Il declino o il successo di un paese comincia sempre dall’alto, ossia da una classe dirigente – complessivamente intesa: imprese, politica, istituzioni, università, ecc – capace (oppure no) di innervare l’inserimento di un modello produttivo dentro l’evoluzione dell’economia globale.
Questa analisi di Marta Fana e Davide Villani, meritoriamente pubblicata da IlSole24Ore (organo di Confindustria, ma proprio per questo statutariamente attento alle dinamiche dell’economia reale più che a quelle dell’economia narrata), mostra in modo piuttosto chiaro come sia l’arretratezza della classe dirigente italiana a spingere il paese verso un baratro da cui sarebbe difficile risollevarsi per decenni.
Arretratezza culturale in senso lato, che si manifesta in un atteggiamento imprenditoriale sparagnino, di corto periodo; insomma vile anche dal punto di vista capitalistico.
La bassa competitività media delle imprese italiane dipende infatti – dati alla mano – da bassi investimenti, dunque da una produzione basata su tecnologie “mature” o arcaiche. Il margine di profitto, in questo tipo di impresa, viene scavato nella carne viva del salario,, da almeno 30 anni sottoposto a un processo abrasivo continuo, costante, accelerato negli ultimi anni “grazie” alla precarizzazione contrattuale totale. Quindi “grazie” a una classe politica senza alcuna visione di lungo periodo, esattamente corrispondente al livello inqualificabile della classe imprenditoriale. Del resto, tutta la retorica che ha accompagnato la “discesa in campo della società civile”, contro i “professionisti della politica”, è stata la colonna sonora e ideologica di una presa del comando politico direttamente nelle mani del “miserabile) capitale italiano.
Ma c’è qualcosa di più generale e profondo che la crisi specifica del capitalismo italiano rivela. Ed è il declino del capitalismo “occidentale”, che condivide – anche se su un piano assai meno straccione – l’identico atteggiamento “anti-produttivo”.
Da decenni, ormai, si è fatta strada la “shareholders revolution, che […] ha contribuito a spostare le imprese verso un modello in cui vengono privilegiati investimenti speculativi, principalmente orientati al breve periodo, con l’obiettivo di massimizzare i ritorni di un numero ridotto di azionisti. Come contropartita diminuiscono gli investimenti produttivi di lungo periodo, già colpiti dal basso livello di domanda aggregata”.
I manager vengono naturalmente retribuiti moltissimo già a livello di “stipendio base”, ma il grosso dei loro guadagni viene dalle stock option (pacchetti azionari dell’azienda che dirigono) con cui vengono “premiati”. Il valore delle azioni, in questa logica, è più importante dei livelli di fatturato e persino dei profitti netti, in qualche misura. La finanziarizzazione dell’economia reale ha questa inevitabile conseguenza: portare in primo piano il modo d’agire del capitale finanziario (tempi brevi, plusvalenze alte), facendo scendere – nella scala dei “valori”, dunque anche delle scelte operative – il modo d’agire del capitale industriale (tempi medio-lunghi, margini di profitto sottoposti al logorio della concorrenza internazionale, ecc).
Fana e Villani arrivano a gettar luce su queste dinamiche globali partendo non a caso dal calo drastico dei salari, sia per i lavoratori meno qualificati che – è l’apparente controsenso da cui partono – per i lavoratori teoricamente più adatti a un ciclo produttivo altamente tecnologizzato.
Ma dalla loro analisi emergono squarci “sistemici” di grande rilevanza. Per esempio: come può un simile produttivismo debole affrontare un piano di investimenti colossale come la Belt and Road Initiative cinese? Inevitabilmente in posizione subordinata, occasionale (lusso, turismo, meccanica di precisione e poco altro), disorganizzata. Come potrà tenere in vita un sistema di formazione universitaria e di ricerca scientifica di alto livello se il sistema produttivo continua a ridurre dimensioni, ambizioni, innovazione (di prodotto, prima ancora che di processo), visione strategica?
Si potrebbe andare avanti a lungo. Ma quel che importa è che basta davvero poco – un buon lavoro di analisi sui dati, fatto da solo due ricercatori peraltro notevoli – per distruggere la credibilità delle sciocchezze che ci vengono ammannite ogni giorno dai Fubini, Giavazzi, Alesina, Boeri, e quant’altri.
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Perché la rivoluzione tech non spiega i bassi salari italiani
All’interno del dibattito sulle attuali condizioni del mondo del lavoro italiano, si colloca la questione salariale. Secondo la teoria dominante, ripresa qui su Econopoly in un recente articolo firmato da Luca Foresti, i cambiamenti tecnologici (e la globalizzazione) hanno contribuito alla polarizzazione del mercato del lavoro in cui gli strati più bassi della piramide hanno sempre più difficoltà a inserirsi o, una volta inseriti, sono condannati a salari e condizioni di lavoro meno edificanti. Allo stesso tempo, lavoratori capaci di integrarsi o essere integrati in settori più produttivi (quelli maggiormente innovativi e tecnologici) sarebbero maggiormente ricompensati, in quanto più produttivi. Si consumerebbe così la polarizzazione (e di conseguenza aumento delle diseguaglianze interne), spinta(e) principalmente dalla tecnologia.
Come in ogni visione a tradizione marginalista, inoltre, spetta ai lavoratori, schiacciati dalla concorrenza di altri lavoratori nella fascia bassa delle retribuzioni, “prepararsi a fare lavori più complessi e meglio pagati” e a quelli più produttivi reclamare la propria fetta, “meritata”, di valore aggiunto prodotto. All’interno di questo ragionamento, nessuno spazio è accordato, come ricorda Bogliacino (2014), al potere, o in termini classici ai rapporti di forza tra aziende e lavoratori.
Mantenendo per un attimo da parte quest’ultimo aspetto che tuttavia è dirimente nello spiegare perché la tesi di una polarizzazione (e quindi diseguaglianza) indotta dalla tecnologia non sia in grado di spiegare la situazione italiana, è opportuno guardare ai fatti che caratterizzano il mondo del lavoro italiano. Rimanendo quindi ancorati alla teoria mainstream, ci si chiede se in Italia l’impoverimento dei salari sia dovuto alla polarizzazione e/o un’insufficienza di capitale umano capace di soddisfare le richieste tecnologiche del mercato.
Partendo dal rapporto Eurofound (2016) sulla struttura lavorativa dei Paesi europei, si nota che l’Italia, insieme all’Ungheria è il paese in cui la polarizzazione tra lavori qualificati e non qualificati non ha luogo. Tra il 2011 e il 2015 è un vero e proprio declassamento generalizzato: ad aumentare sono soltanto il numero di posizioni lavorative peggio retribuite (quelle appartenenti al primo quintile delle retribuzioni).
Inoltre, si legge nello stesso rapporto, la struttura occupazionale italiana si caratterizza per maggiori livelli di lavoro fisico e per un uso inferiore delle ICT, soprattutto rispetto a paesi come la Francia e la Germania, ma non solo. Quindi, non è l’offerta di lavoro a non essere adeguata, ma la struttura produttiva in costante impoverimento. In altre parole, più che un problema di offerta di lavoro l’Italia attraversa un problema di quantità e qualità di domanda di lavoro. Quanto alla quantità, è sufficiente ricordare che il monte ore lavorate è ancora inferiore ai valori precrisi e che la domanda di lavoro in Italia è tra le più basse in Europa, come riporta l’Eurostat.
Tasso di posti vacanti in Europa
La scarsa qualità della domanda di lavoro, è dimostrata dall’esodo di lavoratori teoricamente più qualificati (cioè in possesso di una laurea) verso altri paesi, come rileva di recente l’Istat: nel 2016, si legge nel rapporto Migrazioni internazionali e interne della popolazione residente, i laureati italiani che lasciano il Paese, sono quasi 25 mila nel 2016 (+9% sul 2015) anche se tra chi emigra restano più numerosi quelli con un titolo di studio medio-basso (56mila, +11%), a riprova del fatto che scarsa qualità e quantità di domanda di lavoro vanno di pari passo nel nostro Paese.
Inoltre, per confermare i dati Eurofound sulla scarsa qualità delle offerte di lavoro in Italia, basta guardare alla distribuzione delle nuove assunzioni nel nostro paese, riportati mensilmente dall’Osservatorio sul precariato Inps, secondo cui circa il 35% delle nuove assunzioni a tempo indeterminato tra il 2015 e il 2017 si concentrano nei settori dei servizi a scarsa produttività: commercio all’ingrosso e al dettaglio; riparazione di autoveicoli e motocicli; trasporto e magazzinaggio; servizi di alloggio e di ristorazione.
Fin qui più che una polarizzazione, siamo di fronte a un impoverimento generalizzato della struttura produttiva che di conseguenza genera un impoverimento del lavoro. All’interno di questo contesto tuttavia, i guadagni tra le parti non sono distribuiti equamente: infatti, la distribuzione del valore aggiunto tra aziende e lavoratori, tra quota profitti e salari, ha favorito i redditi dei primi a discapito dei secondi. Come mostra, l’ultimo rapporto OCSE in merito (si veda il grafico qui sotto), in Italia la quota di reddito complessivo che va ai salari è diminuita di quasi il 15% tra gli anni Settanta e il 2014. Una dinamica che non si riassorbe con la crisi.
Fonte: OECD – The labor share in the G20 economies
Non stupisce, allora, ritrovare una distanza profonda tra le retribuzioni dei salariati e quelle, in aumento, di dirigenti e lavoratori ai piani alti della piramide, la quale però non rappresenta un cambiamento neutrale nelle forme retributive. Infatti, l’aumento delle seconde è determinato da forme di retribuzione non legate al salario ma appunto ai profitti; non a caso esse avvengono tramite bonus e stock options.
Alcuni economisti (vedasi Lazonick e O’Sullivan, 2000; Mason, 2015) inseriscono questo fenomeno all’interno della denominata shareholders revolution, che negli ultimi decenni ha contribuito a spostare le imprese verso un modello in cui vengono privilegiati investimenti speculativi, principalmente orientati al breve periodo, con l’obiettivo di massimizzare i ritorni di un numero ridotto di azionisti. Come contropartita diminuiscono gli investimenti produttivi di lungo periodo, già colpiti dal basso livello di domanda aggregata.
Il risultato è una diminuzione della quota di profitti reinvestiti nell’economia “reale”, mentre aumenta quella destinata alla distribuzione di dividendi. Sono allora premiati coloro che lavorano per aumentare i rendimenti finanziari e/o i risparmi negli investimenti reali da drenare nelle attività speculative.
Fin qui quindi nulla conferma la teoria della polarizzazione indotta dalla tecnologia.
Tuttavia, per quanto riguarda le caratteristiche dei lavoratori italiani bisogna tener presente che l’abbassamento della qualità (e spesso anche quantità) delle condizioni lavorative è generalizzato e riguarda anche i cosiddetti lavoratori qualificati (skilled). In particolare, come mostrano Naticchioni-Raitano-Vittori (2016) nel grafico qui sotto, l’evoluzione delle retribuzioni dei lavoratori italiani si riduce nel tempo, ma in misura maggiore per i laureati nati tra il 1975 e il 1979 relativamente ai colleghi delle coorti precedenti.
Stime dell’evoluzione delle retribuzioni medie annue lorde per coorte di nascita. Lavoratori laureati
Fonte: Naticchioni-Raitano-Vittori (2016)
Come spiegano gli autori citati, “per quanto riguarda le spiegazioni di ‘mercato’, si potrebbe sostenere che, essendo aumentati i livelli di istruzione della forza lavoro, il lavoro qualificato sia diventato più diffuso e, quindi, meno remunerato”. Tale ragionamento vale, però, solo se la domanda di lavoro qualificato è rimasta stabile, o è cresciuta meno dell’offerta. Un’interpretazione sebbene parziale, plausibile, come abbiamo già visto. Tuttavia, non è esaustiva un’interpretazione basata esclusivamente sulla dinamica della domanda e dell’offerta. Bisogna infatti considerare l’effetto distributivo dei cambiamenti istituzionali, cioè delle riforme del mercato del lavoro intervenute negli ultimi venti anni.
Ad esempio, in un recente studio (Fana e Raitano, 2016), viene mostrato in che modo la liberalizzazione del contratto a termine prevista dal decreto 368/2001 abbia colpito negativamente i salari di ingresso e quelli dei primi anni di carriera dei giovani laureati, quindi del gruppo teoricamente più istruito (tenendo sotto controllo la dimensione e il settore economico del datore di lavoro), che si è affacciato al mondo del lavoro dopo la riforma. Un esempio che, tuttavia, rispecchia i veri obiettivi delle repentine riforme volte a flessibilizzare e liberalizzare il mercato del lavoro: ridurre il potere contrattuale dei lavoratori per mantenere un livello di competitività (senza intaccare i profitti) delle imprese adeguato a non scivolare fuori dal mercato stesso.
La ricerca della competitività da parte del settore privato sembra passare unicamente dalla riduzione dei salari e del costo del lavoro in generale, più che da investimenti produttivi e innovazione. In Italia, infatti, si investe meno che nel resto d’Europa: gli investimenti in rapporto al PIL sono costantemente al di sotto della media europea, sin dagli inizi degli anni Ottanta. Lo stesso vale per la spesa in ricerca e sviluppo: secondo dati Eurostat, in Italia il settore privato destina 207 euro pro capite mentre la media europea è di 427 euro per abitante. Per non parlare degli investimenti in istruzione che languono in basso alla classifica dei paesi europei. A questo si deve aggiungere una retorica che spesso ha enfatizzato le piccole e medie imprese, dimenticandosi che queste imprese sono meno innovative e meno produttive rispetto alle grandi aziende.
Occorre poi riflettere su come l’aumento della disuguaglianza del reddito ha effetti a livello macroeconomico. Una società più diseguale implica che una quota sempre minore del reddito è assicurata ai piani alti della piramide. Questa distribuzione del valore aggiunto prodotto, però, ha effetti negativi su crescita economica ed occupazione. La maggior propensione al consumo delle classi popolari rispetto a quelle più abbienti fa sì che una distribuzione più egualitaria porterebbe a una più rapida crescita economica, per via dell’effetto moltiplicatore.
In questo contesto, le politiche di restrizione della domanda aggregata (meglio conosciute come austerity) non fanno che peggiorare la situazione, determinando crollo degli investimenti pubblici, blocco degli stipendi del settore pubblico e riduzione della spesa sociale (reddito indiretto per le famiglie), minori consumi. Considerati questi aspetti sembra quantomeno improbabile raggiungere aumenti di produttività che invertano il declino italiano. La produttività è infatti un fenomeno prociclico nel lungo periodo, legato alla crescita (che non può avvenire in assenza o in stagnazione di domanda aggregata e forti diseguaglianze, come scrivono ormai anche il Fondo Monetario Internazionale e l’Ocse). Nel breve e medio periodo, è strettamente connessa agli investimenti e all’innovazione di processi e prodotti.
In questo contesto, l’aumento dei minimi salariali spronerebbe le imprese a investire, dato il maggior livello di consumi. Una volta fatta chiarezza sulla natura della produttività, dal punto di vista politico (e quindi anche economico) bisogna infine chiedersi come tali aumenti di produttività saranno o dovrebbero essere distribuiti: avallare o invertire la dinamica crescente di diseguaglianza, superando l’economicismo produttivista per cui soltanto chi occupa il vertice della piramide è ammesso a beneficiarne.
Gli autori sono Marta Fana, dottore di ricerca in Economia e autrice di “Non è lavoro, è sfruttamento” (Laterza 2017) e Davide Villani, dottorando di ricerca in Economia, Open University (Regno Unito)
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