Il tristissimo caso di Khama è uguale ad altre storie di sopraffazione di genere introdotte dalle guerre. E dalla stessa pace. Certo dove imperversa la violenza, per decenni o per mille e mille anni, queste situazioni si sono ripetute. E’ un tempo fermo e infinito, che assimila stupri e oppressione sessuale a quel mondo maschile incentrato sul potere della forza e sulla forza del potere. La vicenda di Khama si sviluppa a Sjniar, nella terra irachena ora segnata dai drappi neri dell’Isis e dalla spietata fama dei suoi miliziani. Ai quali la giovinetta è costretta a offrirsi quale schiava del sesso solo perché è yezida, dunque, secondo una visione del sunnismo fondamentalista, un’infedele cui si può infliggere ogni dolore. La si può degradare con qualsiasi umiliazione. Come lei migliaia di giovani donne impossibilitate a fuggire sono state soggiogate e usate. “Perché ci fate questo?” hanno chiesto, pur impaurite, agli aguzzini. La risposta è arrivata con scherni e colpi di bastone. Khama lo ricorda con orrore oggi che mestamente ricostruisce, davanti a un gruppo di avvocati dei diritti, una testimonianza sul “bazar dei corpi femminili” istituito attorno a Mosul da lenoni delle bande fondamentaliste.
Fra molte sofferenze la libertà è apparsa a Khama in una notte, complice una finestra chiusa solo col cellophane; dopo averlo reciso lei e altre cinque ragazze sono saltate fuori dalla casa-prigione. Istanti di cuore impazzito e angoscia. Khama attendeva la cugina che s’attardava a calarsi… A un tratto una luce, forse una sentinella, le compagne di fuga che fremono: non si può più aspettare. Via, la corsa notturna a perdifiato, con la paura montante d’essere prese e per questa “trasgressione” condotte a morte. Incertezze. I jihadisti affermano di non sopprimere le donne. Lo dicono da maschi islamici, ma le yezide sono terrorizzate. L’inatteso lieto fine conduce Khama e le fuggitive a scampare agli oppressori, però ogni momento della terribile avventura resta nella mente e pesa come un macigno. La memoria della propria vendita, individuale e collettiva, l’ascolto delle trattative, la richiesta di denaro e sconti. Pochissimo denaro, 13 dollari, viene sborsato da un foreign fighter con passaporto dell’ovest per due ragazze. L’intento è parcheggiarle nella propria casa accanto a moglie e altre donne yezide, alcune nella veste di serve.
Ora sul web è comparso un documento, una specie di fatwa, che affronta il tema della schiavitù femminile con tanto di domande e risposte. L’oggetto sono yezide, cristiane, ebree che possono essere acquistate e cedute. Seguono particolari di comportamento: l’uomo può avere un rapporto intimo con una schiava solo se lei è vergine, se non lo è il maschio deve accertarsi che non sia incinta. E ancora: può avere un rapporto con una bambina se lei ‘s’adatta al rapporto’. Il responso è giudicato depravato e deprimente in contrasto con le norme islamiche, pare sia stato stilato a misura delle stravaganze e dei desideri di guerriglieri mascherati da credenti. Tutto è stilato a sua misura: una donna convertita può attendersi un matrimonio forzato, ma se rifiuta finisce fra le braccia di decine di miliziani. Le donne, giovani o ragazze, vengono raccolte in una sala chiusa e vendute come bottino di guerra. I primi a scegliere sono i combattenti stranieri, quindi i locali. Drammi femminili non dissimili dalle infernali pene che il benessere occidentale propone alle sue donne oggetto, pescate ovunque dalle mafie internazionali e vendute sulle strade, dietro l’angolo di casa nostra. Con una fine spesso segnata per il povero corpo gettato in un fosso.
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