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Renmimbi: un secolo di cambiamenti (Seconda Parte)

Di seguito pubblichiamo la seconda parte della traduzione di un articolo scritto a più mani da ricercatori/trici cinesi pubblicato sulla storica rivista della sinistra anti-imperialista nord-americana: “Monthly Review” il 1 Novembre 2018.

La prima parte forniva un’interessante panoramica sui (fallimentari) tentativi di costituzione di una sovranità monetaria da parte dei governi pre-rivoluzionari e, successivamente, sul lungo periodo di “accumulazione primitiva” della Cina post-1949, in cui la moneta non ha svolto un ruolo significativo.

In questa seconda parte gli autori affrontano il periodo di finanziarizzazione della Cina, fino ad arrivare alle cruciali sfide strategiche che la Repubblica Popolare si trova oggi ad affrontare.

Vi sono numerosi aspetti di questo articolo che, oltre ad essere fondamentali per la comprensione delle diverse mosse nello scacchiere dall’Asia-Pacifico, risuonano direttamente con quello che succede da questa parte del mondo.

Di particolare importanza l’individuazione da parte degli autori della sovranità monetaria come elemento fondamentale per preservare la sovranità economica di un paese, intesa (anche) come capacità di intervenire a livello macro-economico per affrontare una crisi.

Una parte delle difficoltà dei paesi europei mediterranei a reagire alle crisi della seconda decade del ventunesimo secolo derivano certamente dall’aver ceduto le prerogative delle politiche monetarie ad istituzioni europee, che non solo non hanno svolto il ruolo di scudo dalla speculazione finanziaria internazionale, ma che anzi l’hanno utilizzata come spauracchio per imporre pesanti ristrutturazioni produttive e sociali nei paesi in crisi, a tutto vantaggio del capitale in generale, e di quello nord-europeo in particolare.

Viene ribadita nell’articolo in numerosi passaggi l’importanza della dimensione monetaria nella competizione internazionale fra macro-blocchi all’epoca della globalizzazione finanziaria. Citando direttamente dal testo: “Nell’era della globalizzazione finanziaria, non importa se si tratti del governo degli Stati Uniti o di quello cinese, qualunque paese riesca ad espandere la propria credibilità (valutaria e di solvibilità del debito pubblico) è il vincitore.”

Gli autori individuano addirittura nella incompleta monetizzazione dell’Unione Sovietica una delle cause della debolezza relativa che ne ha portato alla dissoluzione, e sicuramente la condizione che ha permesso il saccheggio da parte del capitale internazionale del suo patrimonio, sia produttivo che personale, dopo l’89.

Allo stesso tempo individuano, correttamente, nel dollaro e nel suo ruolo di valuta globale sostenuta nella sua credibilità dalla potenza militare statunitense, una delle armi più formidabili in mano all’imperialismo USA.

La possibilità di finanziare il proprio debito (sia pubblico che privato) a bassissimo costo senza incorrere nel rischio di inflazione rappresenta sicuramente un vantaggio strategico, ma ancor di più lo è la possibilità di influenzare i prezzi delle materie prime scambiate in dollari per creare le condizioni adatte al saccheggio delle risorse e delle capacità produttive di una nazione da parte del capitale occidentale.

D’altronde gli USA hanno difeso questo privilegio anche con la forza nel corso degli anni, basti vedere quello che è successo in Iraq e in Libia, due paesi che avevano entrambi dichiarato la loro intenzione di ridurre la loro dipendenza dal dollaro, come ricordato nell’articolo.

La volontà della Repubblica Popolare di rendersi progressivamente meno dipendente dal dollaro e la conseguente internazionalizzazione del renminbi come valuta entrerà sicuramente in conflitto con gli obiettivi strategici statunitensi in Asia e nel Pacifico, ma non solo.

Come questo conflitto si declinerà diventerà uno dei nodi cruciali dei prossimi decenni.

Gli autori procedono nell’articolo ad una dettagliata descrizione dei vari passi intrapresi dagli anni 90 fino alla delicata situazione di passaggio attuale.

La monetizzazione della Cina inizia nel 1992 con l’abolizione del sistema dei “buoni” che precedentemente regolava i consumi, e marcia per i primi dieci anni a ritmi serrati, molto più veloci della comunque impressionante crescita del PIL nello stesso periodo.

Questo processo, un tassello fondamentale della decisione del PCC al suo XIV Congresso di costruire un’ ”economia socialista di mercato”, comporta allo stesso tempo grandi benefici e grandi costi.

Gli enormi ricavi da signoraggio, permessi dall’isolamento monetario all’epoca, furono fondamentali nella stabilizzazione della Repubblica Popolare negli anni 90.

Allo stesso tempo questa rapida finanziarizzazione ha avuto dei costi istituzionali significativi. Innanzitutto ha comportato un aumento importante delle diseguaglianze tra attori e territori meglio piazzati nel ricavarne i benefici e il resto del paese: quindi le città rispetto alle campagne, le zone costiere rispetto all’entroterra, l’industria rispetto all’agricoltura. Inoltre ha portato alla creazione di blocchi monopolistici di capitale finanziario, con tutto quello che ciò può comportare per i rapporti di forza interni.

Inoltre, questa prima fase della finanziarizzazione cinese, a causa della struttura di incentivi operanti, era caratterizzata da una grandissima quota di “titoli spazzatura”, che arrivava addirittura ad oltre il 20% del totale dell’intero sistema finanziario.

Illuminante il paragone che gli autori fanno fra la situazione del sistema finanziario cinese alla fine degli anni ’90 e Lehman Brothers nel 2008, che possedeva una percentuale di “bad assets” inferiore al 20%. Se quest’ultima fallì mentre il settore bancario cinese non lo fece e anzi si sviluppò, fino a dar vita ad alcune delle banche più grandi del mondo, è dovuto al fatto che all’epoca non era soggetto alle regole del libero mercato, collocato in un sistema internazionale di libero scambio di valute, ed era ancora significativamente legato al sistema fiscale centrale.

Per la stessa ragione la Cina attraversò con relativa solidità le numerose crisi finanziarie che si sono succedute nelle ultime decadi.

Oggi la Repubblica Popolare si trova di fronte ad uno snodo cruciale. Il modello di sviluppo che ha portato avanti negli ultimi 30 anni, dicono gli autori, si trova ad un punto morto: la reddittività del settore industriale è sempre più bassa (per un’analisi del calo di reddittività dell’industria cinese di lungo periodo vedere) e c’è necessità di trovare uno sbocco per la capacità produttiva e per l’enorme mole di capitale finanziario inattivo.

Le pressioni interne per una internazionalizzazione del renminbi sono quindi sempre più forti, e in questo contesto bisogna leggere le graduali aperture ad una determinazione del tasso di cambio più influenzata dalle forze del mercato avviate nell’estate del 2015, come anche l’inclusione del renminbi nel paniere di valute di riferimento del FMI.

Una strada, quella dell’affermazione del renminbi come una valuta globale, che però è costellata di ostacoli e pericoli.

Intanto, come dicevamo prima, si sta scontrando con la determinazione degli USA di mantenere l’egemonia del dollaro in Asia. In quest’ottica bisogna leggere la costituzione da parte degli americani del Parternariato Trans-Pacifico, che esclude la Cina.

A questo tentativo di contenimento la Repubblica Popolare ha risposto con la Belt and Road Initiative, la Asian Infrastructure Investment Bank e la New Development Bank dei paesi BRICS, tra i cui obiettivi vi è quello di creare un bacino di utilizzo del renminbi.

Vale la pena di sottolineare come la maggior parte dei progetti si fondi su accordi di scambio bilaterali e regionali, si può quindi dire che “Il primo passo per l’internazionalizzazione del renminbi è regionale piuttosto che globale” (su aspetti specifici dei progetti di integrazione-espansione cinesi vedi anche https://contropiano.org/news/internazionale-news/2020/04/14/cina-pianificazione-politica-della-potenza-economica-0126767).

In secondo luogo, l’ascesa del renminbi senza le possibilità di sfogo data dal non essere (ancora) una valuta globale, unito alla crescente domanda di strumenti finanziari derivante dai progetti infrastrutturali internazionali, non può che portare ad una grande espansione del sistema finanziario interno cinese.

Lo “scenario multilaterale” determinato dall’interazione di tre potenti gruppi di interesse – settori industriali cinesi, settori finanziari cinesi e capitale finanziario internazionale – può generare dei problemi nella strategia di lungo periodo del PCC.

Naturalmente, queste considerazioni, fatte nel 2018, potranno essere messe seriamente in discussione, vista la situazione globale creatasi con la pandemia di Covid-19, che mentre scriviamo è ancora in svolgimento.

Concludiamo questa introduzione sottolineando un ultimo passaggio di questo denso articolo che merita una menzione.

Anche a fronte delle previsioni di crescita del peso della regione (stime dicono che nel 2030 la regione dell’Asia-Pacifico rappresenterà il 40% del PIL mondiale e i due terzi della classe media), e per sottrarsi all’egemonia del dollaro statunitense, gli autori ritengono che sarebbe nell’interesse di lungo periodo dell’Asia la costituzione di una zona di alleanza valutaria e accordi commerciali tra i principali paesi dell’area, fondata su uguaglianza e complementarità.

Una proposta simile è quella avanzata dalla Rete dei Comunisti di un’Alba-Euromediterranea, capace di sganciarsi tanto dal dollaro quanto dall’euro e portare avanti politiche nell’interesse delle classi popolari emancipandosi da quella che gli autori di questo articolo chiamano “la tirannia della finanza monopolistica” , ed è interessante vedere come il dibattito su una differente integrazione regionale con caratteristiche simili prende piede in differenti contesti e latitudini.

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Renminbi: un secolo di cambiamenti (Parte Seconda)

Sit Tsui, Qiu Jiansheng, Yan Xiaohui, Erebus Wong e Wen Tiejun

Monthly Review, Volume 70, Issue 06, November 2018

La strada verso la monetizzazione

La vera monetizzazione iniziò in Cina nel 1992, obbligata dalle difficoltà fiscali. Negli anni ’80, dopo il completamento dell’accumulazione primitiva, il capitale industriale iniziò a crescere e il ritmo dello sviluppo industriale accelerò. A ciò fece seguito una continua crescita dell’occupazione.

Il sostentamento di base non era più un problema. Lo Stato tuttavia permetteva ancora ai residenti urbani (circa il 20% della popolazione totale) di godere pienamente degli stessi sussidi che avevano a disposizione nella fase precedente, quella dell’accumulazione primitiva. Per esempio, i bisogni di un residente di Pechino, dal cibo e l’alloggio all’assistenza sanitaria e ai funerali, erano completamente coperti dai sussidi statali.

Una residenza registrata di un cittadino di Pechino forniva oltre una dozzina di buoni finanziati da vari sussidi. Questi sussidi, a loro volta, permettevano a vari settori governativi e ad imprese affiliate di richiedere stanziamenti dai bilanci fiscali statali, il che comprendeva molti diritti e interessi settoriali.

Nel 1992, lo Stato abolì il sistema dei buoni, tranne che in alcuni villaggi in remote regioni montuose e lungo il confine. Il risultato dell’abolizione dei buoni, fino a quel momento il principale sistema di allocazione delle risorse, fu che la moneta, in quanto rapporto di equivalenza tra le diverse merci, divenne il mezzo di scambio sul mercato.

Così, nel 1992, il renminbi divenne una moneta in senso vero e proprio, recuperando la sua funzione fondamentale di intermediario dello scambio. In altre parole, il 1992 fu il primo anno della monetizzazione cinese.

Nel 1978, tutti i depositi nel sistema bancario cinese arrivavano a soli venti miliardi di yuan e i prestiti a cento miliardi di yuan o più. Nel periodo delle riforme prima del 1992, i depositi e i prestiti bancari annuali ammontavano solo a poche centinaia di miliardi. L’aumento annuale delle attività finanziarie ammontava solo a uno o duecento miliardi di yuan.

Un sistema finanziario di queste dimensioni non era affatto significativo. Eppure, dopo il 1992, primo anno della monetizzazione, la crescita dell’offerta di moneta subì un’improvvisa impennata. La crescita annuale degli aggregati monetari M2, M1, e M0 superava di più del doppio la crescita del Prodotto Interno Lordo. Da allora, l’offerta di moneta divenne un cavallo selvaggio in fuga: impossibile da frenare.

La Cina entrò in un’era di monetizzazione ad alta velocità. Nel 1998, la Cina affrontò la crisi finanziaria dell’Asia orientale ed essa stessa si trovò sull’orlo di una crisi. A quel tempo, il sistema finanziario aveva già raggiunto migliaia di miliardi di yuan.

In un breve periodo di trent’anni, l’espansione delle attività finanziarie fu incredibile, di fatto decuplicando di magnitudine ogni dieci anni: negli anni Settanta era di cento miliardi, negli anni Ottanta divenne mille miliardi, dopo gli anni Novanta era diecimila miliardi, e nel primo decennio del ventunesimo secolo era di centomila miliardi.

Questo fu il notevole cambiamento dopo la monetizzazione in Cina, con il renminbi come strumento.

È degno di nota il fatto che la riforma della monetizzazione nel 1992 coincise con e si integrò nell’”economia socialista di mercato” come proposto al XIV Congresso del Comitato Centrale del PCC. Da quel momento, l’offerta di moneta è aumentata su larga scala per facilitare gli scambi di mercato.

Il governo si sforzò di trasformare quelle risorse che prima non erano destinate alle transazioni monetarie in attività che potevano essere liquidate in contanti. Il governo spinse fortemente per la commercializzazione di abitazioni, istruzione, servizi medici e così via. L’economia e persino la vita sociale divennero completamente monetizzate. Il PIL della Cina conobbe una crescita notevole, e il principio per cui si debba guardare al denaro per qualunque cosa divenne generalmente accettato nella società cinese.

Il governo accelerò la monetizzazione, convertendo le attività fisiche in attività finanziarie che potevano essere scambiate contro denaro. Di conseguenza, la ricchezza totale del Paese si espanse in modo sostanziale, via via che diventava contabilizzabile in termini monetari.

Alla fine degli anni Novanta, il valore dei beni materiali della Cina aveva già raggiunto una magnitudine di centomila miliardi. Il renminbi svolse un ruolo fondamentale in questo processo.

Lezioni dalla disintegrazione dell’Unione Sovietica

L’Unione Sovietica aveva dato priorità alle riforme politiche. Quando il sistema venne meno, crollò anche il sistema monetario su cui si basava. I risparmi di tutta la vita del popolo russo scomparvero da un giorno all’altro. Le risorse, l’economia e la ricchezza tangibile dell’intera nazione furono saccheggiate attraverso una rapida monetizzazione grazie al rapido afflusso di capitali finanziari stranieri, che si appropriarono di gran parte dei profitti istituzionali attraverso la Tobin tax.

Il costo istituzionale di aver dato priorità alle riforme politiche è stato il collasso totale del sistema monetario della nazione, e la quasi totale distruzione della ricchezza della popolazione, accumulata da generazioni.

La lezione dell’ex Unione Sovietica è che se l’economia complessiva della nazione non è monetizzata, allora, anche se vanta un Prodotto Nazionale Lordo competitivo e la sua economia fisica o produzione manifatturiera ha guidato il mondo, non può ancora reggere il confronto con l’Occidente in termini di PIL.

I politici e i riformatori, sotto l’incantesimo del soft power della Guerra Fredda, credevano che fosse un problema di un sistema politico nazionale inferiore. Tuttavia, il problema più grande era semplicemente che l’Unione Sovietica era rimasta nella fase dell’economia fisica del capitalismo industriale e non era passata alla monetizzazione (finanziarizzazione).

In confronto, la Cina diede il via al suo rapido processo di monetizzazione nel 1992, dopo aver imparato la lezione dalla disintegrazione dell’Unione Sovietica: aumentando l’offerta di moneta su larga scala per monetizzare i beni fisici del paese, il governo poteva ricevere un’enorme signoraggio nel processo.

Come risultato, il PIL crebbe improvvisamente, tanto che, nel giro di pochi anni, i politici occidentali passarono dal discorso del “crollo della Cina” a quello della “minaccia cinese”. Questo proprio perché la monetizzazione della Cina aveva facilitato la “mercatizzazione” (inteso come tendenza a conformarsi alle regole dell’economia di mercato, ndr).

Se non ci fosse stata un’espansione dell’offerta monetaria per portare altri fattori fisici nell’economia di mercato, non sarebbe stato possibile raggiungere quella crescita miracolosa.

La Cina iniziò a monetizzare rapidamente la sua economia negli anni ’90 e affrontò una crisi del debito ancora più grave, ma riuscì a superarla senza grandi danni. Questo perché il processo di rapida monetizzazione generò enormi ricavi istituzionali. Dato che la moneta nazionale era ancora isolata dall’estero, la Cina poté beneficiare di tutti i guadagni istituzionali della monetizzazione sovrana – questo fu il contributo storico del renminbi negli anni Novanta.

Anche per questo motivo la Cina continuò a insistere per isolare il renminbi dai mercati esterni, anche se fu costantemente rimproverata dagli Stati Uniti e da altri Paesi occidentali per aver manipolato i tassi di cambio e fu sottoposta a continue pressioni per aprire la sua moneta sovrana al libero scambio. Questo principio economico era attribuibile proprio alla significativa esperienza degli anni Novanta.

Tuttavia, la monetizzazione aveva anche portato ad un importante cambiamento nella struttura degli interessi della Cina – l’ascesa di blocchi monopolistici di capitale finanziario. La Cina è un’economia continentale massiccia e la sua domanda di credito è altrettanto enorme. Così, con l’accelerazione della monetizzazione emerse un grande sistema bancario. Questo gigantesco blocco finanziario controllato dallo Stato rappresentava oltre il 70% del totale dei fondi di capitale del Paese.

Tuttavia, la fase iniziale della monetizzazione della Cina era stata, in larga misura, dominata dai governi locali. Guardando all’intera esperienza degli anni Novanta, i governi locali si erano tutti sforzati di aumentare il PIL locale utilizzando le rispettive capacità e impiegando ogni tipo di trucchi.

Possiamo parlare di questo decennio come di un periodo in cui i governi locali erano in competizione tra loro come fossero imprese, attirando investimenti, mentre il governo centrale si assumeva tutti i rischi. In questa feroce competizione, il vantaggio delle regioni costiere divenne presto evidente.

A partire dagli anni ’50, l’assetto industriale complessivo del paese fece sì che le risorse fisiche si concentrassero per lo più nelle regioni costiere. Quando i beni fisici furono monetizzati dopo il 1992, la crescita fu ovviamente molto più elevata nelle regioni costiere rispetto all’entroterra. La disuguaglianza di dotazione di capitale e di rendimento del capitale si ampliò rapidamente.

Nel frattempo, anche la disparità tra le regioni urbane e quelle rurali si espanse rapidamente. Questo perché, nelle condizioni di un’economia contadina diffusa, l’agricoltura faceva generalmente parte dell’”economia naturale” (in cui si scambiano prevalentemente valori d’uso, ndr), con un grado di monetizzazione molto basso.

Il problema del basso livello di reddito dei contadini, rispetto ai residenti urbani, divenne più acuto. Non si trattava di un problema di distribuzione degli introiti istituzionali della monetizzazione: lo Stato non aveva piani al riguardo, né arrangiamenti istituzionali né aggiustamenti attraverso politiche. Di conseguenza, la disparità regionale, la disparità tra zone urbane/rurali, la disparità industria/agricoltura, così come la disparità ricchi/poveri, crebbero rapidamente durante gli anni Novanta. Anche il coefficiente di Gini aumentò notevolmente in questo periodo.

Tutto questo ha fatto parte del processo di trasformazione del paese da un’economia non monetizzata a un’economia monetizzata.

Il costo della monetizzazione della Cina negli anni ’90

Tutti i guadagni istituzionali implicano un corrispondente costo istituzionale. Il costo di questa monetizzazione all’inizio degli anni ’90 per la Cina fu rappresentato dalle tre aree principali di disuguaglianze sopra menzionate: il controllo dei governi locali sulla monetizzazione dei beni e delle risorse locali, le differenze nella scala del capitale industriale tra le regioni e la disparità regionale nelle condizioni delle risorse.

Un costo ancora più pesante fu il fatto che, poiché il governo centrale dovette assumersi tutti i rischi finanziari, i governi locali, nel perseguire gli investimenti per guidare la crescita, non considerarono la misura in cui i “bad assets” si sarebbero accumulati in un sistema finanziario monopolistico e controllato dallo Stato.

Alla fine degli anni ’90, la quota di attività in sofferenza nel sistema finanziario statale superava generalmente il 20 per cento, e arrivava persino al 30 per cento in alcuni settori finanziari. Se ciò si fosse verificato in paesi le cui valute potevano essere scambiate liberamente e dove il sistema bancario fosse soggetto al libero mercato, una entità finanziaria in queste condizioni non avrebbe potuto che fallire, come è stato nel caso di Lehman Brothers.

Infatti, al momento del fallimento di Lehman Brothers nel 2008, la sua percentuale di attività in sofferenza non era tanto alta quanto quella del settore bancario cinese alla fine degli anni Novanta. Eppure, Lehman Brothers fallì, mentre il settore bancario cinese non lo fece. Infatti, non solo il settore bancario cinese rimase solvibile e intatto, ma si sviluppò addirittura fino a dare vita ad alcune delle banche più importanti del mondo nel ventunesimo secolo.

La ragione di ciò fu che all’epoca il settore fiscale e quello bancario non erano completamente separati. Solo nel 1997, durante la crisi finanziaria dell’Asia orientale, l’allora premier Zhu Rongji iniziò a separare completamente la funzione fiscale statale dall’industria finanziaria, per evitare che il sistema fiscale centrale venisse dirottato da governi locali avventati.

Inoltre, l’allora Presidente Jiang Zemin sostenne questa mossa e depose il capo municipale di Pechino Chen Xitong, che guidò l’opposizione contro la macro-regolamentazione. Solo allora il governo centrale poté portare avanti la riforma sulla commercializzazione delle banche per consentire alle banche di diventare indipendenti a tutti i livelli dalla funzione fiscale locale.

Ovviamente, il settore finanziario di proprietà dello Stato non poteva separarsi completamente dal sistema fiscale del governo centrale, perché grandi quantità di “bad assets” che erano state abbandonate dalle banche richiedevano finanziamenti da parte del governo centrale. A tal fine, il Consiglio di Stato istituì la società d’investimento Central Huijin Investment per convertire le riserve in valuta estera in investimenti di capitale nelle banche statali.

Prima di ciò, il bilancio fiscale centrale aveva anche messo insieme una parte dei fondi di capitale per le banche. In questo modo, il sistema finanziario sotto forma di banche commerciali era in grado di funzionare in modo indipendente.

Questa mercatizzazione finanziaria – commercializzazione del sistema bancario di proprietà statale – è durata circa cinque anni, dal 1998 al 2003. Sebbene avesse conseguito la centralizzazione del potere bancario, nonché la separazione del settore bancario dal sistema fiscale locale, il sistema bancario era ancora strettamente legato alla capacità fiscale centrale e alla riserva di valuta estera del governo centrale (settori finanziari sotto il controllo del governo centrale).

Di conseguenza, la Cina aveva un gigantesco settore finanziario monopolistico, in cui molte banche si collocavano tra le più grandi al mondo, cosa che era in linea con la tendenza generale della finanziarizzazione globale, dove la grande finanza monopolistica raccoglieva la maggior parte dei profitti.

Globalizzazione finanziaria

Nel periodo tra il 1998 e il 2003, la Cina completò la sua riforma della commercializzazione bancaria, che coincise con la globalizzazione finanziaria. Il settore finanziario cinese affrontò quindi le ripercussioni della serie di disastri finanziari globali dell’inizio del ventunesimo secolo: dal 1997, dopo la tempesta finanziaria dell’Asia orientale, si susseguirono crisi finanziarie in Russia, America Latina, New York, Spagna, Grecia, Irlanda e nel resto d’Europa.

Queste crisi finanziarie si sono verificate nel contesto della globalizzazione finanziaria. Alle nazioni in crisi fu richiesto di rinunciare alla sovranità economica fondamentale, che comporta una credibilità valutaria basata sul potere politico di monetizzare le risorse e gli asset di un Paese.

Privando altre nazioni della loro sovranità economica, i paesi potenti possono monetizzare risorse e beni fisici in tutto il mondo attraverso le loro valute forti. La forza del dollaro americano è stata invincibile per il fatto di avere alle spalle il potere militare statunitense, e solo poche nazioni non hanno voluto sottomettersi ad esso. Questi paesi sono diventati da allora i nemici della globalizzazione finanziaria.

Quando le nazioni diventano parte della globalizzazione finanziaria, significa che rinunciano alla sovranità monetaria, che è un aspetto fondamentale della loro sovranità economica, e, quindi significa rinunciare alla loro capacità di regolare la loro macroeconomia per rispondere alle crisi.

Nel capitalismo finanziario, una nazione deve coordinare tutto il suo potere per assicurare la sovranità monetaria, perché il governo deve fare affidamento sull’autorità politica per espandere il credito in due direzioni: da un lato, c’è la credibilità valutaria, con la quale si può espandere l’offerta di moneta in grande quantità, e, dall’altro, c’è la credibilità del debito, che permette di aumentare il debito nazionale di un grande ammontare.

Nell’era della globalizzazione finanziaria, non importa se si tratti del governo degli Stati Uniti o di quello cinese, qualunque paese riesca ad espandere la propria credibilità è il vincitore.

Naturalmente, rimangono una serie di complicate questioni. Una di queste è che una grande quantità di creazione di credito avrebbe un impatto al di là della nazione stessa. Per esempio, il dollaro americano è una valuta mondiale. La riserva di dollari USA costituisce il 70 per cento della riserva mondiale di valuta estera. Pertanto, il dollaro americano può procedere con la sua espansione globale.

L’espansione astronomica dell’offerta di moneta negli Stati Uniti non ha indotto un’iperinflazione nella sua economia. Allora dove va a finire la grande quantità di dollari americani in più?

Oltre all’aumento delle riserve di valuta estera in vari paesi, almeno il 60% di questi dollari sono confluiti nei mercati mondiali dei futures, come le materie prime, l’energia, i cereali di base e così via. Di conseguenza, i prezzi dei cereali, delle materie prime e del petrolio fluttuano vertiginosamente. Ad ogni impennata ci sono centinaia di miliardi di dollari in più, e ad ogni crollo centinaia di miliardi di dollari svaniscono, come se fossero immessi in un inceneritore monetario.

Simboli elettronici del valore di centinaia, anche migliaia di miliardi vengono creati dal nulla, per poi scomparire nel vuoto, poiché questi simboli monetari non rappresentano una vera ricchezza, ma sono solo simboli di credito evocati dall’autorità politica. Il valore virtuale di questi simboli potrebbe essere alto o basso, e l’autorità potrebbe rilasciare la valuta o ritirarla. Pertanto, ogni declino su larga scala del mercato finanziario serve a consumare una parte di questo enorme credito supplementare creato.

Gli Stati Uniti eccellono in questo gioco di strategia monetaria. Senza ricorrere alla forza militare, e contando semplicemente su un potere morbido e astuto, il paese ha, di volta in volta, provocato l’inflazione nei settori dell’energia, delle materie prime e del cibo.

