Menu

Il tramonto dell’Occidente è alle porte

Un editoriale del Financial Times non è mai una formalità, specie se affidato a Martin Wolf, decano autorevolissimo tra gli analisti economici di tutto il mondo.

L'utilità di leggerlo è indubbia e non necessita neanche di spiegazioni. Per ragionare sul mondo bisogna perlomeno conoscere i tratti fondamentali della sua struttura. E Martn Wolf ci spiega come questa struttura stia modificandosi irreversibilemente.

Naturalmente, non è necessario condividere i suoi giudizi su singoli paesi o governanti. Ci basta lo sguardo sulle tendenze oggettive…

*****

A volte la storia compie balzi in avanti improvvisi: basti pensare alla Prima guerra mondiale, alla rivoluzione bolscevica, alla Grande Depressione, all’elezione di Adolf Hitler, alla Seconda guerra mondiale, all’inizio della Guerra fredda, al tracollo degli imperi europei, alle riforme e all'apertura di Deng Xiaoping in Cina, alla fine dell’Unione Sovietica e alla crisi finanziaria del 2007-2009 con successiva «Grande Recessione». Forse siamo sull’orlo di un evento rivoluzionario di portata equivalente a molti di quelli citati: l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti. È un evento che segnerebbe la fine dell’Occidente (sotto la guida americana) come forza centrale degli affari mondiali. Il risultato non sarebbe un nuovo ordine, ma un pericoloso disordine.

Il fatto che Trump possa essere un contendente credibile per la Casa Bianca lascia sbalorditi. In campo imprenditoriale è un debitore insolvente seriale e un protagonista di cause legali trasformato in star di reality televisivi. È uno spacciatore di falsità e teorie del complotto. Pronuncia calunnie razziste. Attacca l’indipendenza della magistratura. Rifiuta di rivelare le sue dichiarazioni dei redditi. Non ha nessuna esperienza di cariche politiche e ha proposte politiche incoerenti. Si vanta di essere ignorante. Allude addirittura alla possibilità di dichiarare lo stato di insolvenza sul debito federale. Mina alla base la fiducia nell’ordine commerciale creato dagli Stati Uniti minacciando di stracciare gli accordi passati. Mina alla base la fiducia nella democrazia statunitense sostenendo che ci saranno brogli. Sostiene la tortura e l’uccisione deliberata dei familiari di presunti terroristi. Ammira l’ex agente del Kgb che dirige la Russia.

È evidente che moltissimi elettori americani hanno perso fiducia nei sistemi politico-economici del Paese, in una proporzione che non si vedeva nemmeno negli anni 30, quando l’elettorato si affidò a un politico dell’establishment. Eppure, con tutti i loro problemi, gli Stati Uniti non se la passano così male. Sono il Paese di grandi dimensioni più ricco della storia mondiale. La crescita è lenta, ma la disoccupazione è bassa. Se gli elettori dovessero scegliere Trump – nonostante i suoi difetti, evidenziati ancora una volta nel primo dibattito con Hillary Clinton – sarebbe un segnale molto inquietante sulla salute degli Stati Uniti.

Gli Stati Uniti sono la maggiore potenza mondiale, perciò non è un problema che riguardi soltanto loro. Cosa potrebbe significare una presidenza Trump? Azzardare previsioni sulle politiche che adotterebbe un personaggio così imprevedibile è impossibile. Ma ci sono almeno alcune cose che appaiono ragionevolmente chiare.

Gli Stati Uniti e i loro alleati continuano ad avere un potere immenso, ma il loro predominio economico è in lento declino: secondo il Fondo monetario internazionale, la quota dei Paesi ad alto reddito (sostanzialmente, gli Usa e i loro alleati) sul totale del Pil mondiale scenderà dal 64% (a parità di potere d’acquisto) del 1990 al 39% del 2020, e nello stesso periodo la quota degli Usa calerà dal 22 al 15 per cento.

