Non capisco cosa sia la mezzogiornificazione dell’Europa. Sono formulazioni immaginifiche ad effetto che non hanno alcun valore esplicativo. Il Mezzogiorno italiano è molto specifico. Lo zone sottosviluppate dell’Europa sono sempre state tali da quando si innescò la rivoluzione agraria e industriale senza inglobarle – per ragioni varie principalmente connesse al rapporto tra industria-finanza-imperialismo e mercati. L’UE e, prima ancora, la CEE non hanno il compito di equilibrare le varie regioni, le dichiarazioni in tal senso hanno unicamente un valore propagandistico. La funzione delle istituzioni europee è di operare come comitati d’affari dei diversi rami del capitale monopolistico localizzato in Europa. Nello specifico, se guardiamo ai problemi della Grecia di quaranta anni fa ci accorgiamo che sono quelli di un paese molto periferico altamente destrutturato. Con l’entrata della Grecia nella CEE nel 1981 cominciò a formarsi una bolla borghese e del ceto medio bramoso di Parigi e Londra che raggiunse livelli parossistici dopo l’entrata del paese nella zona dell’euro nel 2002. In Spagna quaranta anni fa era finita, per le stesse ragioni della crisi europea di allora, la crescita modernizzatrice fondata sull’integrazione di fatto nel MEC, che l’Opus Dei era riuscita ad imporre alla fine degli anni ’50 al riluttante regime agrar-finanziario franchista. Verso la metà degli ’80 la Spagna entrò nella CEE assieme al Portogallo. Nei primi anni ’90 aveva già oltrepassato il 20% di disoccupazione e – assieme alla Grecia ed al Portogallo – andava accumulando un deficit estero in rapporto al PIL più elevato del surplus globale tedesco. Idem per la Grecia. Durante gli anni boom 2000-2008 la disoccupazione spagnola non scese mai sotto l’11%. Ergo, non c’è nessuna mezzogiornificazione: quei paesi sono sempre stati ben radicati nell’area del sottosviluppo europeo. Ma andiamo avanti fino allo scoppio della crisi finanziaria.
Negli USA dopo il 2001 la Federal Reserve passò ad una politica monetaria di guerra (l’espressione la coniò De Cecco) inaugurando una fase di bassi tassi di interesse che durò fino alla fine del 2005. Il nuovo clima monetario coinvolse anche l’Europa e l’Eurozona dando luogo alle bolle spagnola, portoghese, cipriota e greca. Raggruppo le prime tre perché la Grecia richiede un trattamento a parte. Come caso paradigmatico possiamo prendere la Spagna. Quando uscirono allo scoperto le prime notizie della crisi negli USA, iniziata nel 2007 e non nel 2008 come si crede, il “Financial Times” scrisse un ottimo articolo sulla Spagna, presentandola come uno dei paesi più esposti alla crisi finanziaria americana in termini reali attraverso l’immobiliare. Il mercato dei capitali londinesi finanziava le operazioni di acquisto dell’immobiliare spagnolo e anche portoghese. Il sistema finanziario londinese è però in osmosi con quello USA: una crisi nel primo si ripercuote sul secondo con effetti a cascata sui mercati immobiliari serviti da Londra. E così fu. La natura periferica dell’economia spagnola legata all’internazionalizzazione del suo settore immobiliare viene evidenziata dalla fragilità dell’occupazione rispetto alla variazione del PIL. Tra il 2009 ed il 2014 la perdita cumulativa del PIL spagnolo è stata del 6% contro l’8% dell’Italia. Per contro l’aumento della disoccupazione è uno dei più violenti, passando dall’11% del 2008 al 18% del 2009, al 24,5% del 2014.
