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L’emergenza covid-19 e l’istruzione: una goccia che fa traboccare il vaso

Ormai da quasi un mese la didattica nelle nostre scuole e università ha assunto una forma del tutto nuova a cui non siamo affatto abituati: quella a distanza. Tra difficili collegamenti, registrazioni più o meno comprensibili e videolezioni di vario genere, le sedi d’istruzione stanno cercando di sopperire all’emergenza con l’ausilio di vari surrogati per non dover vedere “persi” mesi interi di lezione.
Riteniamo però che sia fondamentale che queste varianti siano considerate esclusivamente come “surrogati”: volte ad un periodo e ad un’emergenza limitata nel tempo, strumenti utilizzati per mettere una pezza dove possibile; essi non riescono, e non possono riuscire, a sostituire efficacemente la vera didattica. Questi mezzi sono infatti limitanti e limitati: manca lo scambio col docente, manca ovviamente la possibilità di creare lezioni interattive, la banale possibilità di fare domande direttamente, la chiarezza viene ovviamente meno, e anche l’apprendimento che segue paripasso.

Citando le difficoltà su un piano universitario, bisogna fare i conti con le sezioni di studio dal carattere più di tipo applicativo, “pratico”, e quindi critico: come ad esempio, a livello universitario, i laboratori (ove non siano già stati del tutto sospesi), mentre, sul piano scolastico, gli istituti tecnici e professionali si ritrovano gravemente svantaggiati.
Uscendo dall’ambito universitario e delle scuole secondarie, per dare uno sguardo più ampio al fenomeno, è necessario constatare le situazioni delle scuole primarie, dove viene a mancare la fondamentale parte di contatto e interazione della comunità sociale fra bambini e maestre, che qui è senz’altro prevalente sia rispetto ad un lato nozionistico/erudito, sia per per quanto riguarda l’acquisizione di un sapere critico: fino ad una certa età, questi sono da vedersi chiaramente in secondo piano: qui è la crescita nel contesto comunitario-sociale ad essere prioritaria.
Ricordiamo poi che il problema di interazione e contatto è soprattutto condiviso da tutta la fascia diversamente abile. Un contatto con l’altro, e un’interazione con la comunità sociale, sono gli elementi qualificanti del nostro essere come individui e all’interno di una collettività, per questo sono così importanti e centrali in tutto il mondo dell’istruzione, o almeno in quel che ne resta dopo anni di tagli e riforme che lo hanno adattato a ben altri interessi rispetto a quelli di chi studia e di chi insegna.

Ciò che non deve avvenire è che queste “soluzioni” estemporanee ai fini un tentativo di insegnamento non divengano la prassi:
Nutriamo il timore che ciò, che dovrebbe avere durata limitata e ragione d’uso legata alla necessità temporanea, sia esteso alla nostra regolarità dopo la fine di questa emergenza. Ciò che ci induce a temere, paradossalmente, è l’arrivo di 85 milioni di euro (più 1,4 miliardi per università e ricerca annunciati recentemente dal presidente Conte). Il timore proviene proprio dai nuovi fondi giunti al ministro dell’istruzione per far fronte alla situazione d’urgenza: questi, che appunto servirebbero per assicurare il continuo della didattica e, per la gran parte, sarebbero indirizzati sia per permettere al corpo docente di tenere la continuità didattica, sia per fornire al corpo studente la possibilità di seguirle, arrivano ora che il mondo sanitario versa in un’emergenza gravissima. Un’urgenza che mette a nudo la crisi strutturale, già visibilmente presente da tempo, nella sanità come anche nel mondo dell’istruzione e nell’ambito di tutti i servizi.
Dopo anni di immani tagli al ministero di istruzione università e ricerca, di ingresso di aziende e privati in scuole ed università, di incessante precarizzazione del corpo dipendente,+ ripartizioni di classe nelle scuole superiori tra licei per l’elité e professionali per i futuri sfruttati -con la derivante impossibilità all’accesso universitario per ampi strati della popolazione-, diminuzione del diritto allo studio, facoltà a numero chiuso – soprattutto in quei settori di cui avrebbe bisogno la popolazione, vedi ad esempio, medicina – diminuzioni di salari e diritto al lavoro, università e scuole che crollano e mancate ristrutturazioni (da non scordarsi poi nella scuola dell’obbligo, ma non solo, la polemica degli ultimi anni sul ripetuto dirottamento di fondi per ammodernamenti tecnologici laddove tutti consideravano fossero molto meno prioritari che nei siti appena elencati) il sospetto su questi fondi sorge spontaneo: tutte le mancate occasioni per sostenere e, anzi, tutti i tagli soprelencati che hanno portato allo sfascio il sistema didattico nazionale, allora consistono come gli argumenta volti a suggerire la possibile volontà per ridurre ancora: suggerirebbero una misura tutt’altro che emergenziale e fuori dall’ordinario, bensì a lungo termine.

 

NELLE SCUOLE

 

La condizione di emergenza in cui versiamo ha costretto le scuole ad avvalersi della didattica a distanza per portare avanti il programma dell’anno scolastico 2019/2020. Questo mezzo, seppur necessario, presenta le criticità esposte di seguito.

 

Partiamo dalle VALUTAZIONI: la mancanza iniziale di direttive precise ha avuto come conseguenza uno schema di valutazione arrangiato e soggettivo.Ma se il voto è il risultato di un percorso e di un’interazione dello studente con il professore e con la classe, risulta evidente che, al momento, quest’ultima sia dannosa e superficiale poichè non tiene conto della situazione economica e personale dello studente.

 

(Chiediamo dunque che i programmi vengano ridotti e adattati alle circostanze ritenendo che tentare di attuare la dad come didattica ‘standard’non sia né utile né fattibile nel pratico. Chi, a casa propria, non possiede gli spazi per crearsi una postazione di studio tranquilla si trova assolutamente svantaggiato.

