“Per fermare la guerra, cosa siamo disposti a fare?” É questo il tema dell’incontro pubblico che si tiene sabato 27 maggio a Roma, dalle 10 presso il cinema Aquila (via l’Aquila 66, zona Pigneto).
L’iniziativa è promossa dai firmatari del documento “Fermare la guerra, imporre la pace” che ha raccolto da un mese a questa parte numerose adesioni di figure di spicco del mondo scientifico, accademico, cattolico, giuridico, oltre che delle principali formazioni che si sono battute con parole d’ordine chiare per l’avvio di una soluzione politica all’attuale conflitto Ucraino – come Potere al Popolo e Rifondazione Comunista – , e quella parte del sindacalismo conflittuale, come l’USB, che ha fatto delle parole d’ordine “abbassare le armi, alzare i salari” la propria bandiera.
Da mettere in evidenza che tra i convinti aderenti a tale appello vi siano membri di spicco del Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali, co-promotore di una delle più riuscite manifestazioni contro la guerra il 25 febbraio scorso a Genova, in grado di coniugare parole d’ordine chiare con una partecipazione di massa, e quella parte del mondo pacifista che continua ad essere lo zoccolo duro di una coscienza democratica non avvelenata dalla propaganda bellicista propria della quasi totalità del quadro politico istituzionale: dal PD della Schlein ai “post-fascisti” della Meloni.
Quello del cinema Aquila è il terzo appuntamento pubblico – dopo la conferenza stampa di presentazione due incontri tra le realtà romane e napoletane promotrici – che ha cercato di interloquire a larghissimo raggio con chi ha contenuti convergenti ed ha messo in campo iniziative meritorie a riguardo (vedi i referendum o il boicottaggio nei porti e negli aeroporti, manifestazioni locali), senza fare sconti sui contenuti, in primis ribadendo la propria contrarietà all’invio di armi all’Ucraina ed al coinvolgimento bellico dell’Italia, così come la necessità dello sganciamento dall’economia di guerra con un complesso militare-industriale europeo decisamente dinamico e assetato di soldi e di peso politico.
In questo senso il documento, e le iniziative di raccolta di adesione e di dibattito pubblico che ne sono seguite, ha cercato di mettersi in connessione sentimentale con quella parte maggioritaria del Paese che conferma la contrarietà alla guerra, e che ormai non viene più rappresentata nemmeno nei sondaggi.
Anzi, i risultati di questi sondaggi di opinione vengono ormai manipolati in quella che è una spietata battaglia di disinformazione strategica anche sul fronte interno.
Certamente siamo di fronte ad un primo apparente paradosso: il paese reale è contro la guerra, a differenza di quello legale che la fomenta, ma il combinato disposto contro il movimento contro la guerra e la situazione del conflitto sociale – purtroppo tra i più arretrati in Europa, nonostante l’incessante attività del sindacalismo conflittuale – hanno contribuito a non far fare un salto di qualità alla battaglia per la pace.
Va ricordato che la situazione rispetto al movimento no war non è migliore negli altri paesi, specie in quelli sempre più impegnati nel conflitto, nonostante qualche significativo bagliore in Germania ed in Gran Bretagna.
Su questo bisogna essere chiari: la guerra è un rasoio, e ha fatto sempre da spartiacque nella storia del movimento operaio, dando adito a “tentennamenti” o veri propri tradimenti, quando bisognava denunciare che il nemico peggiore era quello in casa propria, ed agire di conseguenza.
Allo stesso tempo, lo spartiacque bellico nella storia è spesso servito anche ad una rinascita dell’internazionalismo, ad una riconfigurazione delle forze politiche in campo e ad una rottura con l’assetto politico precedente.
In sintesi, per così dire, in questo momento un momento di verifica ed allo stesso tempo di opportunità per la sinistra radicale occidentale, mentre nel resto del mondo sembrano avere le idee più chiare.
Per tornare al documento, una delle sue caratterizzazioni è il suo fare perno sulle due principali proposte di pace – da allora ampliatesi – e dei conseguenti tentativi (tutt’ora in corso) messi in campo dall’attuale Pontefice e dalla Repubblica Popolare Cinese.