Il circuito della crisi in Spagna è passato prevalentemente dal settore bancario del paese, che ha una lunga storia di internazionalizzazione per via dei legami tra la Spagna e l’America Latina e di ambo con la City di Londra. In Grecia, paese a maggiore arretratezza economico-istituzionale, le banche non avevano la forza di operare da veicoli di finanziarizzazione. Tale ruolo è stato direttamente assunto dalle finanze pubbliche e dalla disponibilità da parte delle istituzioni finanziarie europee a sostenere la suddetta funzione dello Stato greco. L’indebitamento pubblico nasce pertanto dal ruolo dello Stato greco come strumento di finanziarizzazione. Il tratto comune delle zone sottosviluppate dell’Europa mediterranea è costituito dal rapido passaggio al consumo senza un miglioramento e avanzamento delle condizioni di produzione. I contributi UE provenienti dai fondi strutturali di sviluppo che questi paesi percepivano da Bruxelles sin dalla metà degli anni ’80 hanno in pratica contribuito alla bolla del consumo senza un’adeguata base produttiva. In Grecia l’ascesa verso livelli di consumo paragonabili in termini quantitativi alla media italiana pro-capite è addirittura avvenuta nel contesto di una profonda deindustrializzazione del paese che già si trovava a possedere un’industria alquanto arretrata. In Spagna la crescita dei consumi è stata sì preceduta prima ed accompagnata poi dalla formazione di un’industria superficialmente assai vasta; tuttavia il comparto industriale non è riuscito a trasformarsi in un settore che potesse rompere la storica debolezza estera dell’economia del paese, il cui consumo pro-capite dipende in larghissima misura dalla capacità di sostenere il deficit nei conti esteri. La Spagna non è mai uscita dalla disoccupazione di massa se non nel periodo di massima espansione della bolla edilizia finanziata dall’esposizione del sistema bancario del paese ai mercati di capitale di Londra.
Se non si può, né credo sia utile, parlare di mezzogiornificazione dell’Europa, penso che sia invece necessario focalizzare l’attenzione sulla crisi della Francia, dell’Italia, nonché di alcuni aspetti del nord Europa. Mi soffermerò sulla crisi della Francia.
La déconfiture de la France
Il paese è in completa déconfiture. Si porta sulle spalle un bagaglio di tre decenni di disoccupazione che sistematicamente supera il 10%. Se si considerano i lavori e lavoretti sussidiati e creati ad arte per nascondere la disoccupazione, i cui “stipendi” raramente vanno oltre i 450-500 euro, la disoccupazione tocca almeno un terzo della popolazione in età lavorativa. L’economia ha subito una deindustrializzazione più profonda di quella britannica. Hanno perso mercati internazionali in quasi tutti i settori ad eccezione di quelli che generano rendite (come le società dell’acqua, già pubbliche e oggi feroci multinazionali), dell’agroalimentare e dell’aeronautica. Il tutto si manifesta attraverso un deficit permanente della bilancia commerciale. Ma tutto questo non interessa al capitale francese che si articola sull’asse militarindustriale – che include il settore dell’aeronautica e dell’elettronica – e su quello finanziario alleato al settore dell’auto. Quest’ultimo ha ampiamente delocalizzato e funziona come un’entità autonoma con i contributi dello Stato. Le zone industriali sono in totale abbandono sociale, fenomeno già previsto da Maspero alla fine degli anni ’70 nel suo eccezionale libro reportage Roissy-rail. L’attacco alla classe operaia industriale francese dura sostanzialmente dalla politica deflazionistica di Raymond Barre condotta alla metà degli anni Settanta. I governi Mitterrand, presidente socialista ma sempre vichysta nell’ideologia, non hanno mai smesso questa offensiva. Si sono concentrati sulla stabilizzazione di un certo ceto medio lasciando volutamente che i settori operai andassero al diavolo. Come spiegai tanti anni fa in un saggio apparso su “Proteo”, le 35 ore non avevano l’obiettivo di recuperare gli espulsi. Fu una soluzione manageriale ideata in parte da Martine Aubry (co-inventrice del malefico progetto di disinflazione competitiva) in una fase di pressione sociale (1995-1998) che fu anche l’ultima prima della caduta in stato catatonico del sindacalismo francese.
Lo schema sociale del regime mitterrandiano, che ha influenzato tutte le presidenze successive, è entrato in crisi negli anni 2000, quando la Francia non reggeva più di fronte alle equazioni di Godley, le quali in un contesto Maastricht-Eurozona sono assolutamente implacabili. Ed è per questo che la Francia chiede ogni tanto clemenza alla Germania sul piano dei conti pubblici (L’equazione di Godley mostra che il deficit estero e il deficit interno sono collegati contabilmente nella maniera seguente: se i risparmi sono uguali agli investimenti il deficit interno è uguale al deficit estero, oppure il surplus estero è uguale al surplus interno. Dato il livello del deficit estero la Francia non rientra in alcuno dei criteri del deficit pubblico da essa voluti ed imposti da Maastricht in poi – vedi Appendice).
La condizione attuale francese non è il risultato dell’egemonia neomercantilistica tedesca. L’export tedesco non è causato da un dominio istituzionale della Germania in Europa bensì dalla combinazione tra il ruolo dei settori di beni capitale nel sistema produttivo della Germania e la posizione oligopolistica delle grandi imprese tedesche sul piano europeo innanzitutto e poi su quello mondiale. Posizione oligopolistica dovuta al fatto che, da Bismarck in poi, qualsiasi fosse il regime politico vigente, il modello fondato sullo sviluppo ed innovazione dei macchinari e dei loro settori non è mai stato accantonato; non avvenne nemmeno nella post-moderna repubblica di Weimar. La Germania e l’Olanda sono gli unici paesi europei ad avere capacità produttive globali – l’Olanda nel campo della logistica e rami affini.
La déconfiture francese nasce dalle scelte monetarie auree sempre insite nella visione delle élite del paese che – fanaticamente indottrinate dall’ENA, la cui matrice ideologica risiede nella scuola quadri di Uriage del regime di Vichy – hanno visto, dalla crisi degli anni Settanta in poi, nell’austerità il principale strumento della lotta di classe interna. La Francia è il paese il cui regime politico-economico si avvicina maggiormente all’idea di capitalismo monopolistico di stato. Si tratta di un blocco compatto che controlla in forma di fatto prefettizia tutta la società civile e il cui fondamento è l’asse aeronautico-militarindustriale collegato ai settori della rendita capitalistica, alcuni dei quali hanno forti basi tecnologiche come le multinazionali dell’acqua e le public utilities quali l’EDF (legata mani e piedi al nucleare e acerrima nemica a livello europeo delle energie rinnovabili, soprattutto fotovoltaiche). La Francia svolge in Europa lo stesso ruolo mefistofelico che ebbe nei confronti dell’Italia dalla fine del ’700 alla sconfitta inflitta nel 1866 dai francesi ai repubblicani italiani a Mentana. Sovente Parigi si presenta in vesti quasi keynesiane e/o in atteggiamenti antagonisti al capitale finanziario come successe con Sarkozy nel 2008-2009. In realtà l’impianto istituzionale di Maastricht fu concepito interamente dalla Francia verso la fine degli anni ’80. Se non ci fosse stato l’autodissolvimento del sistema sovietico, iniziato nel 1989 attraverso la rottamazione dello stato industrial-catorcio RDT avvenuta tramite l’esplicita convergenza tra l’URSS e la Germania Federale, Mitterrand non sarebbe riuscito ad imporre il Trattato di Maastricht al governo tedesco. L’aspetto più rilevante non è il Trattato in sé, quanto il trasferimento in linea teorica all’intera Unione Europea – in pratica solo all’eurozona – della politica Mitterrand-Delors-Aubry di disinflazione competitiva già messa in pratica dai governi socialisti dal 1984 e continuata, sebbene con più moderazione, dal governo Chirac alla fine degli anni ’80.
Dopo che la Francia trasferì all’Unione Monetaria Europea l’intero apparato su cui si fondava la disinflazione competitiva, la subordinazione delle politiche fiscali nazionali alla politica monetaria della BCE aggravò il problema dell’assenza di trasferimenti intraeurozonici catapultandone l’intero peso sulle finanze pubbliche nazionali. I sagaci tecnocrati francesi si accorsero immediatamente dei rischi e dei pericoli insiti nel nuovo ordinamento giuridico della moneta unica. Non erano certo keynesiani ma – contrariamente agli apparati ufficiali ed accademici tedeschi che di contabilità macroeconomica volutamente ne capiscono più niente che poco – la tecnocrazia francese si rese conto che, data la debolezza della bilancia dei pagamenti, la Francia non sarebbe stata in grado di ottemperare alle regole. Non se ne accorsero i politici, i quali, invece, trasformarono nelle loro teste la debolezza dei conti esteri tedeschi negli anni successivi al crollo dello SME in un dato permanente. Secondo la visione della tecnocrazia francese le difficoltà della Francia a stare dentro gli schemi dell’Unione Monetaria Europea avrebbero potuto privare le élite del paese dei benefici europei derivanti dalla moneta unica. In sostanza i vantaggi sono i seguenti.
(a) La lotta di classe interna in base alla quale il regime di Mitterrand varò la politica di disinflazione competitiva si trasformava, grazie all’UME, in una politica europea di deflazione salariale permanente. Falsamente la disinflazione competitiva di Delors e compagnia era stata presentata dai medesimi come una fase temporanea. Una volta raggiunta la competitività in relazione alla mitica Allemagne, la disinflazione si sarebbe arrestata in virtù della stabilità dei prezzi che avrebbe eliminato i costi inerenti a mantenere la parità FF/DM. Nell’UME la deflazione salariale invece è una costante.
