Cercando di interpretare, capire e analizzare il flusso quotidiano di notizie, tendo a collocare quanto sta accadendo nel contesto di due modelli di funzionamento del capitalismo distinti eppure intrecciati.
Il primo livello è una mappatura delle contraddizioni interne della circolazione e dell’accumulazione del capitale mentre il valore del denaro si sposta alla ricerca del profitto attraverso i diversi «momenti» (come li chiama Marx) di produzione, realizzazione (consumo), distribuzione e reinvestimento.
Questa è una rappresentazione dell’economia capitalistica come spirale di espansione e crescita senza fine. Diventa piuttosto complicato quando viene elaborato, ad esempio, attraverso la lente delle rivalità geopolitiche, degli sviluppi geografici diseguali, delle istituzioni finanziarie, delle politiche statali, delle riconfigurazioni tecnologiche e della rete in continua evoluzione delle divisioni del lavoro e delle relazioni sociali.
Tuttavia, mi raffiguro questo modello come se fosse incorporato in un contesto più ampio di riproduzione sociale (nelle famiglie e nelle comunità), in una relazione metabolica continua e in continua evoluzione con la natura (compresa la «seconda natura» dell’urbanizzazione e dell’ambiente artificialmente costruito) e con tutti i sistemi di formazione sociale, culturale, scientifica (basate sulla conoscenza), religiosa e contingente che le popolazioni umane in genere creano nel corso dello spazio e del tempo.
Questi ultimi «momenti» incorporano l’espressione attiva di aspirazioni, bisogni e desideri umani, la brama di conoscenza e di senso e la ricerca continua di soddisfazione in un contesto di mutevoli assetti istituzionali, tensioni politiche, scontri ideologici, perdite, sconfitte, frustrazioni e alienazioni, tutte elaborate in un mondo caratterizzato da marcate diversità geografiche, culturali, sociali e politiche.
Questo secondo modello rappresenta per così dire, la mia comprensione pratica del capitalismo globale in quanto formazione sociale specifica, mentre il primo riguarda le contraddizioni all’interno del meccanismo economico che alimenta questa formazione sociale lungo i determinati percorsi della sua evoluzione storica e geografica.
Nel vortice della crisi
Quando il 26 gennaio scorso ho letto per la prima volta che il Coronavirus stava guadagnando terreno in Cina, ho subito pensato alle ripercussioni sulla dinamica globale dell’accumulazione di capitale. Sapevo dai miei studi sul modello economico che blocchi e interruzioni nella continuità del flusso di capitale avrebbero comportato svalutazioni e che se le svalutazioni si fossero diffuse e radicate avrebbero segnalato l’inizio delle crisi.
Ero consapevole anche del fatto che la Cina è la seconda economia più grande del mondo e che aveva effettivamente salvato il capitalismo globale all’indomani del 2007-2008, quindi qualsiasi colpo all’economia cinese avrebbe avuto gravi conseguenze per un’economia globale che era in ogni caso già in una situazione difficile.
Il modello esistente di accumulazione di capitale era, mi sembrava, già in grossi guai. I movimenti di protesta si stavano verificando quasi ovunque (da Santiago a Beirut), molti di essi erano concentrati sul fatto che il modello economico dominante non funzionava bene per la gran parte della popolazione.
Questo modello neoliberista si basava sempre più sul capitale fittizio e su una vasta espansione di offerta di moneta e creazione di debito. Si trovava già prima della pandemia di fronte al problema dell’insufficiente domanda effettiva per realizzare il valore che il capitale è in grado di produrre.
Quindi come potrebbe il modello economico dominante, dalla fragilità assodata e la salute claudicante, assorbire i colpi e sopravvivere agli inevitabili impatti di una pandemia?
La risposta dipende fortemente dalla durata e dalla diffusione del blocco, poiché, come sottolineato da Marx, la svalutazione non si verifica perché le merci non possono essere vendute, ma perché non possono essere vendute in tempo.
Da tempo ho rigettato l’idea di una «natura» esterna e separata dalla cultura, dall’economia e dalla vita quotidiana. Assumo una visione più dialettica e complessa della relazione metabolica con la natura. Il capitale modifica le condizioni ambientali della propria riproduzione, ma lo fa in un contesto di conseguenze non intenzionali (come i cambiamenti climatici) e sullo sfondo di forze evolutive autonome e indipendenti che stanno continuamente rimodellando le condizioni ambientali. Da questo punto di vista non esiste un disastro veramente naturale. I virus mutano continuamente per essere sicuri. Ma le circostanze in cui una mutazione diventa pericolosa per la vita dipendono dalle azioni umane.
Questa situazione produce conseguenze rilevanti. Innanzitutto, condizioni ambientali favorevoli aumentano la probabilità di mutazioni vigorose. Ad esempio, è plausibile aspettarsi che sistemi di approvvigionamento alimentare intensivo nei subtropici umidi possano contribuire al contagio. Tali sistemi esistono in molti luoghi, tra cui la Cina a sud dello Yangtse e il sud-est asiatico.
In secondo luogo, le condizioni che favoriscono una rapida trasmissione attraverso le persone variano notevolmente. Le popolazioni umane ad alta densità sembrerebbero un facile bersaglio. È noto che le epidemie di morbillo, ad esempio, prosperano solo nei centri urbani più grandi e poi si estinguono rapidamente in regioni scarsamente popolate. Il modo in cui gli esseri umani interagiscono tra loro, si muovono, si disciplinano o dimenticano di lavarsi le mani ha effetti sul modo in cui le malattie vengono trasmesse.
In tempi recenti la Sars, l’influenza aviaria e suina sembravano provenire dalla Cina o dal sud-est asiatico. La Cina ha sofferto pesantemente anche della peste suina nell’ultimo anno, con conseguente massacro di suini e aumento dei prezzi della carne di maiale. Non dico tutto ciò per accusare la Cina. Esistono molti altri luoghi in cui i rischi ambientali per la mutazione e la diffusione dei virus sono elevati.
L’influenza spagnola del 1918 potrebbe essere arrivata dal Kansas e l’Africa potrebbe aver incubato l’Hiv/Aids e l’Ebola è partita dal Nilo occidentale, mentre la Dengue sembrava prosperare in America Latina. Ma gli impatti economici e demografici della diffusione del virus dipendono da crepe e vulnerabilità preesistenti nel modello economico egemone.
Il fatto che Covid-19 all’inizio sia stato individuato a Wuhan (anche se non è certo che abbia avuto origine lì) non mi ha sorpreso. Chiaramente gli effetti locali erano sostanziali e dato che si trattava di un importante centro produttivo ci sarebbero state probabilmente ripercussioni economiche globali (anche se non avevo idea della grandezza). La grande domanda era quanto e come si sarebbero verificati il contagio e la diffusione e quanto sarebbe durata (fino a quando non ci sarà un vaccino).
L’esperienza precedente aveva dimostrato che uno degli svantaggi della globalizzazione è che è impossibile fermare la rapida diffusione internazionale di nuove malattie. Viviamo in un mondo fortemente connesso in cui quasi tutti viaggiano. Le reti umane per il contagio potenziale sono vaste e aperte.
C’era il pericolo (economico e demografico) che il disagio sarebbe durato un anno o più. Si è verificata un’immediata flessione dei mercati azionari globali quando si sono diffuse le notizie iniziali, alla quale sorprendentemente è seguito un mese e più in cui i mercati hanno raggiunto nuovi massimi.
La notizia sembrava segnalare che gli affari avrebbe proseguito normalmente ovunque, tranne che in Cina. Pareva che avremmo sperimentato una ripetizione della Sars che era stata contenuta abbastanza rapidamente e aveva avuto un impatto globale basso nonostante comportasse un alto tasso di mortalità e avesse creato il panico (poi rivelatosi infondato) nei mercati finanziari.
Quando Covid-19 ha fatto la sua comparsa, la reazione dominante è stata che fosse come la Sars, il che rendeva superfluo il panico. Il fatto che l’epidemia imperversasse in Cina ha portato il resto del mondo a trattare erroneamente il problema come qualcosa che stava accadendo «laggiù», lontano dall’occhio e dalla mente (con qualche segnale preoccupante di xenofobia anti-cinese in alcune parti del mondo).
Il fatto che il virus abbia intralciato la crescita della Cina altrimenti trionfante è stato persino salutato con gioia in alcuni ambienti dell’amministrazione Trump.
Tuttavia, hanno iniziato a circolare le notizie sull’interruzione delle catene di produzione globale che attraversano Wuhan. Questi segnali sono stati in gran parte ignorati oppure trattati come problemi limitati a particolari linee di produzione o aziende (come Apple). Le svalutazioni erano considerate come locali e particolari, non sistemiche. Anche i segnali della flessione della domanda sono stati ridotti al minimo, anche se quelle società, come McDonald’s e Starbucks, che avevano fatto grandi operazioni nel mercato interno cinese per un po’ hanno dovuto chiudere i battenti da quelle parti. La sovrapposizione del capodanno cinese con lo scoppio del virus ha mascherato gli impatti per tutto il mese di gennaio. La compiacenza di questa risposta è stata mal riposta.
Le prime notizie sulla diffusione internazionale del virus sono state occasionali ed episodiche con un grave contagio in Corea del Sud e alcuni altri focolai come l’Iran. È stato lo scoppio del virus in Italia a scatenare la prima reazione. Il mercato azionario ha iniziato a metà febbraio a oscillare, poi a metà marzo ha portato a una svalutazione netta di quasi il 30% nelle borse di tutto il mondo.
L’escalation esponenziale delle infezioni ha suscitato risposte diverse, spesso incoerenti e talvolta generate dal panico. Di fronte a una potenziale ondata di malattia e morte il presidente Trump ha messo in scena l’imitazione del re Canuto. Alcune delle risposte sono state strane. Avere la Federal Reserve a tassi di interesse più bassi di fronte a un virus sembrava strano, anche riconoscendo che la mossa aveva lo scopo di alleviare gli impatti sul mercato piuttosto che arginare i progressi del virus.
Le autorità pubbliche e i sistemi sanitari sono quasi ovunque paralizzati dalla carenza di personale. Quarant’anni di neoliberismo in Nord e Sud America e in Europa hanno lasciato i settore pubblico completamente esposto e mal preparato ad affrontare una crisi sanitaria di questo tipo, anche se gli allarmi precedenti su Sars ed Ebola avevano fornito indicazioni abbondanti e lezioni convincenti su ciò che deve essere fatto in questi casi.
In molte parti del mondo cosiddetto «civilizzato», i governi locali e le autorità regionali/statali, che invariabilmente compongono la prima linea di difesa in questo tipo di emergenze in materia di salute pubblica e sicurezza, sono stati privati di finanziamenti grazie a una politica di austerità progettata per foraggiare riduzioni fiscali e sussidi alle imprese e ai ricchi.
Le corporation di Big Pharma hanno scarso o nessun interesse per la ricerca non remunerativa sulle malattie infettive (categoria alle quali appartiene l’intera classe di Coronavirus nota dagli anni Sessanta). Big Pharma raramente investe nella prevenzione. Ha scarso interesse a investire nella preparazione di una crisi di salute pubblica. Ama progettare cure. Più siamo malati, più guadagnano. La prevenzione non distribuisce dividendi agli azionisti.
Il modello di business applicato alla sanità pubblica ha eliminato le capacità di adattamento che sarebbero necessarie in caso di emergenza. La prevenzione non è neppure un settore abbastanza allettante da giustificare partenariati pubblico-privato. Il presidente Trump ha tagliato il budget del Center for Disease Control e sciolto il gruppo di lavoro sulle pandemie nel Consiglio di sicurezza nazionale con lo stesso spirito in cui ha tagliato tutti i finanziamenti per la ricerca, incluso il cambiamento climatico.
Se volessi essere antropomorfo e metaforico al riguardo, concluderei che Covid-19 è la vendetta della natura per oltre quarant’anni di maltrattamenti grossolani e violenti da parte di un estrattivismo neoliberista violento e non regolamentato.
Forse è sintomatico che i paesi meno neoliberisti, la Cina e la Corea del Sud, Taiwan e Singapore, abbiano finora attraversato la pandemia meglio dell’Italia, sebbene la situazione in Iran affievolisca il valore universale di questo postulato.
Mentre ci sono state molte prove che la Cina ha gestito piuttosto male la Sars con molta finzione e negazioni iniziali, questa volta il presidente Xi ha rapidamente imposto trasparenza sia nelle comunicazioni che nei test, come la Corea del Sud.
Ciò nonostante, in Cina è stato perso del tempo prezioso (solo pochi giorni fanno la differenza). Tuttavia è stato notevole il confinamento dell’epidemia nella provincia di Hubei con Wuhan al centro. L’epidemia non si è trasferita a Pechino o in occidente o anche più a sud. Le misure prese per confinare geograficamente il virus sono state draconiane. Sarebbero quasi impossibili da replicare altrove per motivi politici, economici e culturali.
I report che arrivano dalla Cina suggeriscono che le misure e le politiche intraprese sono state tutt’altro che compassionevoli. Inoltre, la Cina e Singapore hanno dispiegato i loro poteri di sorveglianza personale a livelli invasivi e autoritari. Ma questi metodi nel complesso sembrano essere stati estremamente efficaci, anche se i modelli suggeriscono che se le contromisure fossero state attivate solo pochi giorni prima molti decessi avrebbero potuto essere evitati.
Questo è un dato importante: in ogni processo di crescita esponenziale c’è un punto di flesso oltre il quale la massa in aumento diventa totalmente fuori controllo (notate qui, ancora una volta, il significato della massa in relazione al tasso). Il fatto che Trump abbia indugiato per così tante settimane potrebbe rivelarsi costoso in termini di vite umane.
Gli effetti economici stanno andando fuori controllo sia in Cina che altrove. Le interruzioni che attraversano le catene del valore le aziende e alcuni interi settori si sono rivelate più sistematiche e sostanziali di quanto si pensasse inizialmente. L’effetto a lungo termine potrebbe essere quello di accorciare o diversificare le catene di approvvigionamento mentre si procede verso forme di produzione meno dispendiose in termini di manodopera (con enormi implicazioni per l’occupazione) e una maggiore dipendenza da sistemi di produzione basati sull’intelligenza artificiale.
Il blocco dei processi di produzione comporta il licenziamento dei lavoratori, il che riduce la domanda finale, mentre la domanda di materie prime diminuisce il consumo produttivo. Sarebbero bastati questi effetti sul lato della domanda per generare da soli una lieve recessione.
Ma le vulnerabilità più importanti sono altrove. Le forme di consumo esplose dopo il 2007-2008 si sono schiantate con conseguenze devastanti. Queste forme si basavano sulla riduzione del tempo di turnover di consumo il più vicino possibile a zero. L’ondata di investimenti corrispondente a queste forme di consumismo ha a che fare con l’assorbimento di volumi di capitale esponenzialmente crescenti.
Il turismo internazionale da questo punto di vista è emblematico. Gli spostamenti internazionali sono aumentati da 800 milioni a 1,4 miliardi tra il 2010 e il 2018. Questa forma di consumismo istantaneo ha richiesto ingenti investimenti infrastrutturali in aeroporti e compagnie aeree, hotel e ristoranti, parchi a tema ed eventi culturali, ecc.
Questo settore di accumulazione di capitale è al collasso: le compagnie aeree sono vicine al fallimento, gli hotel sono vuoti e la disoccupazione di massa nei settori del turismo è imminente. Mangiare fuori è sconsigliato e ristoranti e bar sono stati chiusi in molti posti. Anche la ristorazione «a portar via» sembra rischiosa. Il vasto esercito degli impiegati nella gig-economy o in altre forme di lavoro precario è stato licenziato senza aver accesso ad alcuna tutela. Eventi come festival culturali, tornei di calcio e basket, concerti, convegni aziendali e professionali e persino incontri politici per le campagne elettorali sono cancellati.
Queste forme di consumismo esperienziale basate sugli eventi sono state chiuse. Nei bilanci delle amministrazioni locali si aprono voragini. Le università e le scuole stanno chiudendo. Gran parte del modello all’avanguardia del consumismo capitalista contemporaneo nelle condizioni attuali è impossibilitato a funzionare. La spinta verso ciò che André Gorz descrive come «consumismo compensativo» (in cui si suppone che i lavoratori alienati recuperino il loro spirito attraverso un pacchetto vacanze su una spiaggia tropicale) è stata messa in crisi.
Ma le economie capitaliste contemporanee sono guidate al 70 o addirittura all’80% dal consumismo. Negli ultimi quarant’anni la fiducia e il sentimento dei consumatori sono diventati la chiave per la mobilitazione della domanda effettiva e il capitale si accodato sempre più alla domanda che ai bisogni.
Questa fonte di energia economica non è stata soggetta a fluttuazioni selvagge (con alcune eccezioni come l’eruzione vulcanica islandese che ha bloccato i voli transatlantici per un paio di settimane). Solo che Covid-19 non sta producendo una fluttuazione selvaggia, ma un crollo imponente del cuore della forma di consumismo che domina i paesi più ricchi.
La forma a spirale dell’accumulazione infinita di capitale sta implodendo da una parte all’altra del mondo. Può salvarlo solo un consumismo di massa finanziato dal governo e spuntato dal nulla. Ciò richiederà, per esempio, la socializzazione dell’intera economia negli Stati uniti, senza che questa venga definita come socialismo.
Chi sta in prima linea
C’è una credenza comune che sostiene che le malattie infettive non riconoscano barriere e confini di classe o di altro genere. Come molti di questi detti, contiene una dose di verità. Nelle epidemie di colera del diciannovesimo secolo, il fatto che il contagio oltrepassasse le barriere di classe fu sufficientemente drammatico da provocare la nascita di un movimento di risanamento pubblico e di salute durato fino ai giorni nostri. Non è sempre stato chiaro se questo movimento fosse progettato per proteggere tutti o solo le classi superiori. Ma oggi i differenti impatti sociali e di classe raccontano una storia diversa.
Gli impatti economici e sociali sono filtrati attraverso discriminazioni «consuete» che sono evidenti dappertutto. Per cominciare, la forza lavoro che dovrebbe occuparsi del numero crescente di malati ha una forte connotazione di genere e di razza nella maggior parte del mondo. Rispecchia la composizione della forza-lavoro che si trova, ad esempio, negli aeroporti e in altri settori logistici.
Questa «nuova classe operaia» è in prima linea e su di essa grava il carico di essere la forza lavoro più a rischio di contrarre il virus o essere licenziata senza tutele a causa del ridimensionamento economico imposto dal virus.
C’è, ad esempio, la questione di chi può lavorare da casa e chi no. Ciò acuisce il divario sociale così come la domanda su chi può permettersi di isolarsi o mettere in quarantena (con o senza retribuzione) in caso di contatto o infezione. Nello stesso modo in cui ho imparato a chiamare i terremoti del Nicaragua (1973) e di Città del Messico (1995) «terremoti di classe», quindi, il progresso di Covid-19 mostra tutte le caratteristiche di una pandemia di classe, genere e razza.
Mentre gli sforzi di mitigazione sono opportunamente occultati nella retorica secondo cui «siamo tutti nella stessa barca», le pratiche, in particolare da parte dei governi nazionali, suggeriscono motivazioni più inquietanti. La classe operaia contemporanea negli Stati uniti (composta prevalentemente da afroamericani, latini e donne) si trova di fronte al bivio di rischiare la contaminazione in nome della cura o del mantenimento delle caratteristiche chiave della fornitura (come i negozi di alimentari) o della disoccupazione senza benefici (come quello a un’adeguata assistenza sanitaria). I lavoratori dipendenti (come me) lavorano da casa e ricevono la propria paga proprio come prima, mentre i Ceo si spostano in jet ed elicotteri privati.
La forza lavoro nella maggior parte del mondo è stata a lungo educata a comportarsi come dei buoni soggetti neoliberisti (il che significa incolpare sé stessi o Dio se qualcosa va storto ma non osare mai insinuare che il capitalismo potrebbe essere il problema). Ma anche i buoni soggetti neoliberisti capiscono che c’è qualcosa di sbagliato nel modo in cui si sta rispondendo a questa pandemia.
La grande domanda è: quanto durerà? Potrebbe durare più di un anno, e più proseguirà più andrà avanti la svalutazione, compresa quella della forza-lavoro. I livelli di disoccupazione, in assenza di massicci interventi statali che dovranno andare contro la corrente neoliberista, quasi certamente saliranno a livelli comparabili agli anni Trenta.
Le conseguenze immediate per l’economia e per la vita quotidiana sociale saranno molteplici. Ma tutte negative. Nella misura in cui il consumismo contemporaneo stava diventando eccessivo, stava rasentando ciò che Marx descriveva come «consumo eccessivo e folle, che sta indicare a sua volta il mostruoso e bizzarro crollo» dell’intero sistema.
La scelleratezza di questo sovra-consumo ha avuto un ruolo importante nel degrado ambientale. La cancellazione dei voli delle compagnie aeree e la riduzione radicale dei trasporti e dei movimenti hanno avuto conseguenze positive nelle emissioni di gas a effetto serra.
La qualità dell’aria a Wuhan è molto migliorata, come anche in molte città degli Stati uniti. I siti di ecoturismo avranno il tempo per riprendersi. I cigni sono tornati ai canali di Venezia. Nella misura in cui il gusto per il consumo eccessivo e sconsiderato è ridotto, ci potrebbero essere alcuni benefici a lungo termine. Meno morti sull’Everest potrebbero essere una buona cosa.
E mentre nessuno lo dice ad alta voce, il pregiudizio demografico del virus potrebbe finire per colpire le fasce di età più alte con effetti a lungo termine sugli oneri di sicurezza sociale e sul futuro dell’«industria della cura». La vita quotidiana rallenterà e, per alcune persone, sarà una benedizione. Le regole suggerite di distanziamento sociale potrebbero, se l’emergenza dura abbastanza a lungo, portare a cambiamenti culturali. L’unica forma di consumismo che quasi sicuramente trarrà beneficio è quella che io chiamo «l’economia Netflix», che si rivolge comunque ai tele-dipendenti.
Sul fronte economico, le risposte sono state condizionate dal modo in cui abbiamo affrontato il crollo del 2007-2008. Ciò ha comportato una politica monetaria ultra-rapida unita al salvataggio delle banche, integrato da un drammatico aumento dei consumi produttivi e da una massiccia espansione degli investimenti infrastrutturali in Cina.
Questo schema però non può essere ripetuto sulla scala attuale. I pacchetti di salvataggio istituiti nel 2008 si concentravano sulle banche, ma comportavano anche la nazionalizzazione di fatto di General Motors. È forse significativo il fatto che, nonostante il malcontento dei lavoratori e il crollo della domanda, le tre grandi case automobilistiche di Detroit stiano chiudendo i battenti, almeno temporaneamente.
Se la Cina non può giocare ancora il ruolo che ha avuto nel periodo 2007-2018, l’onere di uscire dall’attuale crisi economica si sposta negli Stati uniti. E qui sta l’ironia finale: le uniche politiche che funzioneranno, sia economicamente che politicamente, sono molto più socialiste di tutto ciò che Bernie Sanders potrebbe proporre e questi programmi di salvataggio dovranno essere avviati sotto l’egida di Donald Trump, presumibilmente sotto la maschera di Making America Great Again.
Quei repubblicani che si sono opposti così visceralmente al salvataggio del 2008 dovranno fare buon viso a cattivo gioco o sfidare Donald Trump. Quest’ultimo, se sarà saggio, annullerà le elezioni in caso di emergenza e proclamerà l’inizio di una presidenza imperiale per salvare capitale e il mondo da «rivolte e rivoluzioni».
* David Harvey è professore di antropologia e geografia al Graduate Center of the City University of New York. Il suo ultimo libro è The Ways of the World.
* Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è di Giuliano Santoro.
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