 

La situazione può essere ulteriormente aggravata, sia per gli studenti che per i professori, da una connessione internet (rigorosamente privata e a pagamento) scadente o da una possibile mancanza di mezzi tecnologici per collegarsi alle lezioni.

 

Per questo motivo è impossibile negare un DIVARIO TRA STUDENTI che è subito affiancato da un netto DIVARIO TRA SCUOLE. Questo tipo di didattica incrementa le disuguaglianze sociali che il nostro sistema scolastico, il cui compito sarebbe quello di livellare le differenze sociali e creare un ambiente egualitario, si porta dietro da anni.

 

Sebbene siano stati stanziati 85 milioni per migliorare la DAD, questi sono niente in confronto ai continui tagli all’istruzione degli ultimi anni(circa 4 miliardi).

 

Il diritto allo studio è stato compromesso per molti studenti: i dati Istat delle regioni di Calabria e Basilicata dimostrano che le famiglie in queste regione che dispongono di accesso internet in casa sono rispettivamente il 66,3% e il 69,3%.

 

Per quanto riguarda istituti tecnici e professionali sappiamo che non tutte le discipline e/o contenuti sono facilmente veicolabili con la dad.

 

Sarà pertanto fondamentale in primo luogo la riduzione del programma, in modo che venga adattato in base alla situazione che stiam vivendo, e l’organizzazione di un recupero sostanziale, che miri a consolidare le conoscenze e le competenze necessarie allo studente e non semplicemente a recuperare i voti.

 

Inoltre nel caso sia necessario un corso di recupero per quegli studenti con eventuali insufficienze , questi dobrebbero essere a carico dello stato e non delle scuole ,poichè comporterebbe un aumento delle disuguaglianze già esistenti tra scuole di seria A e scuole di serie B, come tecnici e professionali e istituti del sud che usufruiscono di meno fondi; nè a carico delle famiglie poichè la crisi economica che vivremo non permetterà ai più di spendere per le ripetizioni private.

 

Crediamo che la didattica a distanza non debba essere una maldestra riproduzione di quella ordinaria, ma un’occasione di confronto e supporto.

 

Se la didattica come la conoscevamo non è possibile da attuare, in questo momento storico, allora troviamo un’alternativa.

Questi mesi devono essere sfruttati perché sono un enorme occasione di riflettere su cosa stia accadendo alla nostra società; usiamo questo tempo per migliorare o fondare su basi solide il rapporto studente-docente, chiediamoci collettivamente cosa accadrà nel futuro e cosa deve cambiare perché questa situazione non si ripeta mai più. Se la scuola è di per sé il luogo di riflessione e costruzione allora che cambino gli strumenti ma non i propostiti: continuiamo a distanza a confrontarci sull’attualità e sulla quotidianità perdendo volutamente di vista il “programma”.La scuola non dovrebbe essere mero nozionismo, ma un mezzo che permette allo studente di sviluppare senso critico.

 

Concludiamo riflettendo su una preoccupazione sorta e condivisa da studenti e professori:la Dad, impossibile negarlo, abbatterebbe di gran lunga i costi dell’Istruzione che, in un prossimo futuro,potrebbe essere nuovamente oggetto di tagli per far tornare il bilancio del nostro stato . Gli studenti che ascoltano la lezione dietro lo schermo potrebbero facilmente essere il doppio e il docente non farebbe alcun apparente sforzo ulteriore. Ma la dad si sta dimostrando un’individualizzazione e una disumanizzazione della didattica stessa e per questo chiediamo che venga definitivamente sospesa una volta conclusa la situazione di emergenza.

 

NELLE UNIVERSITA’

DURANTE L’EMERGENZA

Sono passata più di due mesi dall’inizio del lockdown messo in atto con lo scopo di attenuare l’emergenza sanitaria data dalla pandemia:  mesi in cui sono emersi svariati problemi per noi studenti universitari. Alcune di queste problematiche sono nuove perché sopraggiunte con il contesto emergenziale, ma spesso in realtà si sono accentuati ostacoli che già esistevano, e che ora più di prima pesano maggiormente sulle spalle di chi non può contare sulla propria situazione economica come ammortizzatore o palliativo.

In tutto ciò, le istituzioni appaiono cieche, o più probabilmente non intenzionate ad affrontare la realtà, e il loro silenzio si fa sentire. Pensiamo non solo al ministro dell’università e della ricerca Manfredi, referente del MIUR, ma anche e sopratutto all’Università di Firenze e all’Agenzia Regionale per il Diritto allo Studio Universitario (ARDSU) in Toscana.

Dal momento che per tutte le attività universitarie è stata adottata la modalità online, la problematica più lampante riguarda i mezzi con la quale essa dovrebbe essere messa in atto. Gli esami saranno infatti svolti per via telematica. E chi non ha accesso a internet nella sua abitazione? Oppure non gode di una buona connessione Wi-Fi? Ci chiediamo come questo sistema possa non essere esclusivo e perché non si mettano in pratica delle soluzioni. Non può e non deve passare inosservato il fatto che ci sono studenti e studentesse che non dispongono dei mezzi per sostenere gli esami, e sono quindi costretti a rimanere indietro con il loro percorso di studio. Questa problematica fra l’altro è particolarmente presente per gli studenti di famiglie meno agiate, gli stessi per cui ritardare gli studi e quindi pagare ulteriori rate ha un peso maggiore; altrettanto penalizzante lo è pure per coloro che vivono nelle residenze universitarie, dove già prima dell’emergenza covid-19 la connessione Wi-Fi era mal funzionante. In questo caso la situazione diventa ancora più grave a causa delle mancate modifiche ai requisiti per ottenere il rinnovamento delle borse di studio: se in questo contesto così difficoltoso gli studenti non riusciranno a ottenere i crediti necessari, rischiano di perdere la possibilità di proseguire gli studi, oltre a dover rimborsare l’azienda per la borsa di studio, senza pensare agli studenti extracomunitari che possono vedere non rinnovato il proprio permesso di soggiorno!