(b) L’UE, e soprattutto l’operazione iniziata da Mitterrand e continuata con successo dal duo Chirac-Giscard d’Estaing di risucchiare la più che riluttante Germania nell’UME, avrebbe dovuto permettere alle élite francesi del capitalismo monopolistico di stato di beneficiare in termini di raggio di manovra finanziaria. Da sola la Francia non potrebbe mai ottenere i surplus esteri necessari ad espandere il raggio di azione del suo sistema bancario a livello globale. Per farlo la Francia avrebbe dovuto indebitarsi più o meno come succede nelle economie periferiche. Tuttavia lo scenario cambierebbe se la Germania ed il suo blocco pagassero un tributo feudale alla Francia. In breve questa è la strategia francese: riuscire attraverso l’esercizio dell’egemonia politica ad effettuare dei trasferimenti verso il capitale monopolistico francese. In un certo senso questo è successo con la crisi greca. Le banche francesi, assieme alle tedesche erano tra le più esposte al debito pubblico greco. I prestiti della Troika alla Grecia, mentre ne hanno aumentato l’indebitamento, hanno liberato le banche francotedesche dal debito greco che invece è oggi in maggioranza detenuto dagli Stati dell’Eurozona. Così l’Italia, la cui esposizione iniziale era minima, oggi si trova con 40 miliardi di euro di debito greco nei suoi conti pubblici. Infatti ogniqualvolta organismi finanziari istituzionali di Bruxelles e la stessa BCE acquistano debito greco questo viene addebitato ai paesi europei in proporzione al peso di ciascuno di essi nei contributi versati al fondo che effettua l’operazione. Mutatis mutandis, era questo tipo di rapporto che la Francia avrebbe desiderato instaurare col blocco esportatore tedesco: pagatemi un diritto di egemonia (se non sbaglio nel ’700 napoletano il termine era percezione di diritto di camorra, che è ciò a cui mira Parigi). Sul piano economico-istituzionale la strategia è completamente fallita, tuttavia il potere dell’élite dirigente francese si è andato fino ad ora rafforzando sia internamente che a livello europeo su un punto cruciale, quello dell’imperialismo.
(c) L’Europa e l’egemonia francese in essa nonché i diritti di camorra che la Francia vorrebbe percepire dal blocco esportatore tedesco devono sostenere e rafforzare l’imperialismo francese nel Mediterraneo e in Africa. Il processo di integrazione istituzionale europea venne lanciato unilateralmente da Jean Monnet tra il 1949 ed il 1950 dopo intensi contatti con gli Americani. L’accordo che ne scaturì era che la Francia avrebbe contribuito a creare uno spazio economico per la Germania Federale in Europa occidentale. In breve la Francia si impegnava a facilitare la trasformazione dell’Europa occidentale in una zona privilegiata dell’export e del capitale tedesco. Parigi avrebbe in un futuro non lontano permesso anche il riarmo della Germania. La contropartita fornita dagli USA era l’appoggio diretto alla restaurazione dell’imperialismo francese, allora soprattutto in Indocina, e l’appoggio al colonialismo ancora esistente in Madagascar – che subì una violenta repressione con decine di migliaia di vittime – e nell’Africa del nord. Gli Stati Uniti – che tra il 1943 ed il 1956 smantellarono l’imperialismo britannico pezzo per pezzo senza alcuna concessione, distruggendo la zona della Sterlina – finanziarono completamente la guerra francese nel Vietnam, prestarono aerei e piloti della Settima Flotta alle operazioni militari francesi, accettarono senza batter ciglio la politica di Parigi in Africa. Contrariamente al caso britannico, non chiesero alla Francia di sviluppare una forza nucleare in maniera integrata agli USA. Pertanto quando de Gaulle decise di costruire una forza d’attacco nucleare indipendente – la Force de frappe, formalmente per proteggersi dall’URSS ma in realtà diretta contro la Germania (e ciò spiega il rapido abbandono da parte dell’ancora forte PCF dell’opposizione alla Force de frappe già nel 1965, appena tre anni dopo la sua formazione) – non incontrò alcun ostacolo diplomatico serio. Oggi la Francia è l’unico paese europeo con forze militari operative in Africa. Negli ultimi cinquanta anni è intervenuta militarmente una volta all’anno in media. La postura imperialista definisce anche la dimensione economica del paese, le sue capacità pianificatorie, dato che l’asse aeronautico militar-industriale ne rappresenta la spina dorsale tecnologica e politica mentre il resto è in déconfiture. L’UE deve convalidare la posizione francese senza porre domande e finora l’ha fatto (si vedano l’intervento in Libia e gli interventi in Africa) come anche deve sostenere la presenza francese al consiglio di sicurezza dell’ONU di fronte alle crescenti richieste di modificane il funzionamento e la composizione.
Il mantenimento della postura imperialista e la possibilità di riscuotere dei diritti di camorra o di scaricare sul resto dell’Europa i titoli marci detenuti dalle banche francesi (caso della Grecia scaricato sull’Italia) costituiscono i termini della presenza francese in “Europa”. Ma è così che è nata ed è stata strutturata l’“Europa” sin dalla metà degli anni Cinquanta: come spazio del capitale tedesco e come supporto all’imperialismo francese. Ora, affinché le cose possano funzionare nel senso desiderato da Parigi è essenziale per la Francia non trovarsi dal lato sbagliato rispetto all’andamento del blocco tedesco. Hélas, è proprio quello che sta invece accadendo soprattutto dopo l’inizio della crisi nel 2007-2008. Una delle prevedibili conseguenze dell’UME e delle sue regole di non trasferimento fiscale, concerne la formazione in Europa di un blocco centrale esportatore netto attorniato da paesi tributari. Negli ultimi dodici anni questo blocco si è formato con celerità e coerenza sorprendenti. Germania, Olanda, Belgio e Austria sono gli elementi essenziali del blocco all’interno dell’Eurozona. Le loro relazioni intersettoriali sono tali che il blocco determina anche i surplus della Danimarca, della Svezia e della stessa Svizzera, che è intimamente legata alla produzione tedesca. Quindi la quasi totalità delle eccedenze estere generate in Europa proviene dalla zona economica tedesca. La Repubblica Ceca, la Slovacchia, l’Ungheria e la Slovenia costituiscono una periferia industriale importante sia in quanto parte dell’indotto tedesco e austriaco che come zone di outsourcing dell’industria automobilistica e degli elettrodomestici. Il Nordest italiano entra nel summenzionato schieramento ma con un’importanza inferiore ormai alla Repubblica Ceca. Il ruolo fondamentale del blocco è di generare eccedenze nette, per ora prevalentemente con l’Europa stessa e gli USA ma in un futuro non lontano con la stessa Cina via Russia. Non è un caso che la Germania abbia colmato il disavanzo con la Cina. Per ora la Germania è il fulcro delle eccedenze estere del blocco assieme all’Olanda. Tuttavia è da presumere che con l’andar del tempo e con il consolidarsi di una zona strutturalmente legata alla Germania, l’importante sarà che sia il blocco nel suo insieme a produrre permanentemente delle eccedenze e gli altri si dovranno attaccare al tram, per usare un’espressione romana.
La Francia si situa in radicale contrapposizione al blocco germanico ed è fuori dal giro. Non possiede un’area altamente integrata su cui poggiare, ha una bilancia dei pagamenti corrente alquanto moscia da decenni, non ha un centro come la Citydi Londra i cui flussi finanziari permettono alla Gran Bretagna di essere un’importatrice netta globale senza preoccuparsi dell’indebitamento estero. Ovviamente la Francia non ha la libertà britannica di determinare le proprie politiche fiscali e monetarie buone o cattive che siano. La Francia sta a tutti gli effetti scivolando verso una situazione di paese tributario, cosa che, in prospettiva, rompe le uova nel paniere alla sua classe dirigente. Tuttavia non hanno alcuna intenzione di cambiare rotta. Al contrario: accentuano la loro dimensione imperialista chiedendo al resto dei paesi europei di sottoscriverla incondizionatamente proprio come contrappeso all’egemonia economica della Germania.
Dall’impasse europea vie d’uscita per ora non ce ne sono in tutti i sensi.
Appendice
L’equazione di Godley
Siano Y il PIL, C i consumi, I gli investimenti, G la spesa pubblica al netto dell’introito fiscale (per cui se G > 0 c’è deficit ,se invece G < 0 il saldo è attivo) e sia B il saldo della bilancia dei pagamenti corrente nei confronti dell’estero (B = Esportazioni – Importazioni. Quindi con B > 0 , il saldo con l’estero è attivo, mentre con B < 0 la bilancia estera è deficitaria).