Le nazioni che importano queste materie prime su larga scala devono quindi importare l’inflazione allo stesso tempo. Se questi paesi si affidano a un’industria manifatturiera comune a bassa redditività marginale, le loro economie vengono colpite duramente, con il risultato di un’elevata disoccupazione, instabilità monetaria e persino nei regimi politici.

Quello che segue è quindi un afflusso senza ostacoli di capitali statunitensi, che monetizza ciò che rimane di quelle nazioni, tanto le risorse quanto la capacità produttiva. I profitti della monetizzazione vengono poi spazzati via, lasciando dietro di sé rovina economica e turbolenze politiche, quella che noi chiamiamo “la tirannia della finanza monopolistica”. Nazioni in tutto il mondo hanno perso a questo gioco di strategia monetaria.

In questo momento, la Russia sta cercando di rompere le regole del gioco. Il presidente russo ha rinazionalizzato le più grandi risorse di petrolio e gas del paese, poi ha approfittato dell’impennata dei prezzi del mercato energetico manipolato dagli Stati Uniti. L’extra-profitto viene utilizzato per migliorare il benessere delle persone e si inserisce nel più ampio gioco strategico della Russia.

Naturalmente, questo ha anche portato a uno scontro geopolitico tra gli Stati Uniti e la Russia. Casi simili includono il Venezuela, l’Iran, così come, in passato, l’Iraq e la Libia. Ad esempio, dopo il lancio dell’euro, l’Iraq ha annunciato che non avrebbe più utilizzato il dollaro statunitense per il commercio petrolifero. Questo implicava che decine di miliardi di dollari sarebbero stati venduti sul mercato internazionale, dando inevitabilmente inizio ad un effetto domino. L’Iraq fu quindi invaso dalle forze militari statunitensi e il suo governante fu portato al patibolo.

L’ex presidente libico non solo nazionalizzò le sue risorse petrolifere dopo esser salito al potere, utilizzando la grande quantità di entrate petrolifere per costruire uno stato sociale (la Libia era un tempo conosciuta come la Svizzera del Medio Oriente), ma osò persino annunciare l’abbandono del dollaro statunitense e dell’euro per la liquidazione del commercio petrolifero sotto l’attacco di continue crisi finanziarie.

Si figurava l’oro come mezzo di compensazione del commercio petrolifero. Come previsto, la Libia alla fine è stata vittima di una guerra per procura. Dopo la sconfitta militare e l’esecuzione del presidente senza processo, si è detto che la Libia è stata liberata ed è tornata ad essere una società tribale. Le sue risorse petrolifere erano già state divise dalle compagnie transnazionali delle nazioni straniere che avevano aderito alla guerra.

Oggi il potere della moneta si è già trasformato in una “potenza alienata” indipendente da altre sfere. Questo potere alienato, con un legame diretto e intimo con il potere politico, è diventato il potere dominante della globalizzazione finanziaria e continuerà a portare a una profonda e fondamentale ristrutturazione globale.

Se questo cambiamento strutturale non viene adeguatamente considerato, se ci limitiamo ancora al discorso del capitalismo industriale e ai dibattiti obsoleti sulla riforma istituzionale, allora non possiamo capire la globalizzazione finanziaria del ventunesimo secolo – la creazione su larga scala di offerta di moneta attraverso il credito, e l’espansione del debito pubblico. Si sta delineando un panorama fondamentalmente nuovo di concorrenza tra le nazioni.

La Cina è ancora oggi in grado di rimanere su un terreno relativamente solido nonostante l’agguerrita concorrenza internazionale. La ragione di ciò non è altro che ciò che abbiamo costantemente sottolineato: la sovranità monetaria è un aspetto fondamentale della sovranità economica.

I leader cinesi hanno continuato a promettere di liberalizzare il renminbi in futuro, ma non si sono impegnati a rispettare una tabella di marcia. Allo stesso tempo, la politica fiscale, il sistema finanziario e la gestione dei cambi della Cina sono ancora sotto il suo controllo. Il governo cinese detiene ancora l’autonomia macroeconomica nell’era del capitalismo finanziario.

È ora il momento chiave della scelta strategica: se la Cina deve seguire le orme dell’Occidente nel perseguire il capitalismo finanziario, allora è necessario che liberalizzi e deregolamenti totalmente il suo mercato finanziario-derivativo a causa della pressione dell’eccesso di liquidità, e che entri nella competizione della capitalizzazione globale. Tuttavia, questa strada si è rivelata infruttuosa per le grandi nazioni che hanno sperimentato le bolle e i crash nelle loro economie virtuali.

Se la Cina deve correggere l’alienazione del capitale finanziario, reintegrandosi nel capitale industriale, allora è necessario rafforzare la mano dello Stato. All’esterno, deve impedire il trasferimento dei costi dalla globalizzazione finanziaria e, all’interno, deve rafforzare la macro-regolamentazione e riequilibrare i suoi diversi settori.

Inoltre, quale dev’essere la manifesta funzione pratica del renminbi nel suo prossimo passo verso l’internazionalizzazione? I leader cinesi impareranno in maniera proattiva la lezione dalla politica di “accomodamento” (appeasement, il tentativo, fallimentare, di contenere le mire espansionistiche di Hitler assecondandolo al fine di evitare il conflitto, ndr) in Occidente negli anni ’40, quando il capitalismo industriale divenne fascista? In che modo la Cina dovrebbe usare il renminbi per facilitare l’acquisizione di una posizione proattiva e competitiva nel contesto della globalizzazione finanziaria?

Queste sono domande urgenti per la Cina nella costruzione di una nuova strategia valutaria.

Internazionalizzazione del Renminbi

La modalità di sviluppo della Cina degli ultimi trent’anni è giunta a un punto morto. La redditività dell’industria manifatturiera generale è diminuita, arrivando addirittura a zero. Nel frattempo, nel mercato dei capitali si è accumulata un’enorme quantità di liquidità. I blocchi di interesse nel settore finanziario sono diventati sempre più influenti, spingendo per una più profonda finanziarizzazione e internazionalizzazione del renminbi.

In effetti, l’intento di internazionalizzare il renminbi è spinto dalla necessità di esportare il capitale finanziario in eccesso.

Con la Cina che rappresenta una quota crescente dell’economia globale e con l’Asia che sta diventando la regione con il più alto potenziale di sviluppo, sarebbe nell’interesse di lungo periodo dell’Asia che Cina, Giappone, Corea e i paesi ASEAN si integrassero in una zona di libero scambio basata su uguaglianza e complementarità, nonché di formare un’alleanza valutaria asiatica.

Ciò significherebbe un inevitabile declino del dominio del dollaro USA in Asia e, a sua volta, un impatto negativo sulla essenziale strategia della geo-moneta degli Stati Uniti. Per proteggere l’egemonia del dollaro, negli ultimi anni gli Stati Uniti sono tornati a influenzare l’Asia attraverso la loro strategia di alto profilo “Riequilibrio di Asia-Pacifico” (Asia-Pacific Rebalance).

Inoltre, prima che Trump salisse al potere, gli Stati Uniti avevano spinto attivamente per il Partenariato Trans-Pacifico, che escludeva la Cina. Questi sforzi significano garantire il futuro degli Stati Uniti e il mantenimento dell’enorme bacino di dollari in Asia-Pacifico.

Come risposta, l’iniziativa cinese Belt and Road Initiative e la Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB) sono destinate a rompere il contenimento dell’Alleanza Stati Uniti-Pacifico, utilizzando la vasta profondità continentale della nazione e le lunghe frontiere continentali-oceaniche per creare un bacino di renminbi sul megacontinente eurasiatico-africano [14].

 

Il doppio orientamento nell’internazionalizzazione del Renminbi

Facendo un confronto, la difficile situazione dell’ascesa del renminbi è praticamente identica a quella dell’euro. Qualunque valuta regionale in ascesa faccia un passo avanti e diventi una valuta globale, inevitabilmente, intenzionalmente o meno, metterebbe in discussione la posizione del dollaro statunitense. Eppure, pur essendo ancora in fase di sviluppo, la valuta in questione non avrebbe il vantaggio del dollaro, che è la capacità di trarre profitto dal mondo intero.

Tutto ciò che potrebbe fare è accelerare l’intensificazione della finanziarizzazione interna per sostenere la redditività del capitale finanziario attraverso la compressione interna al fine di garantire, a sua volta, il valore delle attività finanziarie basate su quella valuta. Quindi, più gli interessi finanziari sono internazionalizzati, più l’economia nazionale si finanziarizza.

In poche parole, ci sono due diverse serie di obiettivi e interessi nell’internazionalizzazione del renminbi.

In primo luogo, parte dell’obiettivo strategico fondamentale dell’iniziativa Belt and Road è quello di trovare uno sbocco per l’eccessiva capacità produttiva della Cina. Per facilitare questo, ci devono essere accordi istituzionali regionali nella finanza e nel cambio di valuta.

È come l’istituzione del sistema di Bretton Woods dopo la seconda guerra mondiale, che ha facilitato l’esportazione di merci dagli Stati Uniti in tutto il mondo. L’AIIB, il Silk Road Fund, la New Development Bank dei paesi BRICS, e così via, tutte creazioni a guida cinese, sono accordi istituzionali transnazionali finalizzati a questo obiettivo strategico.

Allo stesso tempo, è necessario coordinare tali accordi con l’istituzione di accordi di scambio tra il renminbi e le altre valute regionali, che costituirebbero un sistema di compensazione commerciale non statunitense.

Il primo passo per l’internazionalizzazione del renminbi è regionale piuttosto che globale. Esso si basa sui partenariati strategici multilaterali della Cina, e sulla creazione di un bacino regionale per il renminbi.

In secondo luogo, è inevitabile che l’internazionalizzazione del renminbi abbia ulteriori implicazioni. I blocchi finanziari in Cina si aspettano di espandere i loro interessi e il loro potere. I progetti infrastrutturali su larga scala e il commercio internazionale richiederebbero, in ogni caso, servizi finanziari complessi come la creazione di credito, il finanziamento e la compensazione.

Il rischio è che gli enormi profitti generati dall’internazionalizzazione del renminbi possano spingere i gruppi finanziari ad espandersi eccessivamente nel tentativo di creare attività finanziarie di qualità basate sul renminbi. La sovra-espansione del settore finanziario può compromettere l’economia reale. All’orizzonte potrebbero profilarsi crisi finanziarie senza precedenti, come la bolla dei subprime negli Stati Uniti e la crisi del debito europeo.

In breve, utilizzare gli strumenti finanziari per far avanzare la strategia nazionale dell’iniziativa Belt and Road e, allo stesso tempo, prevenire efficacemente l’eccessiva ambizione dei blocchi di interesse finanziario è una sfida formidabile.

 

Partecipazione ai Diritti Speciali di Prelievo

La riforma del meccanismo per la fissazione del tasso di cambio del renminbi che ha scosso il mondo l’11 agosto 2015 è stata valutata come una mossa verso un’economia cinese più orientata al mercato. Nel corso dello stesso anno, a novembre, il Fondo Monetario Internazionale (FMI) ha annunciato l’inclusione del renminbi nel paniere valutario del Diritto Speciale di Prelievo (DSP), a partire dall’ottobre 2016.

Il peso del renminbi si colloca al terzo posto (10,92% del paniere dei DSP), dietro al dollaro statunitense (41,73%) e all’euro (30,93%). Tuttavia, il FMI ha sottolineato che la Cina dovrebbe completare la sua mercatizzazione del meccanismo di cambio entro tre anni.

Il DSP è l’unità di valuta internazionale del FMI. Nasce dalla proposta di John Maynard Keynes alla conferenza di Bretton Woods per una valuta internazionale. Idealmente, la sua ponderazione rifletterebbe il peso nel commercio internazionale dei paesi partecipanti. L’idea di Keynes era quella di costruire una valuta internazionale stabile per evitare il predominio di una qualsiasi valuta singola e per evitare squilibri strutturali a lungo termine nel commercio internazionale.

Tuttavia, gli Stati Uniti erano ovviamente contrari all’idea e miravano a costruire l’egemonia del dollaro attraverso il sistema di Bretton Woods.

Dopo la seconda guerra mondiale, il dollaro statunitense divenne la moneta di riserva internazionale indiscussa e la moneta di compensazione. Dalla fine del sistema di Bretton Woods, il tasso di cambio del dollaro statunitense ha fluttuato per servire la strategia geo-monetaria degli Stati Uniti, in funzione della sua situazione economica interna.

Il sistema monetario internazionale è entrato in un’era caotica.

Idealmente, il paniere dei DSP avrebbe dovuto sostituire la moneta unica dominante e svilupparsi in una valuta internazionale stabile, diventando l’unità di compensazione per il commercio internazionale e la valuta di riserva tra le banche centrali. Tuttavia, poiché gli Stati Uniti non sono disposti a rinunciare all’egemonia del dollaro, il DSP attualmente non serve ad alcuno scopo reale e, forse, non potrebbe nemmeno essere considerato una forma di valuta.

Sebbene il FMI abbia assegnato i DSP ai Paesi membri più volte, fino al gennaio 2015 i DSP rappresentavano solo meno del 4% del totale delle riserve valutarie mondiali. Dalla sua inclusione nel DSP, che è stata ampiamente considerata la prima volta che la posizione internazionale del renminbi è stata riconosciuta, non vi è stato un aumento significativo della domanda di renminbi come valuta di riserva. Per la Cina, nel breve periodo, essa ha un significato simbolico piuttosto che un beneficio reale.

È interessante notare che, mentre gli Stati Uniti negli ultimi anni hanno ostacolato e persino represso la Cina negli affari internazionali, hanno sostenuto l’inclusione del renminbi nella DSP. È noto che la Cina ha sempre difeso la sua sovranità valutaria e ha resistito alle pressioni per apprezzare il renminbi, per evitare di deprimere il settore delle esportazioni e, in caso di un grande afflusso di fondi speculativi, per raccogliere profitti attraverso l’hedge trading sul tasso di cambio.

L’inclusione del renminbi nella DSP è un’arma a doppio taglio per la Cina. Rispetto al beneficio a lungo termine, la questione a breve termine di come mantenere la piena sovranità monetaria è ancora più grande. L’inclusione del renminbi nel DSP implica l’accelerazione dell’apertura del conto capitale della Cina, in modo che il capitale internazionale sia libero di entrare e uscire dalla Cina per trarre vantaggio dalla volatilità dei mercati finanziari.

Ciò sarebbe in linea con l’interesse strategico del capitale finanziario transnazionale, alla ricerca di guadagni veloci in tutto il mondo.

Dato che anche il capitale finanziario interno cinese ha interessi nella deregolamentazione del conto capitale, sembrerebbe esserci un complicato scenario multilaterale. Tra i tre gruppi di interesse – i settori industriali nazionali, i settori finanziari nazionali e il capitale finanziario transnazionale – che tipo di relazioni si creerebbero?

Ora, da un lato, il renminbi rappresenta solo l’1,1% della riserva globale [15]. Il patrimonio del renminbi dovrebbe crescere di 330 miliardi di dollari prima di poter raggiungere il livello dello yen giapponese. Dall’altro lato, il commercio d’esportazione della Cina, che viene compensato in renminbi, ha già raggiunto il 26%. Inoltre, con l’aumento dei depositi di renminbi in tutto il mondo, aumenta anche la domanda di prodotti finanziari in renminbi.

Alcuni stimano che entro il 2030 la regione Asia-Pacifico rappresenterà il 40% del PIL globale e i due terzi della classe media mondiale, con la classe media cinese che passerà da trecento milioni a seicento milioni. La Cina, e l’intera regione dell’Asia-Pacifico, avrebbero il più grande mercato di consumo di beni.

A quel punto, il renminbi sarà diventato la principale valuta di commercio e di compensazione nella regione? In caso affermativo, come si risolverà il conflitto tra gli obiettivi strategici cinesi e statunitensi? Questa sarà probabilmente la domanda più cruciale per l’Asia del Pacifico, e anche per il mondo, nel prossimo decennio.

Sulla strada della finanziarizzazione e dell’internazionalizzazione delle valute, dove le crisi si annidano ad ogni angolo, la Cina avrà la fortuna di essere risparmiata?

Note

14) , “One Belt, One Road”: La strategia della Cina per un nuovo ordine finanziario globale” Rassegna mensile 68, n. 8 (gennaio 2017): 36-45.

15) Wolf Richter, “US Dollar Refuses to Die as Top Global Reserve Currency”, Wolf Street, 1 gennaio 2018, http://wolfstreet.com.

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