La nostra domanda è: se siamo in una situazione di emergenza, allora perché i parametri non cambiano, perché dagli studenti si pretende un’inesistente normalità?

Tutto questo si collega alla condizione di un altro gruppo di studenti che sembra essere invisibile (per quanto possa sembrare paradossale) all’ARDSU: i borsisti. Recentemente infatti la Regione, nella figura di Monica Barni, assessore per il DSU, ha promesso contributi una tantum – ossia dati una volta e basta – per aiutarli, ma sono state scarse notizie in merito, sia sul loro ammontare che sulla loro erogazione.

Per quanto riguarda le problematiche di accesso a internet e connessione, vogliamo infine precisare che non si tratta di un problema limitato allo svolgimento degli esami. Ci sono infatti molti studenti che a causa di tali difficoltà si ritrovano costretti a studiare solo tramite i libri di testo e sono quindi impossibilitati ad usufruire di un servizio per cui hanno pagato, necessario per un apprendimento solido e non puramente nozionistico. Inoltre, una grossa fetta degli studenti vive con la propria famiglia: se i figli sono più di uno, è probabile che non ci siano abbastanza dispositivi per garantire a tutti di seguire le lezioni, né un luogo tranquillo e che permetta la concentrazione.

Un’altra imponente problematica è quella degli affitti, che diventano una spesa insostenibile per tutti i fuorisede obbligati a pagare per un alloggio che non stanno utilizzando, o per gli studenti che hanno perso il lavoro, vista la precarietà delle attività che svolgono generalmente studenti e studentesse e i settori ora fermi in cui erano occupati. Dunque chi deve sostenere una spesa inutile proprio adesso che la sua famiglia arranca o non riceve affatto entrate, chi addirittura si ritrova in ginocchio e senza alcun tipo di tutela.
In merito alla questione affitti vogliamo inoltre ricordare che in Italia i posti negli alloggi per il diritto allo studio o nei collegi universitari sono circa 48.000: ha perciò possibilità di accedervi solo il 3% della popolazione studentesca.

Che quella del lavoro sia una situazione drammatica è chiaro a tutti. Eppure forse non lo è all’Università degli Studi di Firenze. Gli studenti e le loro famiglie infatti devono fare i conti anche con il pagamento della seconda rata delle tasse, che ora più che mai si presenta come un enorme ostacolo diretto al diritto allo studio. A Firenze l’unico provvedimento è stato prorogare la scadenza per il pagamento al 15 giugno, un provvedimento solo “di facciata”: l’importo da pagare non è cambiato, per nessuna fascia ISEE, quindi non è stata posta alcuna soluzione al problema. Ciò era successo a fine marzo, ma naturalmente nel susseguirsi dei vari decreti non sono state prese altre misure: inutile dire che anche dalle sedi dell’ università fiorentina non è stata dimostrata alcuna volontà nel prendere “ulteriori” provvedimenti.

Abbiamo sopra citato il tema dei libri di testo. Ancora una volta si tratta di una spesa che per via della situazione emergenziale grava sugli studenti perfino più di quanto non facesse già. Col nuovo sottosemestre infatti si è preteso l’acquisto di nuovi libri: tanti, costosi, inaccessibili.

Da sempre riteniamo che il carolibri, l’obbligo di acquisto da parte dei docenti e i vari aggiornamenti che limitano la possibilità dell’uso di seconda mano siano un ostacolo innegabile al diritto allo studio. Accanto a questo punto ve n’è un altro, ovvero la generale limitazione della circolazione del sapere attraverso l’uso di brevetti e copyright, i quali portano a un prezzo fisso e parcellizzano il lavoro intellettuale. La mancata considerazione delle condizioni materiali di ognuno, così come le necessità di guadagno e profitto, ci inseriscono in un contesto nel quale informazioni e conoscenze sono merci e, come tali, sono oggetto di continua speculazione e risultano campo di gioco per concorrenza e competitività. Il risultato è la negazione di una diffusione estesa e di massa della cultura.

Infine, stanno affrontando una situazione critica anche i tirocinanti, che hanno visto interrompersi, oppure neanche iniziare, il percorso a loro necessario per il raggiungimento della laurea. Questa tappa è sempre più spesso obbligatoria, e più che di uno strumento fornito agli studenti utile alla loro carriera futura, come viene dipinta, si tratta di un mezzo sfruttato dalle grandi aziende che collaborano con le università per ricevere di fatto lavoro a costo zero. Nello specifico dell’attuale contesto emergenziale, il problema sta nel fatto che da quando lezioni e esami si sono trasferiti sulle piattaforme online i tirocini si sono interrotti, a discapito degli studenti. Vogliamo infatti far notare che solo una minima parte dei percorsi hanno potuto svolgersi per via telematica (e anche questa modalità è stata attivata con palese ritardo).

Se le istituzioni sono sempre più lontane dalle esigenze reali degli universitari, gli studenti stessi non sono disposti a lasciare nessuno indietro, e attraverso percorsi di lotta e autorganizzazione, agendo collettivamente tentano di offrire a se stessi e agli altri aiuti concreti. E’ in questa ottica che bisogna intendere il progetto di Libreremo, una pratica politica portata avanti dalle studentesse e dagli studenti delle facoltà di Novoli e del centro e che ha lo scopo di rendere, per quanto possibile, l’università più accessibile. Concretamente si tratta di una distribuzione gratuita di testi universitari, il cui numero è ovviamente elevato e i cui prezzi sono sempre più alti (ci pare assurdo infatti che questa spesa non venga presa in considerazione). In questo momento complicato la distribuzione dei testi avviene attraverso una piattaforma on line (generalmente avveniva di persona), a cui sono state aggiunte sezioni dedicate a testi di formazione alternativa, o comunque non trattati a lezione, e libri di “svago” comprendenti i generi più disparati, dai saggi alla narrativa, passando per il genere fantasy. Si sta creando insomma una vera e propria biblioteca on line gratuita dagli studenti per gli studenti, a cui tutti possono accedere. Riteniamo che il diritto allo studio comprenda anche questi aspetti, e se non ci viene fornito, starà a noi riappropriancene, per quanto sappiamo che questa non è e non può essere la soluzione. Le lotte portate avanti in questi anni legate al diritto allo studio sono molteplici, si pensi allo Studentato Autogestito PDM, occupazione studentesca nata in seguito ad una riforma ISEE che escluse centinaia di studenti e studentesse dalla borsa di studio, che da 4 anni porta avanti la lotta per il diritto allo studio, da un lato dando la possibilità a decine di studenti di poter continuare a studiare, alleggerendoli dalle proprie condizioni materiali, dall’altra permettendo loro di lottare e organizzarsi per rivendicare i propri diritti, che accomunano tutta la componente studentesca.

Ma vogliamo ribadire che l’attuale situazione di crisi non è sufficiente, da sola, a giustificare le oggettive difficoltà in cui le studentesse e gli studenti si trovano. Le logiche insite nell’attuale sistema universitario, deleterie e non orientate affatto a rendere l’istruzione di qualità, gratuita, accessibile e di massa, erano già visibili e dominanti. Il manifestarsi “improvviso” della pandemia non ha fatto altro che acuire problemi preesistenti, all’interno dell’università come nella società.

L’università è stata intesa, e dunque anche normata secondo legge, in base alle esigenze del mercato, e non è stata invece pensata ed edificata come quel luogo con il compito di formare nuove menti critiche, finalizzato alla crescita personale dei singoli individui, ma soprattutto collettiva, dove ci sia spazio per la discussione e per un’autentica riflessione su ciò che si impara. Quel luogo insomma, depositario della conoscenza e delle sue applicazioni, orientato a perseguire lo sviluppo di tutti i saperi, al progresso culturale della collettività e in ultima istanza – e lo diciamo senza alcuna retorica- orientato a perseguire il bene comune. A che serve altrimenti tutta questa tecnica e queste scienze, se non al progressivo aumento del benessere materiale e intellettuale della società tutta, nessuno escluso?

Se questo è quanto noi auspichiamo, e ciò per cui lottiamo quotidianamente nelle nostre facoltà, la realtà è assai differente.
L’università in cui viviamo non può tendere ad un sapere libero e proteso al bene collettivo poiché è totalmente asservita alle logiche di mercato. Il processo di sviluppo intellettuale non è infatti autonomo, bensì è ancorato alle esigenze e ai ritmi dell’economia capitalista, pertanto tutto il processo formativo viene finalizzato in tal senso. Gli investimenti, nel campo della ricerca, ma comunque in tutti gli aspetti, sono finalizzati alle esigenze delle imprese, se non quando erogati dai privati stessi (ciò è stato possibile da quanto questi sono ufficialmente entrati a far parte dei consigli d’amministrazione d’ateneo), per preparare gli studenti ad affrontare il fantomatico “mondo del lavoro”. Tutte le discipline che non si prestano direttamente a questa regola madre del neoliberismo, che mercifica il sapere, sono del tutto superflue; si chiudono corsi ed addirittura interi percorsi di laurea vengono profondamente modificati in base a questi paradigmi. Ce lo insegnano fin dalle scuole medie, le materie scientifiche sono da privilegiare, quelle umanistiche no, poiché inutili. Ma inutili per chi? Per le aziende ovviamente, non certo per le menti dei ragazzi e delle ragazze che potrebbero arricchirsi grazie a questi studi. In ultima istanza, si può affermare che il ruolo a cui l’università viene relegata è quello di fornire personale qualificato alle imprese, esclusivamente negli ambiti di loro interesse, ovvero quelli con i maggiori spazi di profittabilità; è il profitto dei capitali privati il perno su cui ruota l’università pubblica!

Questo si è reso evidente nelle riforme sull’istruzione degli scorsi anni: la cosiddetta riforma della Buona Scuola e della Buona Università, presentata a settembre 2014 e approvata a luglio 2015 dall’allora governo Renzi, hanno posto le basi per la contrapposizione sempre più netta tra le eccellenze e gli atenei piccoli e poco produttivi, ed hanno incrementato il potere nelle mani dei baroni e dei rettori.

Nel frattempo, negli ultimi 15 anni, le immatricolazioni sono drasticamente calate, principalmente perché per la mancanza di fondi le università sono restie a concedere borse di studio, e insieme a questo fattore sono aumentate le tasse e si sono moltiplicati i corsi a numero chiuso.  A questa considerazione si aggiunge si sta evidenziando una forte frattura di classe nelle immatricolazioni: i pochi istritti all’università sono infatti sempre più provenienti esclusivamente da famiglie agiate, e da studenti precedentemente iscritti a licei classici o scientifici: le “scuole d’elite” per eccellenza; chi ha frequentato un tecnico o un professionale non penserà a proseguire i propri studi, probabilmente spinto dalla necessità di lavorare. Lo studio cessa così di essere strumento di emancipazione di classe, e rimane solamente mezzo per inserirsi in un gradino più alto o più sfruttato e precario del settore lavorativo.

Allo stesso tempo le scuole superiori hanno sofferto di problemi edilizi e strutturali, mentre il governo si occupava di distribuire le lavagne LIM e di preparare le prove INVALSI, o di indebolire ancora maggiormente la scuola pubblica, con l’introduzione della Alternanza scuola-lavoro, oggi  più pomposamente rinominati Percorsi per le Competenze Trasversali e per l’Orientamento. Il comune denominatore è lo svuotamento. Svuotamento di strumenti, di studenti e studentesse, di spirito critico e di diritti.

Se questa è la prospettiva che attende gli studenti, allora è bene che si preparino fin da subito al lavoro, il quale, come del resto ogni altra cosa nella nostra società, non è un diritto che ci spetta. Per ottenere un posto di lavoro si deve competere con gli altri, contro gli altri; e così è anche all’interno dell’università, che non è certo un luogo di aggregazione, ma un’arena in cui competere coi propri “colleghi”.