A queste voci autorevoli si sono sommate quella del neo-presidente brasiliano, Lula che ha mosso i primi passi diplomatici per sondare il terreno ed ha esplicitamente parlato di un “G-20 della Pace” nel suo tour europeo, e l’iniziativa di 6 Stati africani, tra cui due attori geopolitici di peso come il SudAfrica e l’Egitto.
Se un successo anche parziale di una di queste iniziative non fosse in grado di arrestare la tendenza contro la guerra di un modo di produzione capitalistico in crisi, un loro fallimento renderebbe però la distensione pressoché impossibile.
Sia detto chiaramente: vi è una parte del mondo, quella euro-atlantica, che attraverso il braccio militare (la NATO) e quelli economici (G7, FMI, Banca Mondiale) mira a mantenere una forte rendita di posizione di fronte ad un mondo multipolare ormai chiaramente emergente.
Per fare questo, sembra disposta a tutto, con un avventurismo bellicista che – con la fornitura di F16 e dei missili balistici in grado di colpire il territorio russo, nonché lo sdoganamento dei neo-nazisti russi armati dai falchi dell’Occidente – ha gettato definitivamente la maschera.
Il blocco euro-atlantico non solo è disposto a “combattere fino all’ultimo ucraino” ed a fornire qualsiasi mezzo a Zelesnky, ma è giunto persino a ventilare l’ipotesi dell’uso di armi atomiche nel teatro ucraino.
Ma ormai, come viene ammesso anche dai più lucidi analisti occidentali, c’è anche un mondo che mette in discussione l’egemonia a guida statunitense su una porzione importante del Pianeta ed in prospettiva la leadership.
Tagliando con l’accetta, un’altra parte del mondo – che si oppone ai circoli guerrafondai occidentali – sviluppa sempre più stretti legami economici trans-continentali e crea macro-economie regionali, pratica una sempre maggiore indipendenza politica da Washington, Londra, Parigi e Bruxelles, e costruisce cornici di relazioni internazionali per sviluppare forme di cooperazione economica e coesistenza pacifica che mirano alla de-escalation dei teatri di conflitto di cui l’Occidente è stato artefice o complice, magari senza neppure raccogliere i frutti di questo lavorio perché funzionali alla strategia del “caos costruttivo”.
Doveroso citare gli ultimi incontri che in vario modo hanno contribuito a questa nuova tendenza, scientificamente ignorati dai media occidentali: il vertice della Lega Araba a Jedda, con il “rientro” della Siria di Assad; l’incontro a Xi’an tra Cina e 5 paesi centro-asiatici; il secondo vertice del Forum Economico Euroasiatico (EAEU l’acronimo inglese) a Mosca dal significativo titolo “l’integrazione auro-asiatica in un mondo multipolare”; l’incontro per una soluzione politica del conflitto armeno-azero avvenuto sempre nella capitale della Federazione Russa.
In questo contesto, ogni iniziativa che abbia una dose minima di coraggio politico ed una qualche possibilità d’incidere va sostenuta e deve preparare il terreno per una mobilitazione contro la guerra che rompa con il combinato disposto che finora ne ha impedito lo sviluppo.
Nel 1963 a Bergamo un noto dirigente comunista italiano pronunciò un discorso dal titolo: “il destino dell’uomo”: «Eccoci così di fronte alla terribile, spaventosa “novità”: l’uomo oggi non può più soltanto, come nel passato, uccidere, distruggere altri uomini. L’uomo può uccidere, può annientare l’umanità… La storia degli uomini acquista una dimensione che non aveva mai avuto… E la pace, a cui sempre si è pensato come un bene, diventa qualcosa di più e di diverso: diventa una necessità, se l’uomo non vuole annientare se stesso… Di fronte alla minaccia concreta della comune distruzione la coscienza della comune natura umana emerge con forza nuova».
Affermiamo che tale coscienza dovrebbe sorgere ed anche rapidamente, ed è quello che cerchiamo di tradurre in iniziativa politica, a partire dall’assemblea del 26 maggio a Roma.
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa