Con l’idea di trasformare l’UE in un blocco di potere indipendente sulla scena politica mondiale, la Cancelliera Angela Markel non ha raccolto solo gli applausi dell’establishment politico interno, rafforzando la sua posizione in vista delle prossime elezioni, ma ha ricompattato le fila interne degli Stati membri: partiti e schieramenti politici aggrovigliati tra loro, chiamati a recitare la parte dei falsi antagonismi politici sul piede di guerra.
Anche gli stessi rigurgiti nazional-sciovinisti sembrano essere stati messi tutt’ un tratto a tacere. Chi pensava che dopo il vertice G7 di Taormina la Germania potesse abdicare in favore di Trump forse si sbagliava di grosso. A nulla sono valse le forti strida e i frequenti richiami del Presidente Americano che, dopo aver sistemato direttamente gli affari in Medioriente, avvicinando gli alleati storici (Sauditi e Israeliani) ad ipotetici accordi con i rivali di sempre (Russia, Cina), ha attaccato con fermezza i tedeschi servendosi del megafono europeo: “Abbiamo un enorme deficit commerciale con la Germania, per di più loro pagano molto meno di quanto dovrebbero per la Nato e le spese militari. Ciò è molto negativo per gli Stati Uniti. Tutto questo cambierà”.
Rientrando dal G7 di Taormina, la Merkel, vedendosi spiazzata e messa all’angolo come un puglie suonato sul ring, non si è arresa anzi, nel ruolo che le compete da settanta anni quale gendarme europeo, ha dovuto mostrare i muscoli al mondo intero, entrando ufficialmente in rotta di collisione con l’America di Donald Trump; affermando, a chiare lettere, che con quest’ultimo non vuole averci niente a che fare. “I tempi in cui potevamo fare pienamente affidamento sugli altri sono passati da un bel pezzo, questo ho capito negli ultimi giorni”, ha spiegato la cancelliera in un discorso tenuto in occasione di una manifestazione politica organizzata dal partito cristiano (Csu) in un tendone-birreria a Monaco di Baviera. “E questo – ha aggiunto – è il motivo per cui posso solo dire che noi europei dobbiamo davvero portare il nostro destino nelle nostri mani”.
Il riferimento, senza mai nominarlo, è al presidente americano che prima a Bruxelles, al vertice Nato, e poi a Taormina ha criticato i principali alleati dell’Alleanza atlantica e ha rifiutato di approvare l’impegno all’accordo globale sul cambiamento climatico e non solo.
Lo scontro in atto, certificato direttamente sulle pagine del Washington Post (testata molto vicina e arma puntata dell’opposizione interna contro Trump), non è di poco conto se si pensa che nel gioco-forza dello scontro commerciale tra Stati Uniti e Germania a farne le spese in futuro potrebbero essere soprattutto i paesi Europei, in primis l’Italia – dipendente oramai dalla manifattura tedesca – per la sua forte attività di export specie nel settore della componentistica auto. L’ultima cosa di cui ha bisogno la nostra fragile economia è proprio una guerra commerciale tra Stati Uniti e Germania.
Sta di fatto che la direzione indicata dal ristrutturato “asse franco-tedesco”, chiamato Fremania, è quella dell’irrobustimento di un polo imperialistico europeo a guida tedesca che dovrà andarsi a ritagliare un proprio spazio nelle relazioni internazionali, naturalmente a scapito del proletariato europeo. Come dire: il mondo cambia rotta, l’America first incontra la Via della Seta, ma questa Europa a trazione germanica guai ad essere messa in discussione.
Il super ministro delle finanze tedesco, Wolfgang Shauble, con pieni poteri da duce, continuerà a gestire le finanze Ue con le stesse modalità di sempre: austerità degli investimenti pubblici, privatizzazione dei servizi e delle infrastrutture viarie, deflazione salariale quale unica forma consentita per la competitività europea.
Lo sforzo per una relazione alla pari con gli Stati Uniti fa parte dei progetti più vecchi della politica estera espansionista tedesca. Già a partire degli anni ‘40 del diciannovesimo secolo, molto prima della fondazione dell’impero tedesco, il padre dell’economia nazionale tedesca, Friedrich List, prevedeva per il futuro una dura rivalità fra un’alleanza continentale europea e gli Stati Uniti, attraverso una “unione doganale nella Mitteleuropa”. Mentre, negli anni ’30 del ventesimo secolo, gli industriali tedeschi parlavano di “un blocco chiuso da Bordeaux fino a Sofia” che avrebbe potuto dare “all’Europa la struttura economica necessaria di cui ha bisogno per imporre la sua importanza nel mondo”.
Negli anni ’40, in piena campagna nazista, gli economisti nazionalsocialisti scrivevano che solo “un grande spazio economico continentale” potrebbe mettere la Germania nelle condizioni di sfidare con successo gli enormi blocchi del Nord e Sud-America, il blocco dello Yen, e quello che resta del blocco della Sterlina.
Se si pensa al quadro politico internazionale di oggi sembra che tutta la partita si stia giocando a favore della Germania, anche i media mainstream occidentali sembrano oramai spingere fortemente verso questa direzione: consegnare nelle mani della cancelliera tedesca il destino dell’Europa. D’altronde, l’influenza della Russia è stata marginalizzata ed il paese è stato trasformato in una minaccia comune contro la quale soprattutto i paesi dell’Europa dell’est hanno bisogno di un protettore. L’Europa del sud, per via del debito estero ben strutturato, è già nelle mani della Germania. La Gran Bretagna si è congedata da sola, mentre la Francia – sotto una feroce spinta eurocentrista – ha eletto come nuovo presidente un replicante del governo Hollande, l’ex ministro del lavoro Macron, il padre putativo del “Loi Travail”, che fa affidamento sulla Germania e che senza alcun dubbio ha un’affinità con la base ideologica neoliberista tedesca.