La drammatica situazione legata alla pandemia amplifica queste tendenze. Gli studenti, soli, isolati (per necessità, ne siamo certamente consapevoli) seguono da casa lezioni online che spersonalizzano l’apprendimento oppure lezioni pre-registrate, nelle quali la possibilità di discutere, chiedere, mettere in dubbio, spaziare e approfondire collettivamente è totalmente assente. Questo tipo di studio non prevede dunque che si formino delle menti pensanti, vivaci, ricche di senso critico, ma ha per scopo quello di insegnare il numero sufficiente di nozioni, quelle che bastano per ottenere il numero giusto di crediti formativi: la “fabbrica degli esami” non si ferma con la pandemia in corso, piuttosto impariamo tutto meno e male. Tutto ciò fa capo al processo di parcellizzazione dello studio, in campi sempre più specifici e specializzanti, e non generali e interdisciplinari, atti all’acquisizione di un sapere sempre più tecnico-scientifico. La politica, la storia, la filosofia, l’attualità, la geografia, l’arte etc non sono materie “valide”, poiché sostanzialmente inutili ai fini del mercato.

Dunque abbiamo di fronte luoghi di istruzione che si conformano al sistema produttivo. Per questo motivo il fenomeno che ci si presenta ora, con lezioni telematiche ed esami, oltre ad essere la misura presa di fronte alla quarantena, è anche il banco di prova per un aumento della telematizzazione in futuro. L’ausilio della tecnologia in questo caso fa gioco a un processo sociale sia di distanziamento sia di parcellizzazione del tempo personale. Per il primo fattore il problema è evidente: l’individualismo promosso non è altro che la realizzazione di meccanismi di competitività, concorrenza e “meritocrazia. Il secondo fattore, legato indissolubilmente al primo, è invece l’esito di un processo capitalistico che vede il soggetto come produttore e consumatore, e dunque svaluta e inibisce la dimensione personale, per avvantaggiare invece una valorizzazione dell’ambito privato, anche e soprattutto perché quello è un ulteriore terreno di profitto, ma anche occasione di riproduzione dell’ideologia dominante: con gli studenti lontani fra loro, come potranno criticare un modello o organizzarsi contro di esso?

Date queste premesse non stupisce adesso che la didattica a distanza, anziché essere considerata una dolorosa scelta necessaria, ci venga venduta come un esempio virtuoso e addirittura come “l’università – o la scuola- del futuro”. Da una situazione di necessità, si compie un salto di qualità, in negativo, verso la normalizzazione di questo fenomeno, questo aspetto non riguarda solo l’istruzione, ma anche il lavoro (in smart working) e la sicurezza (sperimentazione di tecnologie e pratiche sempre più repressive).

Si ha dunque l’obiettivo di evidenziare le contraddizioni insite nel sistema scolastico, ora emergenti in modo più vivido.

Fare lezioni online significa infatti adattarsi ancor di più a processi di addestramento più che a contesti di confronto e critica, e dunque ad approdare a un mero nozionismo. Ciò risulta simile all’intento dei test INVALSI: il problema non è tanto la tecnologia in sé, ma come la si usa e per quali scopi. E lo scopo ora comincia a cozzare più vivamente con le condizioni materiali di ognuno di noi.

Ad esse non viene riconosciuto un valore. L’istruzione pubblica, gratuita, autonoma nella ricerca e di massa è appannaggio e anelito dei soli studenti, non certo delle istituzioni. Ciò che conta è raggiungere, il prima possibile, il numero di crediti sufficienti per conseguire la laurea. Le diverse condizioni materiali mettono invece in luce come questo sia sempre più spinoso e come i nuovi provvedimenti non tengano affatto conto degli studenti e delle studentesse in difficoltà. Di fronte al primo problema, il sistema dell’istruzione, come quello sanitario, mostra le sue falle. Certo è che esso sta mostrando sempre di più il modo in cui riproduce il divario sociale: sia verso i suoi studenti che verso i suoi lavoratori. Divario che abbiamo visto svilupparsi sotto i nostri occhi con l’incentivo dei privati, ad esempio mediante la concessione del terreno per la costruzione dello studentato di lusso CampusX, e con la mancata volontà politica di tutelare i lavoratori e le lavoratrici, coloro che rendono fruibili i luoghi che attraversiamo ogni giorno e che, loro sì, garantiscono a migliaia di studenti il diritto allo studio con il proprio lavoro; nella fase di cambio appalto di questo anno infatti questi rischiano di vedersi lo stipendio ridotto a meno di 4 euro l’ora, il tutto pensato contemporaneamente con un imminente aumento delle tasse universitarie – ora probabilmente ritardato – che ancora una volta andrà a penalizzare maggiormente gli studenti e le studentesse con più difficoltà economiche
Come possiamo quindi metterci nelle mani di quel meccanismo, universitario e scolastico in generale, che non fa altro che promuovere se stesso come azienda e che ci declassa a fruitori di un servizio? Ad essere incentivato è infatti il dislivello sociale, culturale ed economico: un classismo che l’università e la scuola continuano a riprodurre perché istituzioni regolate dal profitto e sottostanti alle sue regole.

 

CON LA CRISI ECONOMICA

Se a questo punto possiamo forse dire di riuscire a vedere una luce in fondo al tunnel di questa emergenza sanitaria, nonostante in alcune regioni i contagi continuino nell’ordine delle centinaia ogni giorno, gli scenari possibili che ci aspettano sono numerosi e imprevedibili. Una cosa però sembra mettere d’accordo economisti di ogni parte: l’inizio di una tremenda crisi economica, una crisi diversa dalle precedenti, più profonda, più pesante, una crisi che era nell’aria già da tempo, con il manifestarsi sempre più evidente di contraddizioni sistemiche, esplicitate in una sempre più accentuata tendenza alla guerra da parte dei paesi occidentali: le tensioni in Medio Oriente e in Libia per citare quelle più evidenti.

