Diciamola semplice: attendersi che “la classe dirigente” possa cambiare registro e visione solo perché c’è una crisi generale è una pura illusione. Fondata, per carità, specie in chi coltiva la speranza che in ogni essere umano alberghi la scintilla della razionalità. Ma è un’illusione.
Guardando al contorto gioco “politico” di questi giorni, tra “Piano Colao”, “Stati generali”, divisioni interne a maggioranza e opposizione, poche cose risultano chiare. Ma solo se ci si allontana un attimo dal susseguirsi di tweet e battute a beneficio delle televisioni e si prova ad osservare dall’alto questo formicaio dove tutti corrono in ogni direzione, apparentemente senza una direzione, le cose diventano più chiare.
Il rebus da risolvere, per tutti i soggetti in campo, è immane. Come risollevare questo Paese, dopo 30 anni di disinvestimenti pubblici e privati, con un debito pubblico “eccessivo”, imprese che delocalizzano e multinazionali che ricattano (“o si fa come diciamo noi, o ce ne andiamo”), imprenditori che investono i profitti nella finanza, senza risorse né autonomia monetaria, con una ricchezza privata altissima ma congelata (immobili, conti correnti, fondi finanziari) e soprattutto senza progetti di lungo respiro, coordinati in una strategia razionale?
Nella babele delle risposte possibili emergono con forza alcuni elementi.
La “crisi pandemica” è un’occasione che nessuno si vuol far scappare. L’”emergenza” e la necessità della “ricostruzione” consentono infatti di far piazza pulita di regole, leggi, diritti, poteri, abitudini, mentalità. Come dopo una guerra o quasi, mentre tutti – o la maggioranza della popolazione – camminano con la testa volta all’indietro, in attesa di un impossibile “ritorno alla normalità”.
Ricostruire costa. E in mancanza di un “prestatore di ultima istanza” – o di una “superpotenza amica” disposta a finanziare l’equivalente attuale di un Piano Marshall – le uniche possibili iniezioni di capitale provengono dall’Unione Europea. Sotto forma di prestiti (che aumentano il debito pubblico) e di trasferimenti solo in teoria “a fondo perduto”, comunque condizionati alla realizzazione di “riforme strutturali” già codificate in alcune “linee guida” che ripropongono la solita austerità, giusto rinviata per il tempo necessario a produrre di nuovo un saldo attivo di bilancio con cui ripagare – se non il debito – almeno gli interessi.
Il famigerato Mes e il Recovery Fund – o “Europe’s moment: Repair and Prepare for the Next Generation”, come è stato subito rinominato – appaiono nelle tenebre come l’ultimo tesoro spendibile per realizzare almeno una delle “ricostruzioni” possibili.
Ma quale?
Il “Piano Colao” ha almeno il pregio di essere una proposta chiara. Talmente chiara da costringere Marianna Mazzuccato, economista e consulente del presidente del Consiglio, a non firmarlo.
Da qualunque parte lo si guardi – e abbiamo cominciato a farlo con almeno due analisi su singoli aspetti – quell’insieme di proposte si presenta come la piattaforma programmatica comune a Confindustria e all’Unione Europea. L’obiettivo è infatti fare delle imprese private, in primo luogo multinazionali, il baricentro del ridisegno della società italiana in ogni suo ambito.
Era difficile comunque attendersi qualcosa di diverso da un ammirato amministratore delegato di multinazionali (per dieci anni Vodafone, poi Unilever, con un passato in Morgan Stanley e McKinsey, nonché alla guida di Rcs Mediagroup, ecc), membro di tutti gli organismi che contano davvero (dal Gruppo Bilderberg all’European Round Table of Industrialists, come vicepresidente).
Insomma, una figura di spicco in quella “borghesia multinazionale europea” di cui si fatica spesso a percepire i contorni, presi come siamo da abiti mentali buoni per epoche ormai alle spalle da decenni.
Viene semmai da chiedersi chi abbia mai potuto suggerire un profilo simile per affrontare una situazione in cui occorre – per consenso unanime – mettere in piedi politiche in qualche misura keynesiane, un intervento pubblico che non sia soltanto “infermieristico” (soldi per imprese e lavoratori), ma mirato a definire una politica industriale di “ricostruzione”, appunto.
Fatto sta che su quel “Piano” possono convergere davvero tutti i soggetti politici, oltre che ovviamente Confindustria. Piace alla Lega (contiene persino una valanga di condoni!), a Berlusconi, a Renzi, al Pd, ai seguaci della Meloni, a Calenda, a Toti e a maggior ragione della Bonino…
E’ una piattaforma programmatica da “governissimo” che terrebbe fuori, per molti motivi, soltanto i grillini. Ma non è detto che un Di Maio non possa mandar giù anche questa…
Se così è, c’è un solo problema: è politicamente impossibile da presentare ai rispettivi elettorati. La frammentazione della classetta politica, figlia della subordinazione totale della “politica” all’economia e agli organismi sovranazionali (non c’è molto da decidere davvero, solo voti da conquistare), è tale da non consentire a nessuno dei precari “leader” un voltafaccia così brutale.
Occorrerebbe uno shock ulteriore, un qualcosa di dimensioni sufficienti a rendere l’union sacrée una scelta obbligata, senza perdere la faccia, anzi assumendo quella dei “responsabili”. Ma dove trovarlo?
Sarebbe questo il tempo degli statisti e dei generali, ma in giro non se ne vedono. Perciò la “grande riunione” che Giuseppe Conte sta organizzando a Villa Pamphili rischia di passare alla storia come quella degli Stati Caporali.
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa