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Automazione e disoccupazione tecnologica. Il divario digitale italiano /3

IL DIVARIO DIGITALE ITALIANO, L’INNOVAZIONE TECNOLOGICA E IL SUO IMPATTO SUL LAVORO

Proponiamo un adattamento dell’intervento di Juan Carlos De Martin all’iniziativa organizzata da Noi Restiamo al Politecnico di Torino il 26 gennaio 2016. L’intervento non è stato rivisto dal relatore ed eventuali errori sono quindi da considerarsi a carico nostro. Il titolo è redazionale.

Allora innanzitutto grazie di questo invito, lasciatemi cominciare con un elogio per i ragazzi di Noi Restiamo Torino, che incontro di persona per la prima volta, perché stanno facendo quello di cui c'è un clamoroso bisogno in questo periodo, studiare. Studiare chiaramente, siamo in un politecnico, siamo in un’università, studiare per capire il mondo in cui viviamo, come hanno fatto generazioni prima di noi, ma come di recente sembra essere diventato meno frequente.

Si diceva che una volta c'erano persone di un solo libro, ora siamo persone di una sola copertina, di un solo titolo, e quindi le iniziative che hanno fatto, a partire dal ciclo di lezioni sul Capitale di Marx, vanno in una direzione che secondo me è cruciale. Bisogna rimettersi a studiare per capire, io per primo, tutti quanti.

Tra l'altro sotto questo punto di vista, con alcuni amici, ci chiedevamo: se dovessimo consigliare a un giovane o meno giovane, curioso di capire di più del mondo, 10 libri, 20 libri, da leggere assolutamente, quali sarebbero questi 10, 20 libri? Domanda che trovo stimolante, domanda a cui volete contribuire anche voi a modo vostro.

Mi chiamo Juan Carlos De Martin, mi occupo di informatica in senso lato, tra l'altro io sono uno che sono tornato a Torino. Lavoravo in America e potevo starci tranquillamente, ho deciso invece di rimanere italiano, di tornare a Torino nel 1998, anche se ogni tanto torno in quel paese, e vorrei restarci a Torino, anche nei prossimi anni. Dico tutto questo perché oltre a tutto quello che sta capitando nel nostro paese, in Europa e nel mondo in questi anni, c'è una terribile crisi dell'università in corso, terrificante, senza precedenti nella storia dell'Italia unita.

C'è dal 2008 un attacco, su diversi livelli, dall'incredibile aumento delle procedure burocratiche, dal processo di valutazione fortemente criticabile, al blocco degli stipendi, al taglio degli stipendi, un attacco senza precedenti.

Lo dico perché siamo stati poco reattivi: di fronte ad un attacco del genere immediatamente doveva esserci una reazione compatta del mondo universitario, ma siamo incredibilmente individualisti, o non consapevoli, o furbi, o pensiamo di potercela cavare, invece di avere una reazione collettiva forte all'altezza dell'attacco che abbiamo subito e stiamo subendo.

Detto questo, io mi occupo di internet e società. Io sono ingegnere informatico, ma ormai da più di dieci anni, insieme con altri, giuristi, economisti, cerchiamo di capire questo fenomeno chiamato "Rivoluzione digitale", capirne la relazione bidirezionale di quella società, cioè che impatto sta avendo sulla società, e il modo in cui le società può agire sulla rivoluzione digitale per determinarne la direzione, la forma etc.

Abbiamo quindi formato un centro di ricerca qui al Politecnico chiamato NEXA, “le Cose Connesse”, centro di ricerca su internet e società. Ed è proprio nell'ambito di questa ricerca e riflessioni che quasi sin dall'inizio non sono state soltanto pura ricerca accademica, ma anche un tentativo di policy, cioè un lavoro che gli accademici italiani fanno relativamente poco, e quando lo fanno, lo fanno come consiglieri del principe. Cioè di capire sulla base della ricerca e dei dati disponibili, quali sono le varie opzioni di policy disponibili sul tavolo, con i vari relativi pro e contro.

E questo sforzo, mi ha spinto verso una riflessione più ampia, su vari temi riguardo società e politica, sino ad arrivare al tema dell'incontro di oggi. Il tema dell'incontro di oggi, è un tema gigantesco, su cui io, come esperto di digitale, ho cercato di formarmi qualche idea.

Non sono assolutamente un esperto del futuro del mondo del lavoro. Mi sembra un tema difficilissimo, complicatissimo, che richiede competenze che vanno al di là delle mie. Ciò nonostante ho provato a formarmi qualche idea, perché quando io parlo di internet e di rivoluzione digitale, voglio almeno abbozzare un ragionamento su questo tema così importante.

Innanzitutto parto col fatto che le competenze digitali e la cultura digitale sono molto importanti, e l'Italia sotto questo punto di vista è molto indietro. Siamo un paese che per una serie di motivi, adesso proverò ad accennare a quali, rispetto alla rivoluzione digitale è molto in ritardo rispetto a paesi che invece ci sono arrivati molto prima. È molto indietro su indicatori come: uso del computer, accesso a internet, ecc., tipicamente su i paesi dell'Unione Europea siamo o terz'ultimi o quart'ultimi. Dopo di noi ci sono Romania e Bulgaria e siamo molto distanziati da paesi sopra le Alpi come la Francia o i paesi Scandinavi.

Perché accade questo? Perché questa trasformazione, di cui ha parlato chi mi ha proceduto, l'Italia la sta subendo, ma non solo i singoli, ma anche le aziende e la pubblica amministrazione, la sta vivendo con un forte ritardo e divario.

Ci sono almeno tre possibili motivi. Il primo è quello di si è più parlato, cioè l'accesso ad internet in un paese olograficamente complicato come l'Italia, in molte parti del paese non c'è l'accesso a larga banda, tipo adsl o fibra. Questo è quindi se volete il divario infrastrutturale, di cui si parla da molti anni. Quando si parla di banda larga si intende il problema infrastrutturale, di trovare soldi pubblici o privati che siano, per portare la banda larga al resto del paese. Questo è oggettivamente un problema, perché se sono una piccola azienda o una piccola amministrazione rurale senza accesso alla larga banda, non posso fare tutte le cose che sappiamo essere rese possibile dal digitale.

Però c'è un secondo divario di cui si parla molto poco in Italia, un po' più altrove, il che è sorprendente, perché stiamo vivendo la più grande crisi economica dall'unificazione dell'Italia, il divario economico. Ovvero persone che potrebbero accedere a internet perché magari nella loro città c'è, ma non lo fanno perché non possono permettersi un computer, uno smartphone, non possono permettersi di pagare 20, 30 euro al mese per una connessione. Incidentalmente quando c'è stato il passaggio al digitale terrestre era chiaro che ci sarebbe stato un problema economico, infatti ci furono aiuti di stato per l'acquisto dei convertitori e il passaggio al digitale terrestre. Però quella è la televisione, quando si parla di internet nessuno ha mai parlato ad iniziative di questo tipo.

Terzo divario che forse è di gran lunga più importante è quello culturale. Nel senso che per accedere a internet e farne un uso non super riduttivo, non soltanto cliccare su Facebook o guardare video su Youtube, ho bisogno di alcune competenze cognitive di base. L'Italia è un paese che ha un ritardo educativo che si sta man mano attenuando con il cambiamento demografico del paese, lo portiamo dietro da sempre e continua a pesare, perché l'Italia è un paese con un’età media molto alta e questo ha ovviamente un impatto sul digitale. È inutile aspettarci che le persone siano utenti evoluti del digitale se esse persone non sono capaci di leggere un testo di giornale e riassumerlo oppure di comprendere un grafico. No, se sono utenti digitali, lo sono in maniera superficiale. Le statistiche inoltre dimostrano, non solo in Italia, come molti giovani che hanno familiarità con i dispositivi, sono utenti molto superficiali e non consapevoli.

Da questo punto di vista l'Italia ha tre divari da affrontare, tra l'altro sono divari molto diversi da loro che richiedono strumenti e azioni mirate. Abbiamo i dati per intervenire, cioè sappiamo dove non arriva internet, sappiamo anche le classi sociali dove internet arriva meno. L'ISTAT, oltre a EUROSTAT, ci dice quali sono le classi sociali dove internet arriva meno. Se guardiamo le famiglie di professionisti o famiglie con figli relativamente piccoli, il tasso di utilizzo di internet è a livello nord europeo, e invece fra coloro che lo utilizzano meno troviamo anziani da soli sopra i 65 anni, e non sorprendentemente i lavoratori non qualificati, i disoccupati, etc. Potremmo fare una mappa a Torino tra i vari quartieri del divario digitale e riscoprire antichi divari su questo tema.

Quindi questi 3 divari andrebbero affrontati e ci vorrebbero dei piani mirati e alcuni dei quali come quello culturale, come l'educazione, richiederebbe una volontà politica che va in tutt'altra direzione, non quindi come la Buona Scuola (e ora aspettiamo la Buona Università). Quindi l'Italia è in ritardo e come risultato sta subendo la rivoluzione digitale, la sta subendo perché queste profonde trasformazioni tecnologiche, sono, sono state e sempre saranno, guidate e plasmate.

(…) Questo divario culturale nella classe dirigente italiana è veramente fortissimo. Noi abbiamo avuto Adriano Olivetti che negli anni 50' scriveva e diceva cose che erano tranquillamente a un livello di consapevolezza paragonabile a quello degli Stati Uniti, ma Olivetti è stata questa stella che va molto di moda citare ma purtroppo non ha avuto seguito per precise scelte politiche ed economiche.

A parte Adriano Olivetti e alcuni altri, è un dato oggettivo che la riflessione ampia, lasciatemi usare la parola “culturale”, sulle macchine, su che impatto stanno avendo e avranno in futuro, nasce immediatamente negli Stati Uniti dopo la Seconda Guerra Mondiale quando nasce il calcolatore elettronico, principalmente negli Stati Uniti, ma in parte anche in Inghilterra e nella Germania Nazista.

La riflessione subito con Nobert Viner, Von Neumann e Alan Turing in Inghilterra, diventa la seguente: le macchine che manipolano simboli che effetto potranno avere, diciamo, ad ampio spettro, sulla sanità, l'educazione, i trasporti, il mondo del lavoro? Ci sono libri divulgativi degli anni ’50 e ’60 che si pongono queste domande, così come in seguito negli anni ’70.

Recentemente ho scoperto con divertimento che una rivista scientifica molto importante nel mio settore, che per come la conosco io è sempre stata serissima, super teorica, super ingegneristica, nel 1965 ha fatto un numero su l'impatto sociale delle comunicazioni. Quindi in quell'articolo trovate pezzi su democrazia diretta favorita da computer, articoli dell'impatto sulla sanità sulle comunità rurali, sulla sanità, in che modo la sanità verrà modificata dal computer e dalle comunicazioni elettroniche. Una riflessione molto ampia, nella comunità ingegneristica, su gli effetti sociali di questa rivoluzione, perché già all'epoca era chiaro che fosse una rivoluzione.

Quindi la riflessione che stiamo provando a fare al centro NEXA ma anche altrove, è per cercare di recuperare questo storico ritardo italiano, recuperare le cose che sono già state dette su questo tema, chiaramente riadattandole alla situazione attuale, e cercare di capire questa rivoluzione tecnologica, politica e sociale in che direzione vada, per poi estrarre dalla parte politica del nostro ragionamento possibili azioni, cioè che cosa auspicare/favorire invece cosa contrastare e combattere. Un esempio di questo è il tema della neutralità della rete che sembra una cosa super tecnica ma che in realtà ha delle conseguenze fortissime non soltanto a livello economico, ma in senso più ampio. Per capirlo però bisogna studiare, quindi cos'è la neutralità della rete, vedere i pro e i contro e raggiungere una posizione.

Arrivo al tema specifico di questo incontro, il futuro dei posti di lavoro. Da una parte vi dico, le competenze sulla cultura digitale sono fondamentali perché questa trasformazione sta arrivando e senza cultura e competenze potremo soltanto essere esecutori di decisioni prese altrove, scivolando verso scenari che oramai si profilano neo-coloniali per quello che riguarda il nostro paese.

Ciò detto, in generale questa rivoluzione, che effetti avrà su i posti di lavoro? Come si diceva nell’introduzione all’iniziativa, il tema è antico, ha almeno 200 anni e fino a questo momento se lo sono già posto le generazioni precedenti con diversi tipi di tecnologia: il vapore, l'elettricità e così via e fino a questo momento effettivamente il dato storico è che venivano distrutti posti di lavoro e ne venivano creati almeno altrettanti. Il fatto che però sia sempre capitato così, come si dice nei prospetti delle attività finanziarie, non è per niente detto che ricapiti in futuro, perché non è una legge di natura.