Ma crisi alla quale l’epidemia di Covid.19 ha semplicemente dato l’ultima spinta.

Diverse sono le ricerche – non solo di una parte degli accademici, ma anche di grosse istituzioni finanziarie – ad affermare che la pandemia non è stata la causa della crisi economica, ma il suo “fattore scatenante”: il Covid-19 quindi ha “solo” accelerato un processo che era già in atto.

I dati di numerose analisi economiche mostrano come l’economia mondiale stesse già andando incontro a una recessione: una stagnazione dei profitti aziendali globali, una diminuzione degli investimenti e del commercio mondiale (che ha chiuso con un calo in media d’anno per la prima volta dal 2009) dovuti anche alla guerra dei dazi tra U.S.A. e Cina, con una crescita generale del PIL inferiore al 2% (addirittura inferiore all’1% nel caso dell’eurozona) e numerose economie già in fase di recessione.

All’inizio del 2020, Confindustria aveva calcolato per l’Italia una “sostanziale stagnazione” a seguito della flessione di fine 2019, con l’indice di occupazione lavorativa fermo nella seconda parte del 2019, l’export in difficoltà e un sistema industriale in forte calo in tutti i settori, soprattutto per i beni intermedi.

Anche gli Usa – per quanto ancora sostanzialmente “in carreggiata” – stavano iniziando a intravedere i primi segnali di frenata, diventati poi bruscamente uno stallo a causa della pandemia, con una disoccupazione schizzata ai massimi storici e un sistema sanitario, rigorosamente privato, al collasso.

 

L’ennesima crisi economica che, a quanto sembra, sarà ben peggiore di quella del 2008, passata alla storia come la “Grande Recessione”, che molti di noi ricordano bene e della quale continuiamo a pagare le conseguenze ancora oggi. A livello mondiale il FMI prevede un crollo del PIL di circa il 3%, mentre per quanto riguarda l’Italia si prevede una diminuzione del PIL del 9,1% per il secondo semestre del 2020. Durante la crisi del 2009 era stata del 3,1%. Ancora, sulla base di possibili scenari delineati, l’ILO (International Labour Organization) ha calcolato un aumento della disoccupazione globale che va da 5,3 a 24,7 milioni, cifra che si sommerebbe ai 188 milioni di disoccupati nel mondo nel 2019.

Inoltre, si stima che verranno persi 9000 miliardi di dollari in un anno: ogni mese di lockdown è costato all’Italia circa 47 miliardi di euro (fonti Svimez); le previsioni sulla disoccupazione nazionale passerebbero dal 10 al 12,7%. L’Istat invece ha già parlato di “uno shock economico senza precedenti”: la caduta dell’attività prevista per il mese di marzo (circa il 17%) rappresenta il più ampio calo mensile dal 1960 e l’arretramento calcolato per il primo trimestre 2020 sarebbe il più forte dal primo trimestre 2009 (fonti Istat). Il FMI ha inoltre sottolineato come la crisi minacci “la stabilità del sistema finanziario globale”, che fino a ora non aveva mai visto un arresto così improvviso e violento dell’intera produzione mondiale.

 

L’ennesima crisi economica è già qui, e per i lavoratori e le lavoratrici non è certo la prima crisi da affrontare: soltanto per gli under 40 si tratta della seconda crisi in poco più di dieci anni. L’ennesima crisi endemica del sistema capitalista – di cui il sistema stesso si nutre per rafforzarsi e rimuovere gli ostacoli che può trovare davanti al suo processo di accumulazione – è già qui e sappiamo bene chi sarà a pagarne le conseguenze, come sempre: non i veri responsabili, ma i lavoratori e le lavoratrici, gli studenti e le studentesse.
Non permettiamoglielo, non saremo noi a pagare le loro crisi anche questa volta.

 

IMPATTO DELLA CRISI SUL MONDO DELL’UNIVERSITÀ

        
Volgendo lo sguardo al passato e guardando alle crisi economiche che si sono susseguite dal primo shock petrolifero negli anni Settanta – prima vera crisi che ha squarciato quel velo di ipocrisia del capitale sui “trenta gloriosi”, anni che venivano presentate dalla narrazione dominante come gli anni di grande benessere sociale – sappiamo bene che le loro conseguenze sono sempre state scaricate sulle classi popolari: tagli al welfare e al settore pubblico in generale, privatizzazioni, compressione dei salari, molto più spazio al mercato tramite deregolamentazioni.
Il mondo della scuola e dell’università non sono stati esentati dal processo di ristrutturazione dell’economia capitalista: solo per fare un esempio, le riforme Gelmini approvate tra il 2008 e il 2010 sono state solo l’ultimo tassello del processo di aziendalizzazione dell’università iniziato negli anni Novanta: fin dal Processo di Bologna, infatti, quest’istituzione si è piegata alle necessità del mercato, lasciando entrare i privati negli organi amministrativi, chiudendo e aprendo corsi di studio  in base alla necessità occupazionale delle imprese. L’università, passo passo, si è resa sempre più esclusiva e classista, dal momento che pose e continua a porre ostacoli come il numero chiuso, da un lato, e criteri meritocratici per disporre dei sussidi del DSU che non vanno a considerare le condizioni di partenza di ogni studente, dall’altro. Come se non bastasse la stessa riforma Gelmini dell’università era stata preceduta dalla legge Tremonti che predisponeva una serie di tagli in ambito pubblico.
Quello che è già stato fatto in ambito universitario ha inficiato direttamente sul diritto allo studio e l’emergenza Covid-19 ha palesato quello che come studenti e studentesse denunciamo da anni: riduzione delle borse di studio e dei posti alloggio, sia per quanto riguarda il numero di beneficiari che l’effettivo ammontare delle borse, aumento delle tasse – la media nazionale è di circa il 30% in più dal 2015 al 2018 (fonte Rapporto Alma laurea) – tagli al personale, alla ricerca e alle attrezzature.
La didattica a distanza non ha fatto altro che mettere in luce il processo che stiamo descrivendo: l’impossibilità di accesso a lezioni ed esami online a causa di reti Wi-Fi scarse o assenti, del non avere un PC adeguato o mal funzionante, del non averlo proprio, o di doverlo condividere con fratelli o sorelle, di non disporre degli spazi di tranquillità necessari per seguire le lezioni da casa…sono problemi che stanno riguardando buona parte degli studenti e delle studentesse. Secondo fonti Istat infatti un terzo delle famiglie con figli studenti non possiede un computer e il 40% non possiede spazi sufficienti per seguire le lezioni o dare gli esami in tranquillità.

Se qualcosa abbiamo imparato dalle precedenti crisi e dalle loro conseguenze, è che i costi verranno scaricati anche sugli studenti e le studentesse; quel poco che resta in termini di diritto allo studio in un’università sempre più classista e sempre più escludente verso i figli della classe lavoratrice molto probabilmente proveranno a togliercelo, usando la solita scusa che “i soldi non ci sono”, quando anni di mobilitazioni ci hanno insegnato che quello che manca è la volontà politica.

 

Sono (e siamo) in tanti gli universitari che sono costretti a lavorare per poter studiare, per pagare rette sempre più alte, libri sempre più costosi, bollette e affitti sempre più alle stelle in una città vetrina come Firenze. L’emergenza Covid19 ci ha colpito anche su questo fronte: in molti da un momento all’altro abbiamo perso il posto di lavoro, per la maggior parte lavoretti della cosiddetta “gig economy” e quindi, per definizione stessa, instabili, poco retribuiti, senza tutele e spesso e volentieri senza nemmeno un contratto.

Questa è la nostra normalità, fatta di precarietà, di incertezza e di un percorso di studi tortuoso e sempre più difficile; una normalità che porterà, ancora più di prima, molti studenti e studentesse a smettere di studiare, andando ad aumentare il livello di abbandono universitario che in Italia è già tra i più alti d’Europa. Secondo fonti Istat, infatti, oggi solo 3 diciannovenni su 10 si immatricolano e il 12,6% di chi si immatricola non finisce il percorso di studi, con le dovute differenze di estrazione sociale e regionale (al sud così come nelle classi meno abbienti le percentuali dell’abbandono crescono).
In 10 anni il calo degli iscritti all’università si attesta intorno alle 300’000 unità. Cosa può succedere con una crisi economica come quella che sta prendendo avvio e che già vede migliaia di famiglie in difficoltà?

 

Tutti questi aspetti descritti – i tagli al mondo dell’istruzione, l’aumento delle tasse, la diminuzione delle borse di studio e l’aumento della disoccupazione – andranno ad accentuare un divario di classe già presente in maniera massiccia all’interno del mondo universitario, in un contesto in cui quello che dovrebbe essere un diritto diventa sempre più un privilegio per i pochi che se lo possono permettere.

 

Ma problemi e i cambiamenti che l’università dovrà affrontare finita questa emergenza sanitaria non saranno legati solo ed esclusivamente all’impatto che la crisi economica avrà sulla nostra società.

 

RISCHI NELLA FASE POST EMERGENZIALE

 

Un ulteriore rischio a cui va incontro il mondo universitario infatti è anche la possibilità che le misure adottate durante l’emergenza sanitaria vengano riproposte o mantenute anche nel periodo successivo.

Non è certo una prassi nuova quella di introdurre dei provvedimenti speciali durante situazioni definite emergenziali e di mantenerle una volta che queste sono cessate: l’abbiamo visto con il Daspo, sperimentato prima negli stadi durante l’ “emergenza della violenza negli stadi” e poi ampliato a tutta la società con il primo Decreto Sicurezza di Minniti; o con la cosiddetta “flagranza differita”, introdotta dopo il G8 di Genova come provvedimento dalla durata di 2 anni, e poi prolungata di biennio in biennio fino al 2019, quando è stata normalizzata con il Decreto Sicurezza di Salvini.

 

Si parla già di un possibile rientro “telematico” a settembre e sono numerosi i corsi che stanno partendo con questa modalità: la normalizzazione e il prolungamento di questi meccanismi a emergenza finita non possono che rivelarsi con il tempo deleteri per la qualità della didattica e dell’istruzione in generale. Senza contare le disuguaglianze sociali in termini di accesso ad apparati tecnologici adeguati a cui abbiamo accennato in precedenza.

 

Inoltre, in molti atenei si iniziano a usare software di controllo e di riconoscimento facciale in grado di rilevare eventuali comportamenti “scorretti” da parte degli studenti in sede d’esame. Ci sembra quanto meno pericoloso l’utilizzo prolungato di intelligenze artificiali e di algoritmi di questo tipo che potrebbero essere sviluppate con lo scopo di esercitare un maggior controllo.

Una tendenza al controllo ossessivo che nella società si è ampiamente manifestata con l’emergenza sanitaria: piuttosto che prevenire il contagio da un punto di vista medico stanziando fondi per ospedali, tamponi e prevenzioni, arrivate peraltro solo su pressione dei lavoratori della sanità e non, il governo ha preferito la caccia all’untore, fatta di droni, pattuglie di polizia ed esercito, posti di blocco, criminalizzazione di chi “sgarra”. Ha preferito la sicurezza e la difesa di questa normalità marcia piuttosto che la tutela di tutta la popolazione, che, invece di droni, ha bisogno di casa, lavoro, sanità e istruzione.

La stessa app Immuni vene presentata come un modo per mappare il contagio, ma i tamponi continuano ad essere un privilegio per i pochi che possono permetterseli.

Ma un maggiore controllo sulla popolazione è segno evidente di un accentramento dei poteri nelle mani dell’esecutivo, dello stato, che in questi mesi ha ampiamente dimostrato la propria parte: quella di Confindustria, del profitto prima delle vite.

 

Il mantenimento della didattica a distanza non è l’unico rischio a cui andiamo incontro: fondamentale sarebbe l’impatto sulla gestione degli spazi universitari. I tentativi di sottrarre spazi di socialità agli studenti e alle studentesse in questi anni sono stati diversi: non sembra assurdo pensare che, a emergenza finita, vengano comunque imposti dei limiti alla libertà di noi studenti e studentesse di riunirci, discutere, organizzare iniziative e feste, con lo spauracchio del contagio. E’ necessario infatti ricordarsi che l’apertura di questi spazi, che trasformano il confronto in critica e la critica in lotta, sono pericolosi per chi antepone il proprio interesse a quello della popolazione studentesca tutta. Le istituzioni universitarie si aggrapperanno a qualsiasi cosa pur di toglierci quei pochi spazi rimasti, vietandoci così di vivere e costruire la nostra università da protagonisti e non come semplici spettatori o fruitori di un servizio, secondo l’ormai nota scansione del tempo lezione – studio – esame.

Tutto questo mentre si può continuare a lavorare in fabbrica (anche in quelle considerate “essenziali” come quelle produttrici di armi) stipati, spesso senza i DPI adeguati, stipati come sui mezzi pubblici necessari allo spostamento.

Allora la contraddizione diventa evidente: se produrre in sicurezza è possibile, perché non lo è anche la nostra socialità? L’interazione con l’altro di cui parlavamo nell’introduzione, base del nostro essere come individui e comunità?

Finalmente sono riusciti a coronare il progetto tanto inseguito, quello di tenerci chiusi in casa e di farci uscire solo per produrre e consumare: produci, consuma, crepa.

Rigidi schemi di vita, paura dell’altro istigata dal controllo che dicevamo prima, isolamento e rassegnazione, questa è la reale risposta che questo sistema ci sta imponendo.

 

I rischi sono quindi molti e, sul lungo termine, potrebbero portare a un cambiamento radicale dell’università e della società: sempre più di classe, sempre meno accessibile, sempre più un esamificio.

Noi non ci stiamo! Non vogliamo e non possiamo trovarci impreparati/e davanti a questa situazione. Ora più che mai è necessario tornare a lottare per un’università libera, gratuita e di massa, opponendo al loro modello produci-consuma-crepa le nostre parole d’ordine che da sempre ci contraddistinguono: studia, organizzati, lotta!

 

 

NON TORNEREMO ALLA NORMALITA’ PERCHE’ LA NORMALITA’ ERA IL PROBLEMA!

 

IN CONCLUSIONE

A netto di tutto ciò che abbiamo scritto, crediamo sia necessario nell’immediato pretendere che, così come i lavoratori possono andare a lavorare, anche noi studenti e studentesse possiamo tornare nelle nostre università a studiare e a dare esami, in modo che tutti e tutte abbiano la possibilità di continuare il proprio percorso accademico, ovviando alle criticità e le problematiche che la didattica online ha mostrato. L’interesse del governo abbiamo visto essere incentrato solo ed esclusivamente sulle attività che possono produrre un profitto, mentre tutte le altre, in primis scuole e università, vengono lasciate chiuse, senza un vero impegno nel cercare una soluzione per riaprirle: tutto questo è inaccettabile ed è nostro compito pretendere la riapertura delle università già dalla sessione estiva e delle scuole da settembre, con le dovute precauzioni e sanificazioni del caso, ma è impensabile iniziare un nuovo anno in maniera telematica. L’università e le scuole devono tornare il prima possibile a essere luoghi di scambio e di confronto, luoghi attraversati dagli studenti e dalle studentesse che ogni giorno li frequentano e li vivono in prima persona. Se lavorare in sicurezza è possibile, allora lo è anche andare a scuola e in università!

Sul lungo termine, ma comunque già da ora, invece, a fronte della crisi che ci aspetta e delle sue conseguenze, riteniamo necessario nei mesi che verranno essere presenti a livello universitario, studentesco, sui luoghi di lavoro, nelle piazze e in generale nelle città riprendendoci i nostri spazi sia per accusare i colpevoli della crisi sanitaria che abbiamo attraversato e di quella economica che attraverseremo, sia per rilanciare una lotta che ancora una volta ribadisca come non debbano essere i lavoratori, gli studenti a pagare il prezzo della crisi, ma tutti quei soggetti che hanno contribuito a generarla, una lotta che denunci il sistema marcio di sfruttamento e repressione che durante l’emergenza ha mostrato tutte le sue contraddizioni e rilanci un nuovo modello di società, una lotta che intersechi le rivendicazioni di studenti, lavoratori, disoccupati, precari… e porti avanti una conflittualità in ogni ambito della nostra vita. Non possiamo permetterci ulteriori tagli all’università, all’istruzione, alla sanità pubblica, al welfare in generale, non possiamo ancora una volta essere noi i soggetti su cui verrà a scaricarsi il peso dell’ennesima crisi economica, dobbiamo tonare a ribadire che la crisi la dovranno pagare i padroni!

Vogliono farci tornare alla normalità, ci hanno detto che sarebbe andato tutto bene, che eravamo sulla stessa barca, ma noi sappiamo che la normalità di cui parlano loro è una normalità fatta di precariato, di sfruttamento, di repressione, sappiamo che non è andato e non andrà tutto bene e che non siamo mai stati sulla stessa barca. È per questo che non torneremo alla loro normalità, perché è parte integrante del problema e del sistema che dobbiamo distruggere. Non scacciamo via la rabbia come vorrebbe Conte, incanaliamola e usiamola per combattere questa crisi e chi l’ha causata!

Rete dei Collettivi Fiorentini

Collettivo Politico di Scienze Politiche

Krisis – Collettivo di Studi Umanistici e della Formazione

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