Si tratta quindi di un’occasione storica. Sotto i nostri occhi sembra prendere forma una Germania first, partendo dalla gestione dei rifugiati, passando ad una più stretta cooperazione degli eserciti dell’Europa continentale, fino ad un modello di finanziamento che prevede di utilizzare il denaro proveniente dall’Iva per aiutare quei paesi che faranno le cosiddette “riforme”, senza escludere la spoil system in seno alla Bce da parte dell’uomo più fidato di Merkel, il freddo presidente della Deutsche Bundesbank, Jens Weidmann.
Tutte combinazioni che potrebbero suggellare e consolidare le suggestive ambizioni egemoniche tedesche nell’Europa continentale.
Ma la partita politica, economica e militare che si sta giocando sullo scacchiere mondiale è tutt’altro che semplice e, di sicuro, non così delineata come si vuole far credere. La forza d’urto con la quale la Cina sta entrando prepotentemente nello scenario internazionale, quale potenza egemone della manifattura mondiale, mettendo sul tavolo da gioco ingenti risorse e progetti per la costruzione di filiere infrastrutturali, lungo il millenario percorso della via della seta marittima e terrestre, sta ridisegnando il nuovo ordine mondiale.
A niente sono valse i tentativi iniziali di screditare il nuovo “Piano Marshall” mondiale made in China facendolo passare come un tentativo di penetrazione economica e, quindi, come il proseguimento della guerra per l’egemonia con altri mezzi. La Belt on the Road iniziative, ossia la costruzione di un sistema di infrastrutture che leghi la Cina con il resto del mondo, presentata ufficialmente da Xi Jinping al forum di Pechino, coinvolgerà nei prossimi 5 anni 112 Paesi e porterà un budget di 650 miliardi di dollari in dotazione, a zonzo per il mondo.
E la Germania farebbe bene a non sottovalutare la portata di questo enorme evento storico, soprattutto alla luce degli accordi raggiunti a Mar -a –Lago in Florida tra Donald Trump e Xi Jinping. Dalle bio-tecnologie, all’alimentare, ai servizi finanziari, fino all’accordo storico sulle forniture di gas (pari a 46 miliardi di dollari all’anno per 35 anni); le concessioni fatte dal leader cinese al presidente americano sembrano in un certo senso aver voluto riconoscere la posizione di vantaggio, assunta nel corso dell’ultimo decennio, che ha portato gli Usa ad avere un enorme deficit commerciale nei confronti di Pechino.
Di una cosa sembrano entrambi essersi convinti: nessuno dei due raggiungerà i suoi scopi se sono in conflitto. D’altronde Trump sa perfettamente che le esportazioni cinesi, tra il 2006 e il 2016, sono calate dal 35 al 19% del prodotto interno lordo, quindi l’invincibile macchina da export è storia del passato. La Cina può contribuire a dare a Trump quel che vuole: investimenti industriali in nuove attività in quelle aree che hanno subito gli effetti della deindustrializzazione, con imprese cinesi che sarebbero pronti a investire negli Usa.
La Germania dovrebbe rendersi conto del rischio di isolamento cui andrebbe incontro, girando le spalle a questo nuovo corso della storia. Continuando spedita la sua incontrastata marcia mercantilistica, rastrellando risorse, deflazionando la domanda interna e sottraendola ad altri parti del mondo, arriverà in un vicolo cieco senza via di ritorno, col risultato che – per aver alzato il livello di scontro, aver distrutto lo stato sociale europeo e generato ancor di più miseria e risentimento nazionalistico – prima o poi sarà chiamata a pagare un conto salatissimo.
In questo scontro pare che la classe dirigente italiana si avvii verso un suicidio annunciato. L’appoggio di stampa, politica e mondo industriale italiano alla Germania occulta i veri interessi nazionali dei prossimi decenni, vale a dire giocare di sponda con i tre attori globali, Usa, Cina, Russia. Oltretutto dalla Fremania l’Italia prende solo sberle: dal probabile bail in delle popolari venete, al rastrellamento di imprese italiane – ultima la Telecom in mano ai francesi di Vivendi. Senza che vi sia reciprocità, tant’è che Macron ha contestato l’acquisizione da parte di Fincantieri della francese Stx. Lasceranno un po’ di respiro quest’estate per far vincere l’obamiano Renzi, ma nel 2018 con Weidmann e il piano europeo da parte della Germania l’Italia si avvia, se non cambia prospettiva, al collasso economico, senza questa volta avere l’aiuto degli Usa.
Il fine della Germania è impedire la saldatura tra la Via della Seta marittima e i porti italiani per favorire i porti della Lega Anseatica, vale a dire Rotterdam, Bremenhaven e Amburgo. I tedeschi sanno che se gli italiani entrano nel circuito cinese, e con buone relazioni con Usa e Russia, possono far saltare il banco europeo.
Al momento siamo in mano dei collaborazionisti. La partita si gioca a Washington. Lì c’è una feroce guerra civile. Se la spunta Trump, controllando tutti gli apparati, a quel punto il gioco passa a lui, in Italia e in Europa. Nel frattempo sistema, con il programma dei cento giorni, i negoziati commerciali con la Cina ed in seguito la nuova Yalta con la Russia. Se ci riuscirà, perderanno i collaborazionisti italiani, che dovranno dar spazio ad altri gruppi più consoni della partita in corso. Tempi interessanti, se non fosse per la miseria dettata dall’austerità europea che ci circonda.
da http://www.marx21.it/
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