercano le fosse comuni in cui sono spariti migliaia di corpi. Le ultime vittime a Lice sono del 2014, sei ragazzi uccisi con colpi d’arma da fuoco durante una manifestazione contro la costruzione di una nuova caserma nei pressi della città.
I giorni dal 20 al 23 Ottobre del 1993 sono ricordati come i giorni del massacro di Lice.
Il 20 Ottobre, dopo giorni di tensioni tra la popolazione locale e l’Esercito Turco il Brigadiere Generale Bahtiyar Aydın comandante della Gendarmeria nel distretto di Dyarbakir viene ucciso a Lice in circostanze misteriose probabilmente da altri militari per questioni legate al mercato dell’hascisc ed alle gestione dei terreni e della cava di marmo, anch’essa gestita dall’esercito con dipendenti Turchi fatti venire dall’Anatolia.
Chi aveva pianificato l’omicidio dell’altro ufficiale aveva atteso il riacutizzarsi delle tensioni tra Esercito Turco e popolazione locale.
Il Pkk negó ogni coinvolgimento nell’omicidio di Aiydin, ma ciò non fu sufficiente ad evitare un attacco brutale contro il paese.
Per tre giorni mezzi corazzati turchi scorrazzarono per le piccole strade del paese sparando contro le abitazioni.
Venne imposto il coprifuoco e furono tagliati acqua ed elettricità.
Intere famiglie si ritrovarono prigioniere in casa senza acqua nè cibo per 3 giorni.
All’ombra di un vecchio gelso ascoltiamo il racconto di una testimone attiva nel comitato delle donne del paese.
Il 24 Ottobre dopo tre giorni di attacchi 38 civili avevano perso la vita e 400 abitazioni erano state bruciate.
Di storie ed episodi analoghi ce ne sono decine, ciò che sorprende è la determinazione di questa gente che riesce ad essere dura senza perdere la tenerezza, che prova a parlare al mondo dalla solitudine di un villaggio di montagna, che difende valori universali contro chi pratica l’intolleranza, da Lice a Kobane, sotto bandiere che suscitano emozioni e scaldano i cuori. (Continua)
2° parte
Diyarbakir 20/03/2015
I numeri sono quelli della catastrofe, i volti, i drammi, i sorrisi, i racconti ed i sogni sono gli stessi di altri profughi; dalla Bosnia alla Siria, dalla Libia al Ruwanda.
Curdi Iracheni, appartenenti alla comunità Aezida, con un presente da profughi nel Kurdistan Turco ed un futuro Palestinese che li attende.
Vivono in campi di tende di plastica, gelide d’inverno e roventi d’estate, dentro i confini del Kurdistan Turco.
Oggi dentro i confini turchi ci sono circa 200mila profughi Aezidi sparsi in vari campi di prima accoglienza.
Il governo di Ankara non vuole altri 200mila curdi sul proprio territorio e non lo nasconde.
Per anni oltre a negare l’identità curda, così come quella armena, a vietare l’uso della lingua, a proibire le celebrazioni del newroz (l’antico capodanno zoroastriano che coincide l’equinozio di primavera, i cui festeggiamenti erano proibiti fino al 2000) il governo turco ha distrutto deliberatamente oltre 4500 villaggi Curdi in un decennio, a partire dai primi anni ottanta e deportato circa 3 milioni di persone senza offrire alcuna soluzione alternativa.
Tra la prima metà degli anni ’80 ed i primi anni ’90 le principali città del Kurdistan Turco hanno subito un incremento demografico indotto dall’arrivo di chi aveva perso ogni cosa, durante quella che venne presentata all’opinione pubblica come una campagna contro il terrorismo, e fu a tutti gli effetti una pulizia etnica che non ha risparmiato nessuno: uomini, animali, villaggi e boschi.
Gli ordini di evacuazione venivano comunicati alla popolazione senza preavviso, oppure, in molti casi, non venivano nemmeno comunicati.
L’Esercito Turco, con la scusa di bonificare aree a forte presenza di guerriglieri del PKK, entrava alle prime luci dell’alba nei villaggi e incendiava le abitazioni con le famiglie ancora all’interno.
I familiari delle vittime ancora cercano i corpi di 17mila desaparecidos Curdi (rastrellati da Esercito e Polizia) che si sommano ai 15mila Curdi uccisi dallo Stato Turco.
In questi anni i familiari delle vittime non hanno mai smesso di cercare le fosse comuni dei propri cari ed hanno stretto un vincolo solidale, quello di chi partecipa al medesimo dolore, con le madri di Plaza De Mayo.
Quando una nuova fossa comune viene scoperta il governo turco, ancora oggi, chiude l’area e rende problematica, o addirittura impedisce, l’identificazione dei corpi.
I profughi interni, circa 3milioni, fino a quando sono rimasti, o rimangono, dentro i confini Turchi non vengono riconosciuti come profughi dalle Nazioni Unite né hanno accesso ad alcun programma di protezione ed assistenza ad opera dell’ONU in Turchia.
Molti arrivarono a Batman, Diyarbakir, Gaziantep, Sanhurfa reinventandosi un simulacro di vita.
Altri proseguirono l’esodo verso Ankara e Istanbul, dove oggi vivono decine di migliaia di Curdi in un presente spesso fatto di sfruttamento ed emarginazione sociale.
Altri ancora hanno raggiunto la Germania (dove oggi vivono oltre 3milioni di Turchi di cui più del 10% è Curdo) ed in misura minore altri paesi europei.
In moltissimi casi i profughi interni non sono riusciti ad integrarsi nei nuovi contesti, nemmeno qui in Kurdistan, divenendo marginalità sociale e manovalanza a basso costo consegnata alla filiera dello sfruttamento per ogni tipo di attività sia lecite che illecite.
Non è diversa la loro sorte da quella di chi, con la forza dell’auto conservazione, e la speranza di poter ambire ad una vita degna, attraversa il Mediterraneo in fuga da conflitti, miseria e sfruttamento.
Oggi il governo Turco, in assoluta continuità con le scelte assunte durante il golpe militare del 12 Settembre 1980 (che portó al potere il generale Kenan Evren) e praticate con i governi successivi, tra cui quelli di Turgut Özal, Süleyman Demirel e Tansu Çiller (primo premier donna della storia turca) non concede il permesso di soggiorno ai Curdi Aezidi in fuga dall’Iraq settentrionale (fornendo appuntamenti per l’ottenimento del permesso con date che variano dai 2 ai 7 anni per l’eventuale primo rilascio) dove tra Agosto e Settembre 2014 hanno subito, ad opera dell’Isis, e della locale comunità sunnita (non solo araba ma in alcuni casi anche curda) il 72esimo tentativo di genocidio nella storia millenaria di questa comunità di sopravvissuti.
Un Occidente in trincea dal 12 Settembre 2001, in nome di uno scontro di civiltà artefatto e funzionale ad un nuovo ordine nella geopolitica del Medioriente, che ha scoperto l’esistenza delle comunità Aezida solo dopo i primi massacri compiuti dall’ISIS.
In Italia ad un’opinione pubblica allocchita (a Rimini si direbbe incocalita) dai deliri razzisti di Oriana Fallaci (che nonostante le molte permanenze in Medio Oriente ha avuto la straordinaria capacità di non capire nulla di ció che accade ai confini dell’Europa) gli Aezidi sono stati presentati da stampa e network di comunicazione di massa come gli antichi “adoratori del fuoco”.
Molti media nazionali hanno utilizzato, più o meno consapevolmente, la traduzione italiana “adoratori del fuoco” del termine dispregiativo utilizzato dagli arabi in Iraq “mjos”.
Il governo di Saddam Hussein lo utilizzò anche nei confronti degli sciiti persiani durante la guerra con l’Iran (1980-1988) per dipingere i musulmani sciiti Persiani come dei senza Dio e motivando, con la retorica tipica di ogni governo autoritario, i musulmani sciiti Iraqueni (legati alla scuola di Najaf e non a quella di Quom) a prendere le armi.
Gli arabi nel corso dei secoli hanno coniato vari termini, quasi sempre dispregiativi, per la comunitá Aezida, tra cui quello di Yazīdí (da cui deriva il poco corretto termine Italiano “Yazidi”)
Lo shiek di uno dei campi profughi visitati rimarca la differenza, che non è solo di forma ma di assoluta sostanza, ed insiste nello specificare che il termine corretto con cui chiamarli è Aezidi.
Il termine Yazidi deriva infatti dal nome del Califfo Omayyade Yazid I, sunnita, detestato dagli sciiti ancora oggi, poichè fece massacrare a Kerbala, nell’odierno Iraq, il 10 Ottobre del 680 d.c. Husayn (figlio del quarto ed ultimo Califfo, Alì, a sua volta cugino e cognato di Maometto).
Il massacro avvenne, secondo il calendario islamico, il giorno dieci (ashara in arabo significa dieci) del mese di muharram dell’anno 61 dell’Egira.
Dal nome “ashara” deriva il termine Ashura, la celebrazione sciita in cui si commemora il massacro di Kerbala che generó negli sciiti l’elevata vocazione al martirio sull’esempio dell’uomo che sacrificó se stesso in nome della salvezza della propria comunità.
I media Occidentali dell’ashura raccontano solo le auto flagellazioni pubbliche, che alcuni uomini si infliggono con mazzi di catene simili a fruste, o con delle spade rituali (come avviene a Bassora) senza proferire parola sul portato umano e spirituale di quella celebrazione.
Nella retorica araba irachena con l’utilizzo imposto dagli arabi del termine gli “Yazīdī” sono impropriamente associati con i massacratori di Hussayn collegando la comunità Aezida con una sorta di peccato originale a cui sono completamente estranei.
La spiritualità Aezida è estremamente complessa, così come la liturgia e le regole del culto, per le quali esiste un vero e proprio percorso di iniziazione e di cui pochi anziani sono i depositari, rendendo la comunità un qualche cosa di non facilmente definibile sotto il profilo religioso, a metà strada tra una derivazione dello zoroastrismo (una delle più antiche religioni monoteiste con milioni di fedeli nel mondo ancora oggi ed il cui principale luogo santo si trova in Iran nel tempio di Chack Chak non lontano da Yazd) ed una setta dello gnosticismo islamico.
Il campo profughi di Sinjar prende il nome dall’omonima città nel nord dell’Iraq, Sinjar in arabo, Shengar in curdo.
Tra Luglio ed Agosto 2014 iniziarono le prime aggressioni da parte della locale comunità sunnita sia araba che curda.
In molti villaggi attorno alla città di Sinjar, ed alle pendici dell’omonima montagna, quelli che fino al 2003 erano semplicemente vicini di casa e che dopo la caduta di Saddam Hussein (che ha perseguitato, espulso e massacrato la comunità Curda) erano diventati i vicini di casa sunniti diedero il via alle prime aggressioni non appena si sparse la notizia del l’imminente arrivo dei miliziani dell’ISIS.
Come ogni stato artificiale post coloniale anche l’Iraq viveva di una fitta rete di vincoli ed accordi tra comunità e gruppi tribali che consentivano ad un governo autoritario (rappresentativo di un’alleanza di famiglie sunnite originarie della zona di Tikrit) ed espressione della minoranza sunnita di governare il paese.
L’esercito Iracheno, sia prima che dopo il 2003, era ed è un monolite etnico in cui tutti gli ufficiali e buona parte delle truppe vengono dalla comunità sunnita mentre dopo la caduta di Saddam i gruppi sciiti hanno creato varie milizie parallele (la più celebre è l’Esercito del Mahdi di Muqtada Al-Sadr con cui, in violazione alla convenzione di Ginevra l’allora Commissario Straordinario della Croce Rossa Scelli, si accordò affinché gli ospedali della Cri nelle aree a maggioranza sciita avessero un servizio esterno di vigilanza armata).
In un paese dalle istituzioni fragili, dove il sistema bancario offre più rischi che certezze, con molte rimesse dall’estero (in valuta pregiata) da parte di emigrati è consuetudine che somme di denaro contante, anche ingenti, siano tenute in casa.
In Bosnia come in Iraq la multinazionale dell’esproprio costruisce patrimoni milionari uccidendo e depredando.
Dopo le prime uccisioni i portavoce della comunità Aezida chiesero al Governo Autonomo Curdo delle armi, ottenendo una risposta negativa accompagnata dalla rassicurazione che l’Esercito Iracheno li avrebbe difesi dall’arrivo dell’Isis.
Ció che è accaduto è la cronaca di un massacro annunciato.
Ufficiali e truppe sunnite dell’esercito Iracheno si rifiutarono di combattere contro altri sunniti per proteggere gli Aezidi e la zona di Shingar venne circondata dall’ISIS in pochi giorni e senza combattimenti.
200mila persone, fuggite con i soli abiti che indossavano, cercarono la fuga tra le montagne senza acqua né cibo e con la scarsa assistenza degli elicotteri Iracheni che hanno effettuato alcuni lanci di generi di prima necessità alle colonne di profughi in fuga con quantitativi del tutto insufficienti.
Sono molte le persone morte di stenti durante la marcia, per sete e fame, tra le montagne mentre le donne Aezide catturate venivano ridotte in schiavitù e vendute a Raqqa (la capitale del Califfato nel nord della Siria) per 100 dollari a ricchi sunniti Sauditi, Siriani, Iracheni e di altri paesi del golfo.
Dei bambini non si sa molto, circolano raccontiraccapriccianti e sembra probabile che in molti siano stati destinati ad un percorso di conversione forzata all’islam ed addestramento per farli diventare bambini soldato.
I profughi di Senjar, come quelli di Sebrenica, sarebbero morti nell’indifferenza della comunità internazionale se non fossero intervenuti in loro soccorso i combattenti curdi del Rojava (per semplificare il Kurdistan Siriano) delle Unitá di Protezione del Popolo YPG e delle Unitá di Protezione delle Donne YPJ.
A costo della vita di molti combattenti hanno attaccato i miliziani dell’ISIS ed aperto un canale prima verso i Cantoni Siriani e poi oltre il confine Turco salvando la vita a decine di migliaia di Aezidi.
La solidarietà Curda non si è fermata al canale umanitario, le municipalità governate dalla sinistra Curda hanno allestito e gestiscono i campi profughi facendo quello che non fa il governo di Ankara.
Nel campo di Sinjar appena fuori Diyarbakir, ad est lungo la strada per Batman, delle 890 tende (una per famiglia) solo 120 sono state donate dall’Afa (un’agenzia di assistenza Turca).
Il governo Turco esclude i profughi Aezidi dall’accesso alle cure mediche, limitando ad alcune prestazioni di Pronto Soccorso l’assistenza Sanitaria mentre i Comuni Curdi, a proprie spese, dando una lezione di accoglienza e solidarietà anche al populismo da operetta di casa nostra, pagano le prestazioni degli ospedali privati Turchi non potendo i profughi accedere (nemmeno a pagamento) alle strutture sanitarie pubbliche.
I Curdi Iracheni parlano un dialetto curdo, il sorani, che non è compreso dai Curdi in Turchia che parlano curmanji.
Le municipalità ed i molti volontari curdi cercano di istituire, negli spazi dati dall’emergenza, corsi di curmanji per consentire agli Aezidi (che parlano l’arabo come seconda lingua ed ignorano il turco) di comunicare con la popolazione locale.
Tra i compiti più ardui che i volontari fronteggiano vi è quello di convincere i profughi a non tentare soluzioni improvvisate per muoversi in Turchia o per andare in Europa, non avendo denaro né documenti e parlando in alcuni casi la sola lingua sorani.
La criminalità organizzata Turca non ha perso tempo e in alcune occasioni sono entrati nei campi persone che si sono spacciate per giornalisti ed hanno preso contatti con alcuni profughi convincendoli successivamente, tramite comunicazioni con cellulari e smartphone, a lasciare il campo in cambio dell’illusione di un lavoro.
Molti profughi sono scomparsi, altri sono finiti a lavorare per 3 TL al giorno (circa € 1,10) ad Ankara ed Istanbul.
È di poche settimane fa il ritrovamento ad Istanbul, in un appartamento che avevano affittato, di 5 corpi di profughi Aezidi uccisi a colpi d’arma da fuoco.
Nessuno di loro vuole tornare in Iraq, nonostante la città di Sinjar sia oggi liberata dalla presenza dell’ISIS.
Tutti quelli incontrati, oltre a chiederti il recapito telefonico e l’accaunt Facebook per provare ad essere aiutati a venire in Europa, ribadiscono con fermezza che dove ci sono arabi sunniti loro non vogliono più vivere e chiedono una forza internazionale di protezione in Iraq per loro e per i cristiani Iracheni come condizione per un eventuale e poco probabile ritorno.
Lo scontro di civiltà genera mostri e chi lo ha creato ed alimentato continua a diffondere il silenzio assordante attorno alle vittime di ieri e di oggi.
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