In particolare quello che oramai da qualche anno è stato portato all'attenzione di molti è che fino a questo momento con il vapore, l'elettricità eccetera, si parlava di costruire oggetti fisici, quindi atomi, e quindi devo costruire per esempio macchine, che magari sottrarranno posti di lavoro in altri settori, ma le macchine sono comunque oggetti fisici che richiederanno materie prime. Quindi il passaggio da atomi a bit è il primo cambiamento ontologico.

Il secondo aspetto è l'intelligenza artificiale. Intelligenza artificiale di cui si parla dalla creazione di computer moderni, perché il parallelo computer cervello umano è già del 1941-42. Con i primi prototipi elettromeccanici si dice già: è come un cervello umano, e tra l'altro poi influenzerà la prima modellizzazione dei neuroni, e influenzò poi il successivo ragionamento sull'intelligenza artificiale. Per farla breve, se ne parla da settanta anni e adesso i miei colleghi informatici che se ne occupano hanno applicato questo concetto a vari settori, dall'estrazione di significato, dal corpus di testi, dal riconoscimento nel parlato. Il riconoscimento del parlato è molto vicino alla mia specifica competenza e mi ricordo quanto fosse limitato vent'anni fa. I balzi in avanti che si sono avuti in questi ultimi venti anni nel riconoscimento del parlato sono strabilianti. Perciò effettivamente magari è un passaggio qualitativamente relativamente piccolo che però fa uscire questa applicazione dalla nicchia in cui si trovava in un utilizzo molto ampio ed esteso. Così le varie cose che vanno sotto il cappello "Intelligenza artificiale" stanno rendendo possibile, adesso ma ancora di più in prospettiva, la meccanizzazione e automazione di lavori che fino ad adesso si ritenevano eseguibili soltanto da essere umani.

Quindi passaggio da atomi a bit e intelligenza artificiale sono potenti indicatori che questa volta legge relativa alla distruzione e creazione di posti di lavoro potrebbe non valere più. Da qualche anno ci sono degli studi specifici che analizzando i sistemi produttivi di un paese e analizzando i tipi di lavoro, incrociandoli con conoscenze con l'evoluzione tecnologica prevedibile nei successivi 5-10 anni hanno provato a quantificare quanti posti di lavoro spariranno. I dati oramai si stanno susseguendo, di recente il World Economic Forum ne diffondeva di altri, per l'Inghilterra e la Finlandia c'erano ormai due studi specifici con percentuali che oscillano tra il trenta e il sessanta percento dei posti di lavoro che potrebbero potenzialmente sparire.

Non mi risulta ci siano studi specifici per l'Italia, perché bisogna vedere lo specifico sistema produttivo di un paese per poter azzardare delle stime di questo tipo, ripeto non sono un esperto per cui non so dire metodologicamente quanto questi studi fossero robusti e quindi quanto questi numeri siano effettivamente attendibili. Comunque leggendo mi sembra che ci sia comunque un certo consenso che una percentuale significativa, fosse anche solo il 10 percento di posti di lavoro, è a rischio.

La prima cosa che mi verrebbe da dire è che c'è bisogno di studi per l'Italia, c'è bisogno di dire all'Italia, che già vive una prospettiva terribile sulla disoccupazione, in particolare giovanile, che cosa capiterà tra 5-10-20 anni. E poi servono tentativi di riflessioni più ampi: è stato già citato il lavoro che fanno questi due ricercatori del MIT, che sono responsabili del Center For Digital Economy al MIT – che hanno scritto Machine Age, The Race Against the Machine, cioè La Corsa Contro La Macchina, in cui auspicavano e indicavano una direzione in cui uomo e macchina lavorassero in sinergia. Ossia si facciano fare alla macchina le cose che sa fare bene e si cerca di pensare a lavori che siano complementari a quello della macchina, in modo tale da ottenere il meglio dalle due forze produttive, l'essere umano e la macchina.

Detta così ovviamente sembra convincente, è ovvio che sia una direzione auspicabile, fanno pure alcuni esempi, però non so assolutamente in che modo possa alleviare il futuro problema dei posti di lavoro che non ci sono.

Comunque accettiamo l'ipotesi che sia possibile che la maggior parte dei posti di lavoro sia robotizzata. Perfino per la cura delle persone, che fino ad ora si pensava riservata a essere umani, si parla di "Robotica di Servizio", ossia Robot-Badanti, Robot-infermieri, Robot-Babysitter con problemi etici corrispondenti ma oramai se ne parla apertamente.

Se proviamo a fare questa ipotesi, da una parte si pone una questione culturale-sociale-politica di cosa vorrà dire lavoro in quel caso se la maggior parte dei lavori sono fatti da macchine, e poi chiaramente una questione politica.

Se tutte le merci e servizi sono prodotti da macchine chi comprerà le merci? In che modo sopravvivremo noi essere umani e quindi in che modo immaginare una società futura basata su un sistema produttivo di questo tipo a parte scenari distopici neo-feudali?

Da questo punto di vista ho trovato un articoletto di tre pagine del grande Paolo Sylos Labini del 1985, che s’intitola “Valore e distribuzione in un'economia robotizzata” e che trovate tranquillamente online, che ricapitola in sintesi quello che è stato scritto in 200 anni a partire da Ricardo e Marx e anche Benedetto Croce. Potrei adottarne la parte conclusiva per finire il mio intervento.

Sylos Labini dice: accettiamo la possibilità che i lavori potranno essere completamente robotizzati, perché dice, è plausibile, non è da scartare, fa già esempi di macchine quasi completamente robotizzate in Giappone per esempio.

Dice: dobbiamo porci la domanda di chi è in grado di acquistare le diverse merci in questo contesto, e la risposta non può che essere questa: dobbiamo ammettere che uno stato centrale, munito di poteri coercitivi, provveda ad una redistribuzione del reddito, seguendo come principio guida non la umanità, la solidarietà e la carità, posizione di Benedetto Croce – che diceva per gli operai ormai inutili , la sola alternativa è tra la carità offerta dalla classe dominante o la fame – non quindi la strada della solidarietà e della carità ma più semplicemente quella di assegnare una distribuzione razionale dei beni prodotti. La distribuzione razionale potrebbe essere, tra virgolette, “a ciascuno secondo i suoi bisogni”. Il criterio che caratterizza una società senza salariati e classi in senso economico.

In una parola, una società comunistica, uno sbocco naturale questo al di fuori dal sistema capitalistico al di là delle tragedie e della miseria crescenti e delle conseguenti sanguinose ed eroiche rivoluzioni.

Con la scomparsa del lavoro produttivo di merci si lascerebbe spazio a lavori che sono socialmente utili ma che sono fuori dal mercato: assistenza a bambini ed anziani, corsi d'istruzione per adulti, sorveglianza e cura di opere d'arte, guida per luoghi d'interesse turistico, accompagnamento di persone che viaggiano, manifestazioni artistiche di vario genere.

Già ora osserviamo attività di questo tipo che vengono remunerate con parametri che non hanno origine autonoma ma indirettamente fanno capo al mercato delle merci dove troviamo precisi vincoli e obiettivi.

In un’economia robotizzata tali remunerazioni che già oggi sono difformi e non determinati in modo preciso, sarebbero ancora più indeterminate, in ultima analisi per queste remunerazioni il vincolo obiettivo proverrebbe dalla disponibilità complessiva delle merci e la distribuzione verrebbe a dipendere da criteri che già difficilmente potrebbero essere economici, almeno nel senso che noi oggi diamo a questa parola.

E così conclude, e così concludo anche io, perché queste sono in estrema sintesi le cose che mi sembra di provare ad intuire in un tema così complicato specialmente per un ingegnere come me.

 

professore di ruolo presso il Dipartimento di Automatica e Informatica del Politecnico di Torino.

 

Il primo articolo della serie: https://contropiano.org/documenti/2017/01/10/automazione-disoccupazione-tecnologica-introduzione-1-087774

Il secondo: https://contropiano.org/documenti/2017/01/12/automazione-disoccupazione-tecnologica-dalla-thatcher-alle-stampanti-3d-2-087824

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