Alexis Tsipras è arrivato a presiedere il governo greco dopo un voto, quello dello scorso 25 gennaio, in cui ha ottenuto consensi enormemente superiori ai militanti e simpatizzanti del suo Syriza, un partito di sinistra in fieri che, navigando abilmente tra i marosi della crisi ellenica, ha conquistato (5% nel 2007, 16% e 26% nelle due elezioni del 2012, infine 36%) tanti elettori dell’agonizzante partito socialista (PASOK) e raccolto molti voti di protesta.
Dunque cinque mesi fa è stato un elettorato composito quello che ha consegnato a Tsipras e compagni il timone della Grecia, con un mandato chiarissimo: la “fine dell’austerità” imposta ad Atene – in cambio di prestiti per complessivi 240 miliardi di euro – dai suoi creditori internazionali (Banca centrale europea, Commissione europea, Fondo monetario internazionale). Dopo sei anni di recessione ininterrotta, con la disoccupazione al 25,6% e alle prese con quella che il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, ha definito una “crisi umanitaria”, la maggioranza dei greci si è affidata a Tsipras e Syriza.
Ma l’arrogante autoreferenzialità dell’Eurogruppo (organismo informale con scarsa o nulla legittimità democratica) deve aver obnubilato i suoi falchi Schauble (Germania) e Dijsselbloem (Olanda) al punto da render loro intollerabile che i governanti greci a Bruxelles pretendessero di negoziare la “fine dell’austerità” o quantomeno una sua sostanziale attenuazione.
Dopo cinque mesi di “trattativa”, la scelta dell’Eurogruppo di non fargli concessioni ha messo l’esecutivo di Atene con le spalle al muro: Tsipras e compagni (che avevano sognato di coinvolgere nella loro battaglia altri governi, quello francese e italiano anzitutto) hanno annunciato che domenica prossima torneranno dagli elettori per sottoporgli un referendum (“sì” o “no” al piano dell’Eurogruppo) che rappresenta un’implicita ammissione del fatto che a Bruxelles le ragioni dei greci non hanno fatto breccia. Una mossa tattica di Tsipras per essere ri-legittimato, questa volta a ingoiare un rospo altrimenti indigeribile? Forse, ma comunque un riconoscimento di debolezza davanti all’opinione pubblica ellenica.
Se poi – al termine di una campagna criminale da parte delle “istituzioni” (sospensione dei prestiti di emergenza alle banche greche, spettro della Grexit brandito con incredibile leggerezza…) e temendo di perdere tutto, insomma col cappio alla gola – i greci voteranno “sì” alle dure condizioni dei creditori, Syriza sarà ulteriormente indebolita: potrebbe a quel punto portare avanti una linea che non è la sua? Forse, ma a patto di perdere pezzi (la sinistra interna) della sua maggioranza e inglobarne di nuovi, più moderati. L’alternativa sarebbe riconsegnare il mandato nelle mani del presidente della Repubblica.
L’intransigenza paga, avranno calcolato i falchi dell’Eurogruppo pregustando l’intralcio che una Syriza ridotta a più miti consigli potrebbe costituire per l’apparentemente irresistibile avanzata dei cugini di Podemos verso il voto spagnolo dell’autunno prossimo.
E il popolo greco, che aveva mandato al governo chi, oltre alla “fine dell’austerità” prometteva anche il rispetto della “sovranità” nazionale? E l’effetto destabilizzazione su un paese come la Grecia, tradizionalmente “turbolento” e con una destra squadrista pronta a riemergere, manganelli e pistole in pugno? L’intransigenza paga, scommettono gli dei dell’Eurogruppo che, immemori delle immani tragedie prodotte dai più recenti “regime change” (Ucraina, Libia, Siria, Iraq, Egitto…) ora sperimentano il loro cambio di regime all’ombra del Partenone.
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