Y = C + I + G + B
Sia S il risparmio nazionale definito come la differenza tra PIL Y e consumi C.
Y – C = S = I + G + B
Sottraiamo ulteriormente I da ambo i lati. Pertanto S – I = F definisce l’esistenza o meno di attivi finanziari nell’economia. Con F > 0 il risparmio eccede l’investimento e si crea una situazione deflazionistica sul piano reale. Con F < 0 gli investimenti superano i risparmi e l’economia deve importare capitali oppure entrare in una situazione inflazionistica.
S – I = F = G + B
Questa è l’equazione di Godley, nota per aver dato il via nei primi anni Settanta al metodo di contabilità macroeconomica fondato sui saldi settoriali. Abbiamo tre casi:
(1) F = 0 Cioè se risparmi e investimenti si eguagliano avremo (G + B) = 0. Per forza in termini assoluti G = B; ciò significa che se B > 0 (saldo estero attivo) allora G < 0 (bilancio pubblico attivo). Dato che l’equazione di Godley non stabilisce relazioni di causalità, si può anche dire che se F = 0 e G > 0, allora B < 0. Ovviamente con B < 0 oppure con G < 0 la relazione funziona in senso inverso. In ogni caso con F = 0 i valori di G e B devono essere uguali ma di segno opposto. Ad esempio se il deficit G è 50, il deficit estero B deve essere – 50, in quanto G + B devono annullarsi.
(2) F > 0 Si avrà allora: (G+ B) > 0
(3) F < 0 Si otterrà: (G+ B) < 0
È meglio prendere le relazioni di cui sopra non in assoluto ma in proporzione del PIL. Pertanto S – I = F= G+ B diventa s – i = f = g + b
La situazione francese è caratterizzata da un deficit pubblico del 4% del PIL, quindi g = 0,04. Il deficit estero è più o meno del 2% del PIL, b = – 0,02. Ne consegue che l’accumulazione di attivi finanziari è f = 2%. Si deve osservare che se il deficit estero -b aumentasse in modo tale da superare il deficit interno g l’economia si verrebbe a trovare nella situazione (3), vale a dire abbisognerebbe di capitali esteri pur possedendo capacità produttive inutilizzate. L’unico modo per non trovarsi in questa situazione consiste nell’aumentare g – la spesa in deficit dato che g > -b garantisce la positività di f. Prendiamo ora la Germania: b = 7% e g circa 1%. In media quindi f = 6% del PIL. La Germania ha molto spazio per aumentare il deficit senza esercitare pressione sui mercati di capitale. Negli anni Ottanta con l’idea dei deficit gemelli gli economisti americani vicini a Reagan (il più grande creatore di deficit della storia USA prima di Bush figlio) sostennero che c’era una relazione di causalità tra deficit interno ed estero. No, non c’è in maniera diretta. Il Giappone è un esempio di surplus esteri e deficit interni. C’è però una connessione attraverso la domanda effettiva. Esempio: si faccia l’ipotesi di un governo preso da frenesie keynesiane per raggiungere la piena occupazione. Si assuma che il paese sia sballato sul piano produttivo, come la Grecia, il Portogallo, la Spagna e anche UK, Australia, Nuova Zelanda, Canada. L’espansione della spesa pubblica si tradurrà in acquisti dall’estero e quindi in un deficit estero. L’equazione di Godley nasce da questa preoccupazione. Wynne Godley era un keynesiano di Cambridge ove negli anni ’60 venne chiamato da Nicholas Kaldor per dirigere il dipartimento di economia applicata dedicato unicamente alla ricerca. Si accorse che con la deindustrializzazione allora incipiente e con la bassa crescita della produttività nell’industria, le politiche keynesiane potevano tradursi in un aumento indesiderato del deficit estero. Allora il deficit era un vincolo reale e influenzava il tasso di cambio. Oggi non è più così perché da almeno un quarto di secolo il tasso di cambio è determinato alla stregua dei “concorsi di bellezza”. Alcuni anni prima di Godley, precisamente nel 1969, Augusto Graziani sviluppò una relazione che può essere vista come il reciproco di quella di Godley applicabile però ad un’economia dualistica. Graziani mostrò che una politica fondata sulle esportazioni può comportare un moltiplicatore negativo riguardo la domanda interna.
https://en.wikipedia.org/wiki/Wynne_Godley
https://en.wikipedia.org/wiki/Sectoral_balances
intervista raccolta da Marco Palazzotto
da http://www.palermo-grad.com/
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa