Credo che nessuno abbia mai avuto tra le mani le carte che in archivio il commesso mette da un po’ nel mio scaffale. La rivolta, nel racconto di chi prese le armi, è un’emozione così nuova che a settant’anni dalla cacciata dei tedeschi, interroga la coscienza: perché decorare gli “scugnizzi” e “dimenticare” Adolfo Pansini, studente antifascista caduto combattendo, al quale s’è intestato a stento un liceo? Perché l’icona delle Quattro Giornate è una foto scattata a posteriori a un “lazzaro” travestito da guerrigliero? Settembre a Napoli è ricco di celebrazioni e discorsi d’occasione, ma è anche “memoria a scadenza fissa”: non dà risposte a domande decisive e forse perciò non coinvolge i giovani, alle prese con una crisi che li fa scettici e disincantati.
Un dato è evidente: se si potessero quotare le Quattro Giornate nella Borsa ideale dei valori etici, i promotori eviterebbero con cura quel tanto di lettura politica che va oltre il cliché degli scugnizzi armati fino ai denti contro i panzer tedeschi. Chi dice politica ormai bestemmia e sempre più spesso, delle Quattro Giornate, si criticano le “letture politicizzate” di una sinistra che ha tinto tutto di rosso e una destra che è giunta a negare l’insurrezione. In questo clima di crisi della politica, c’è il rischio che la rivolta diventi figlia dell’impulso, generoso ma ambiguo, del “cuore” di una città che per un po’ s’infiamma, poi di colpo si spegne e si vende all’incanto: un tempo allo spagnolo corruttore, poi al padre padrone che sa comprarla col chilo di pasta e la promessa di un “posto”. Chi ha familiarità con gli Archivi di Stato sa che non è vero e che, in realtà, la città di Viviani convive con quella di Eduardo ed entrambe, per dirla con Ermanno Corsi, lottano con accanimento “per il diritto a vivere la propria vita” ed esprimono una “forte rivendicazione di progresso”.
Visto con gli occhi del presente, mentre l’Europa va a traino della “locomotiva” germanica, politico appare, anzitutto politico, il 9 settembre del ’43 e i soldati tedeschi pallidi come stracci, usciti dalle caserme con un fazzoletto bianco al braccio come offerta d’una pace che sarà tradita. Sono timorosi – la paura non è esclusiva dei popoli latini – e sanno bene perché i napoletani li odiano: per troppo tempo si son dovute difendere le donne da militari “alleati” che smentivano il mito della galanteria teutonica; per troppo tempo si son dovuti contrastare i “furbi” soldati del Reich, che nascondevano munizioni nei condomini esposti ai bombardamenti angloamericani. Nemmeno la “furbizia” è esclusiva mediterranea e persino il mito della “corretta amministrazione” è stato tradito. Nella città affamata, infatti, il contrabbando di carne, alimentato dal Comando delle forze aeree tedesche, ha ingozzato gli ufficiali e “privatizzato” gli aerei della Luftwaffe, per inviare la merce nel Reich e farci affari d’oro. Come non bastasse, Kesserling e gli incorruttibili ufficiali della Wermacht hanno autorizzato furto e rapina, requisendo non solo le armi, le automobili e gli autocarri, ma arraffando «apparecchi radio, strumenti musicali, orologi da polso e da tasca, macchine fotografiche e strumenti ottici». E poiché prima di tutto c’è il bilancio, “il controvalore degli oggetti è da mettere in conto alla Prefettura”. Gli italiani derubati hanno pagato così il debito tedesco.
Se le Quattro Giornate dovessero diventare il “cuore della città” in rivolta, non solo ci sarebbe il rischio di fermarsi agli scugnizzi, ma si lascerebbero in ombra figure che costituiscono un simbolo della nobiltà della politica; Edoardo Pansini e il figlio Adolfo, ad esempio, incompatibili con lo stereotipo degli Alleati «liberatori» e del popolo lazzarone che si leva in armi per fame, poi vende il voto a chi lo paga meglio. Uno stereotipo in cui non c’è posto per Adolfo Pansini che, studente al liceo artistico, si “rivela pericoloso per l’ordine politico” e finisce in galera per aver “ideato e coordinato attività antifascista” e a vent’anni, ormai universitario, cade con le armi in pugno nelle Quattro Giornate. E posto non c’è per Edoardo, il padre, che gli ha trasmesso ideali mazziniani e simpatizza per gli azionisti. Molto più di un indefinito “cuore della città” e altro, ben altro che scugnizzi incoscienti e sanfedisti.
Edoardo Pansini rappresenta idealmente quella parte di città che consapevolmente rifiuta di essere “liberata”; rappresenta i settantaquattro militari napoletani che proprio in quei giorni, nei Balcani, entrano nella “Divisione Italia” e danno man forte ai partigiani di Tito. Un personaggio scomodo in un’Italia in cui molti antifascisti scelgono il re e Badoglio, che sono scappati lasciando il Paese in mano ai tedeschi, perché sanno che, per gli interessi dei ceti più abbienti, un «ordine costituito», quale che sia, è di gran lunga più rassicurante di un popolo in armi che sceglie il suo destino. Non a caso, Edoardo Pansini prova a non sciogliere il suo gruppo armato, stana i gerarchi, entra nelle loro case e sequestra i viveri che vi nascondono per sostenere il mercato nero. Ha visto cadere il figlio, ha lottato con coraggio contro i nazifascisti, ha posto i “liberatori” di fronte a un popolo che non è fatto solo di lazzaroni e ha coraggio e dignità, ma questo conta poco. Di fatto Pansini intralcia i piani degli Alleati, pronti a riciclare i fascisti in funzione anticomunista e decisi a non lasciarsi dietro uomini liberi di cui temere. E’ perciò che, mentre le manette dei carabinieri chiudono la sua carriera di rivoluzionario e lo costringono a rispondere dell’accusa di violazione di domicilio e saccheggio della merce tolta al contrabbando, gli americani gli chiudono una rivista già censurata dal regime.
E’ vero, la lotta parte dal basso e il ruolo dei partiti appena ricostituiti è del tutto marginale. In città, però, alla testa di chi combatte, ci sono antifascisti che nutrono ideali diversi tra loro. Federico Zvab, ad esempio, porta nella lotta la storia di un istriano che s’è rivoltato contro l’italianizzazione degli slavi, ha combattuto il fascismo in Istria, sulle barricate di Vienna e nella Spagna antifranchista ed è stato confinato a Ventotene. Non conosce Zvab, ma sta con lui, Antonio Ottaviano, che ha fondato l’associazione “Europa Unita” e arricchisce l’insurrezione di ideali europeisti che l’hanno condotto davanti al Tribunale Speciale. Con Zvab e Ottaviano, ci sono i fratelli Murolo, Ezio e Tito, l’uno braccio destro di D’Annunzio a Fiume e uomo di spicco tra gli amici di Giovanni Amendola, finito al confino negli anni Trenta, l’altro anarchico schedato, che sulle barricate ritrova compagni di fede: Armido Abbate, sindacalista dei ferrovieri, noto alla squadra politica dai tempi di Giolitti, i fratelli Malagoli e Alastor Imondi, figlio di Giuseppe, dentista libertario e punto di riferimento per gli antifascisti di ogni parte d’Italia negli anni del regime.
Si potrebbe continuare a lungo: nomi, storie e sistemi di valori. La verità è che non conta molto chiedersi quanta “politica” salì sulle barricate. La domanda cui occorre dare risposta è un’altra: quanto del Paese nuovo, che poteva nascere e nei fatti abortì, si batté contro i nazifascisti? Com’è potuto accadere che un uomo come Giovanni Leone, che in quei mesi, in nome della «continuità dello Stato» difese in tribunale i collaborazionisti nemici dei Pansini, divenne poi presidente della repubblica? E’ qui che emerge il volto politico delle Quattro Giornate, vittoriose sul campo e subito sconfitte dall’oscura trama di chi lavorava perché, cambiata la forma, nella sostanza tutto rimanesse com’era. Tutto, persino il codice Rocco, quello fascista, che è ancora il codice penale dell’Italia antifascista.
da https://giuseppearagno.wordpress.com
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