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Salvare l’Europa, l’Italia e la sinistra dall’Unione europea

Questo “contributo alla discussione” è stato presentato al CPN del 7/8 novembre 2015.

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Tanti e tante, in Europa, avevano riposto molte speranze nella lotta di Syriza. La conclusione, dopo lunghe ed estenuanti trattative, ha lasciato grande delusione. Alla quale tuttavia si unisce anche una certezza: l’Unione Europea, così come si è storicamente formata ed evoluta sotto il dominio del capitale finanziario è sotto ogni aspetto nociva ed irriformabile. Questo trova conferma anche in Portogallo dove alle forze di sinistra, pur avendo la maggioranza degli eletti, è stato preventivamente impedito di candidarsi a governare perchè non coerenti con le politiche dell’Unione.

La tragedia che si abbatte sui migranti è l’ultimo e definitivo sigillo che marchia d’infamia un’Europa prigioniera dell’ipocrisia, del cinismo dei propri governi, incapaci di affrontare le conseguenze di una politica di rapina e di guerre di cui essi portano la piena corresponsabilità. Ed sono ora vergognosamente inermi di fronte ad un esodo drammatico che si svolge fra un’ecatombe di morti, di persecuzioni ed umiliazioni senza quartiere inflitte a milioni di persone in fuga dai propri paesi d’origine ormai devastati, svuotati delle loro forze più vive, consegnati ad un sottosviluppo senza rimedio.

Quella a cui assistiamo con sbigottimento è una vera e propria caduta verticale della civiltà: una caduta che non va solo condannata con giudizi moralistici, ma indagata e compresa nella sua essenza, con l’ausilio delle categorie più penetranti che la nostra cultura ha pure messo a disposizione e che debbono aiutarci ad orientare la nostra azione.

Il fatto è che l’Unione europea è prima di tutto la forma politica di un rapporto sociale imperniato sul dominio del capitale finanziario. La sua architettura monetarista serve a stabilizzare il potere dell’oligarchia liberista che governa l’Europa. E si configura come la specifica risposta strategica del capitalismo continentale (a egemonia tedesca) alla caduta del saggio di profitto e la condizione per riplasmare la conservazione di rapporti capitalistici di produzione fortemente compromessi dalla crisi.

L’ambizioso progetto è quello di liquidare il welfare novecentesco, ridurre strutturalmente i salari a livello di sussistenza, consegnare alla marginalità le forme di aggregazione sociale e politica di impronta classista, rendere strutturale l’estrazione di plusvalore assoluto dal lavoro vivo, condizione necessaria in una fase storica in cui la composizione organica e la stupefacente concentrazione del capitale hanno raggiunto un livello tale da rendere difficile offrire agli investimenti un adeguato rendimento.

Siamo cioè di fronte ad una vera e propria ristrutturazione della formazione economico-sociale capitalistica (nell’accezione marxiana) che coinvolge: la struttura economica, cioè il modello di accumulazione che produce e riproduce il capitale finanziario, parassitario e speculativo; i rapporti di proprietà, attraverso la spoliazione della proprietà pubblica e la messa a profitto tutto ciò che può assumere i caratteri della merce; la sovrastruttura politica, attraverso la sterilizzazione del parlamento, l’annichilimento della democrazia rappresentativa in favore della concentrazione di tutto il potere negli esecutivi e lo stravolgimento del modello elettorale in funzione maggioritaria, bipartitica e in forma tendenzialmente presidenziale; la superstruttura culturale e ideologica, sostenuta da un imponente apparato mediatico che ha sradicato nella coscienza di larghe masse ogni cultura solidaristica, travolta dalla concezione individualistica e iper-competitiva.

L’Unione europea è infine un meccanismo non democratizzabile perché distrugge, deliberatamente e con metodo, il solo soggetto che potrebbe democratizzarla: il lavoro.

L’Unione europea non è nemmeno un soggetto politico che aiuta il multipolarismo e contiene l’espansione Usa: l’approvazione del Ttip rappresenterà il definitivo suggello alla supremazia del profitto sui diritti dei popoli e sulle loro costituzioni, mentre già le guerre commerciali si trasformano in conflitti combattuti sul campo e con le armi in teatri sempre più prossimi a noi.

La sinistra europea deve dunque riflettere a fondo sulla strategia utile per condurre una battaglia credibile ed efficace contro la deriva reazionaria in atto e sottrarsi al rischio di una definitiva subalternità all’ideologia dominante.

La ricerca può e deve essere intrapresa considerando senza pregiudizi tutte le opzioni in campo, sia che si pensi ad una rottura sinergica su scala continentale, sia che si ritengano indispensabili atti unilaterali su scala nazionale.

L’Italia ha molti buoni motivi per rompere l’Unione.

Il primo è la messa in mora della Costituzione, della democrazia, dell’indipendenza nella costruzione delle proprie politiche e dei propri bilanci.

Il secondo è che, sovrapponendosi alle debolezze strutturali della nostra economia, l’Unione si è rivelata una camicia di forza costruita con la deliberata missione programmatica di comprimere i salari, peggiorare le condizioni di lavoro, generare disoccupazione, tagliare la spesa sociale, soffocare la ricerca, gli investimenti e l’innovazione tecnologica e, alla fine, rendere impossibile qualsiasi politica di progresso sociale.

Il terzo è l’ammontare del debito pubblico che stretto nella morsa del Patto di stabilità e del Fiscal Compact, rende impossibile qualsiasi vera politica espansiva.

Senza una svolta nella nostra strategia, la protesta contro l’austerity rischia di essere monopolizzata dalla demagogia parafascista di Salvini e di ridurre la dialettica ad un affare fra la Lega lepenista, il Partito democratico organico al liberismo europeo e l’ambiguo del M5S.

Si tratta allora di costruire un’alleanza sociale e politica ampia tra orientamenti politici diversi per la democrazia, per una politica economica di piena occupazione e per conquistare la centralità politica dei lavoratori, senza la qual cosa l’evoluzione della crisi non potrà che avere un epilogo reazionario.

Il riferimento alla Costituzione del ’48 – lungi dal rappresentare un esercizio di rievocazione nostalgica – è il faro che può illuminare quanto è oggi necessario all’Italia: l’idea di uno Stato fondato su un compromesso democratico aperto a diversi sviluppi dinamici, un’economia mista e tuttavia caratterizzata dal primato dell’interesse sociale e dalla funzione programmatrice della mano pubblica, la riunificazione di tutto il lavoro eterodiretto dentro un quadro di diritti sociali e civili, individuali e collettivi certi e esigibili, il ripristino di una rappresentanza politico-istituzionale fondata su regole di assoluta proporzionalità.

Oggi, visto il volto ferocemente anticostituzionale del liberismo, istituzionalizzato nell’architettura politica dell’Ue, una qualche riedizione di quel compromesso pare l’unico modo per ridare dignità al lavoro ed al paese, gestire la non facile liberazione dal giogo dell’Unione e riaprire una prospettiva socialista. E per costruire una forma di identificazione collettiva che si basi sul riferimento ad una civiltà politica.

La costruzione di una forte alleanza popolare è dunque necessaria contro gli avversari interni, contro la troika, il capitalismo nordatlantico, di cui siamo alleati subalterni, che non sopporta le costituzioni antifasciste e nessuna sovranità al di fuori di quella statunitense.

Tutto ciò impone una mutazione profonda nelle abitudini mentali, nella cultura politica italiana, nelle forze politiche. E, per ciò che più direttamente ci riguarda, per definire un palinsesto programmatico che orienti, non episodicamente, tutta la nostra iniziativa, delineando, nel contempo, il profilo di una ri-civilizzazione del paese fondata sul recupero delle radici di classe della lotta per la democrazia.

Ecco, per punti, i tratti di questo rinnovato ingaggio:

– rilanciare il ruolo politico dei lavoratori e del lavoro, proteggere i salari e ridare ruolo contrattuale dei sindacati;

– reintegrare i diritti del lavoro espropriati dalla crociata anti-operaia;

– riproporre l’indicizzazione delle retribuzioni al costo della vita;

– ridurre su scala nazionale e in tutti i settori l’orario di lavoro;

– ricostruire un regime previdenziale che così com’è ora precluderà il diritto alla pensione a due generazioni di italiani;

– porre un tetto alle retribuzioni e alle pensioni;

– predisporre un piano per il lavoro che persegua davvero l’obiettivo della piena occupazione e della conversione ecologica dell’economia;

Si tratta altresì di conquistare condizioni fondamentali per una nuova e diversa politica:

– ricostruire il ruolo della Banca d’Italia e la relazione con il Ministero del Tesoro;

– nazionalizzare le banche e i principali asset industriali a partire dalla siderurgia;

– varare nuove politiche fiscali che restituiscano progressività all’imposta sul reddito e prevedere una tassa strutturale sui grandi patrimoni;

– ridefinire le regole che disciplinano gli scambi commerciali e i movimenti di capitale.

– Ridefinire un nuovo quadro di relazioni internazionali.

In questo quadro, compito dei comunisti è costruire con pazienza e lungimiranza un fronte, un’alleanza popolare e costituzionale per cambiare l’Europa, per cambiare l’Italia.

Un fronte che per sua natura e soprattutto per la natura degli altri interlocutori non può che essere elettorale e soltanto elettorale, finalizzato cioè a rompere l’Unione Europea, gestire la fase tumultuosa che ne deriverà, attuare la Costituzione, contrastare il capitale finanziario, i poteri forti nazionali ed internazionali.

Non è difficile intravedere quale straordinario compito questa prospettiva restituisca ai comunisti nella costruzione di un Fronte e di un blocco sociale che riunifichi l’insieme del mondo del lavoro eterodiretto oggi in larga parte deprivato di soggettività culturale e politica.

Qui il rapporto fra il partito rivoluzionario che ha per obiettivo la trasformazione dei rapporti sociali capitalistici fondati sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e la costruzione di fasi intermedie nelle quali possono (debbono) vivere alleanze “spurie” è chiaro e privo di equivoci: strategia e tattica si intrecciano senza confondersi, dentro una processualità che senza ambiguità lega la lotta di classe allo sviluppo della democrazia.

 

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