La potenza militare americana è ancora enorme, ma vanno fatti due distinguo: uno è che vincere una guerra convenzionale e raggiungere i propri obbiettivi sul terreno sono due cose abbastanza diverse, come la guerra del Vietnam e quella in Iraq hanno dimostrato; il secondo è che il rapido incremento della spesa militare in Cina potrebbe creare serie difficoltà per gli Stati Uniti nella regione Asia-Pacifico.

La conseguenza di questi sviluppi è che la capacità dell’America di plasmare il mondo secondo il proprio volere sarà affidata sempre più alla sua influenza sui sistemi politico-economici globali. E non è una novità: al contrario, è un tratto caratteristico dell’egemonia statunitense fin dagli anni 40. Ma oggi è ancora più importante. Le alleanze create dagli Stati Uniti, le istituzioni che sostengono e il prestigio che possiedono sono un patrimonio realmente inestimabile. Tutti questi asset strategici sarebbero seriamente a rischio se Trump dovesse diventare presidente.

La principale differenza tra Stati Uniti e Cina è che gli Stati Uniti hanno moltissimi alleati potenti.

Nemmeno Vladimir Putin è un alleato affidabile per la Cina. Gli alleati dell’America la sostengono principalmente perché se ne fidano, e questa fiducia è basata sulla percezione che gli Stati Uniti seguono comportamenti prevedibili, fondati su valori. Non significa che le loro alleanze siano state prive di problemi, tutt’altro: però hanno funzionato. L’imprevedibilità che è il marchio di fabbrica di Trump e il suo approccio «transazionale» alle partnership assesterebbero un danno irreparabile alle alleanze.

Un aspetto vitale dell’ordine mondiale guidato dagli Stati Uniti è il ruolo delle istituzioni multilaterali, come il Fmi, la Banca mondiale e l’Organizzazione mondiale del commercio. Vincolando se stessi alle regole di un sistema economico aperto, gli Stati Uniti hanno incoraggiato altri a fare lo stesso. Il risultato è stata una straordinaria crescita della prosperità: tra il 1950 e il 2015, il Pil mondiale reale medio pro capite si è sestuplicato. Trump non capisce questo sistema. I risultati potrebbero essere catastrofici per tutti.

La guerra in Iraq ha danneggiato la fiducia nella saggezza e nella competenza degli Stati Uniti. La crisi finanziaria mondiale è stata ancora più distruttiva. Molti hanno sempre guardato con sospetto alle motivazioni che muovevano gli americani, però pensavano che sapessero come si gestisce un sistema capitalista: la crisi ha mandato in frantumi questa fiducia.

Dopo tutti questi danni, l’elezione di un uomo così poco qualificato come Trump metterebbe in discussione qualcosa di ancora più fondamentale: la fede nella capacità degli Stati Uniti di scegliere leader ragionevolmente bene informati e competenti. Con un presidente come Trump, il sistema democratico perderebbe gran parte della sua credibilità come modello per l’organizzazione di una vita politica civile. Putin e altri despoti, effettivi o aspiranti tali, applaudirebbero: la loro convinzione che tutto il parlare di valori occidentali sia soltanto ipocrisia troverebbe giustificazione. Ma quelli che vedono gli Stati Uniti come un bastione della democrazia sarebbero presi dallo sconforto.

Se Trump dovesse vincere, sarebbe un cambiamento di regime per il mondo intero. Per esempio metterebbe fine, forse per sempre, agli sforzi per tenere sotto controllo la minaccia dei cambiamenti climatici. Ma già soltanto la sua candidatura sembra indicare che il ruolo degli Stati Uniti nell’ordine globale rischia di subire una trasformazione. Questo ruolo non dipendeva soltanto dalla prodezza economica e militare dell’America, ma anche dai valori che rappresentava. Con tutti i suoi errori, l’ideale di una repubblica governata dal diritto rimaneva visibile. Hillary Clinton è una candidata imperfetta. Trump è qualcosa di completamente diverso. La sua presidenza non renderebbe grande l’America: al contrario, potrebbe mandare in pezzi il pianeta.

 

dal Financial Times

traduzione di Fabio Galimberti per IlSole24Ore

 

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: stampa

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *