Con l’emergenza Covid-19 hanno preso corpo tutte le fragilità del sistema Italia. Le conquiste che ci sembravano irrinunciabili sembra stiano progressivamente perdendo pezzi a colpi di decreti emergenziali, svuotando così di significato la Costituzione. Quella Costituzione nata dalla Resistenza e fondata su diritti inviolabili: libertà, uguaglianza, salute, istruzione per tutti e tutte. Le stesse libertà che oggi sono oggetto di un drammatico bilanciamento. Proprio come accade in carcere, infatti, assistiamo ad una ponderazione tra sicurezza e diritti costituzionalmente garantiti.
Ne discutiamo in diretta sulla pagina facebook dell’Associazione Yairaiha Onlus con:
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Introduce e coordina Sandra Berardi, Yairaiha Onlus
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Domenico Bilotti, docente Diritto delle religioni – Umg
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Vincenzo Scalia, sociologo – University of Winchester
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Laura Longo, ex Presidente del Tribunale di sorveglianza de L’Aquila
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Samuele Ciambriello, Garante dei detenuti della regione Campania
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Francesco Iacopino, avvocato penalista, Foro di Catanzaro
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Piero Sansonetti, direttore de Il Riformista
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Riccardo De Vito, Magistrato di sorveglianza di Sassari e Presidente di M. D.
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Maurizio Nucci, ex presidente della Camera Penale Fausto Gullo di Cosenza
https://www.youtube.com/watch?v=Um65V7u5oko
3 maggio 2020, ore 16.00
Trascrizione dell’incontro
Buona sera a tutti e tutte.
Il titolo dell’incontro è
«Verso lo Stato etico. Tra populismo penale e Costituzione tradita».
Siamo qua con un po’ di amici, esperti, che (a nostro avviso) hanno le idee ben chiare sulla fase che stiamo attraversando, sulla fase che sta attraversando la democrazia soprattutto, da un punto di vista della giustizia e dell’esecuzione penale. Sta avvenendo un attacco alle libertà civili individuali e a tutta una serie di diritti che credevamo essere acquisiti, far parte del nostro bagaglio culturale e che, assieme alla nostra Costituzione, ritenevamo fossero un qualcosa di intoccabile: il diritto alla salute, alla libertà, alla l’uguaglianza. Gli stessi che i nostri padri costituenti sancirono in Costituzione come beni inviolabili, lasciando ad ognuno di noi il compito di difenderli come fecero loro e come fecero i partigiani che diedero la vita per conquistarli. Oggi invece, sul piano dell’esecuzione penale, si stanno levando dei cori che stanno segnando veramente una brutta pagina dello Stato di diritto. Si sta dicendo che non tutti i cittadini sono uguali: non lo sono sul piano del diritto alla salute, non lo sono sul piano propriamente costituzionale.
Il primo intervento sarà quello di Domenico Bilotti, per cercare di capire assieme a lui da dove veniamo e verso che cosa stiamo andando. Lo Stato di diritto è ancora tale? Possiamo ancora parlare di stato di diritto con tutto quanto quello che sta avvenendo in questi ultimi anni e in questi ultimi due mesi in particolar modo?
DOMENICO BILOTTI:
Buonasera, mi sentite? Sì perfetto. Innanzitutto ringrazio chi ha organizzato questo momento di riflessione e ringrazio chi lo sta seguendo. Mi piace iniziare questi dieci minuti di chiacchierata riportandovi un episodio simpatico accaduto stamattina: ho invitato un amico a seguire i lavori. Ho spedito la locandina e lui ha simpaticamente commentato «Tutti diffidati!», con la faccina di Whatsapp che sorrideva. Diceva qualcosa in realtà di profondamente fondato, prendendoci un po’ in giro.
Ci sono alcuni periodi storici in cui è necessario controbilanciare e con una proposta di qualità (speriamo di qualità) la lettura monodirezionale, la lettura in variante, la lettura omologante. Quella che, molto spesso, misconosce, tradisce i dati sia reali che di esperienza sia, per quello che riguarda il lavoro di alcuni di noi, i dati testuali, i dati normativi. Noi viviamo in una sorta di stordimento dove ci rimbomba una descrizione della realtà che ha uno scollamento enorme, atroce, rispetto alla realtà stessa. Non credo alle “rock star” delle soluzioni pre-masticate, delle trovate preconfezionate; quelli che hanno sempre la formula giusta, la formula inoppugnabile.
È di queste ore la notizia che finalmente, il 24 o il 31 maggio, andrà a conclusione la querelle «messe si/messe no», «chiese chiuse/chiese aperte» per effetto delle misure contenitive del coronavirus e si concluderà con un accordo bilaterale tra lo Stato e la Chiesa. Se non che, credo ci siano e ci debbano essere dei casi in cui la sola normativa statale, una franca, diretta, accessibile e proporzionata normativa statale non è affatto un ostacolo alle libertà collettive dei corpi intermedi, tutt’altro. E ci sono casi in cui la normativa regolamentata, la normativa patteggiata più che negoziata, non riesce quelle stesse libertà a garantirle e a proteggerle. Ed è una cosa che ha tenuto banco per alcuni giorni e forse anche di più. In un certo senso, è inevitabile che creino malcontento le misure contenitive dal coronavirus e lo creerebbero comunque sia sul fronte dei più disposti ad aprire a tutti i costi qualunque cosa, sia sul fronte invece dei timorosi, di quelli che vorrebbero mantenere il lock down più a lungo possibile.
Se vogliamo essere schietti e sinceri, in Italia il lock down in senso di misure contenitive restrittive forti ha interessato soprattutto le libertà quotidiane. Ci sono delle attività che non sono mai andate in vacanza, non hanno mai avuto alcun rallentamento e, probabilmente, possono essere indicizzate a causa di un aumento dei contagi. Mi sento di doverne riferire almeno due di quelle attività socialmente apprezzabili, socialmente distinguibili che non hanno subito rallentamento e rimodulazione: rispetto alla prima, mi riferisco ovviamente a un certo tipo di grande produzione industriale di scala che non si è mai disconnessa e che forse, all’inizio di questa parabola, ha proceduto senza nemmeno dare quei dispositivi sanitari che avrebbero potuto migliorare la condizione dei lavoratori e, al tempo stesso, rallentare le dinamiche da contagio da contatti; l’altro grande spazio, dove apparentemente o non apparentemente la risposta dell’Esecutivo e della legislazione, che sarebbe dovuta essere la sede preferibile si è messa a latitare e, se pervenuta, è pervenuta in modalità che a me paiono, a naso, dannose e controproducenti.
Il tema degli istituti di pena è un caso molto studiato dall’epidemiologia applicata. Il contagio dentro una comunità chiusa è la trappola perfetta perché, se non è illusorio pensare che resti lì dentro per sempre, tende a colpire tutti i componenti di quella comunità chiusa e, non appena avviene l’inevitabile contatto con l’esterno (gli operatori, il personale di sorveglianza, tutte le professionalità impiegate nella struttura penitenziaria, le relazioni con i congiunti), quando supera la soglia critica, quella comunità chiusa distrugge il proprio interno portando il danno anche fuori di sé.
Tra l’altro, io non ho condiviso il «sensazionalismo» come modo di svolgere la discussione col quale, talvolta, i social hanno dato lustro alle campagne peggiori. Non ho gradito in particolar modo il clamore che si è fatto rispetto alle ipotesi scarcerazione di esponenti della malavita ormai da alcuni decenni in carcere. E lo dico soprattutto dal punto di vista dell’ordine pubblico, non in un’ottica libertina e «giustificazionista». Non aggiungo una virgola di comprensione al male che è stato fatto decenni addietro. Sto ragionando a tutela della collettività e, particolar modo, credo che alcuni detenuti non possano essere più ritenuti muniti della stessa pericolosità che potevano avere nella parte matura e più impattante della loro genesi criminale. Insomma, non mi si farà credere che l’antimafia oggi, in Italia, sia tenere tra le mura di un istituto penitenziario detenuti fisicamente stremati, affetti da patologie pregresse e incapaci di portare avanti attività di autosufficienza quotidiana, non i destini di organizzazioni criminali ormai prosciugate. Mi sembra che siamo andati anche in questo caso appresso all’emergenza «a tutti i costi» come quando, dopo la sentenza Viola, si era detto che sarebbero stati mandati fuori i mostri di Capaci. In realtà, alcuni di quei «mostri» (se ci piace il sostantivo «mostri») sono morti da tempo, altri sono tuttora detenuti; e quelli che non rientrano né nella categoria degli scomparsi, né nella categoria dei ristretti lo hanno fatto perché sono addivenuti a non sempre veridiche (lo dicono le carte processuali) ricostruzioni dei loro stessi misfatti.
Io non voglio che questo Paese debba andare a scuola di democrazia da altri, ma mi sembra particolarmente significativo notare che, in queste settimane, si sono degnati di emanare dei provvedimenti clemenziali (che, pure, non combaciano con la nozione di amnistia della nostra Costituzione), Paesi come l’Iran sciita – interessato a una crisi economica da caro vita senza precedenti – o la Turchia prevalentemente sunnita dove, però, il presidente Erdogan usa la secolarizzazione e la ri-confessionalizzazione come strumenti di consenso politico. Che ci insegna questa vicenda? Forse quegli ordinamenti devono diventare nostro modello? Assolutamente no. Hanno percorso soltanto delle strade di razionalizzazione per la prevenzione dei contagi. Ci insegnano che le tecniche normative non sono fungibili, non sono appendici delle nostre fesserie. Ci spiegano che considerando tre fattori, quali le condizioni di salute del detenuto, il titolo di reato per cui è detenuto e il residuo di pena da scontare, possono essere indicatori molto potenti e, ripeto, enormemente ragionevoli affinché la scarcerazione non abbia alcun profilo di nuda premialità, ma sia uno strumento del beneficio collettivo.
Mi avvio a chiudere. Io non penso che stiamo tornando e, sicuramente, non penso che stiamo tornando migliori da questa emergenza. Non penso che stiamo tornando, perché alcuni dei nostri vizi non se ne sono mai andati, e ce ne dà forse ragione la stampa di questi giorni; e, certamente, non stiamo tornando migliori, perché siamo ancora comunità politica che abbisogna dell’individuazione simbolica di un grande nemico paralizzato per non affrontare i tanti problemi e le tante criticità che, altro che paralizzate, attaccano giornalmente la viva carne della nostra appartenenza «presuntamente» democratica, diciamo così.
SANDRA BERARDI:
Grazie Domenico. Ovviamente si condivide in toto il tuo intervento.
Certo, hai toccato dei punti che, presi singolarmente, meriterebbero ore e ore di discussione. Ovviamente qui non ci prefiggiamo l’obiettivo di dare indicazioni su come usciremo, ma proviamo a dare degli spunti di riflessione rispetto a quello che sta avvenendo, per far sì che ci si interroghi rispetto a quello che è realmente necessario all’interno di un’emergenza sanitaria che, invece, è stata strumentalizzata.
Come, del resto, si sta strumentalizzando in particolar modo questa questione dei detenuti messi ai domiciliari o con la pena sospesa giusto il tempo di potersi curare.
Insomma, i cori che si sono levati all’interno dell’antimafia e all’interno di alcune brutte trasmissioni, hanno processato in questa “Arena” il capo del DAP per le questioni relative alla detenzione domiciliare per motivi di salute, mentre la stampa non lo ha attaccato minimamente per i quattordici morti. Quattordici morti non si erano visti neanche negli anni “caldi” delle carceri in Italia, negli anni ‘70. Una cifra veramente scandalosa. E in tutte le testimonianze che stanno arrivando, si parla di ritorsioni e rappresaglie, violenze a carico dei detenuti (in alcuni casi completamente ingiustificate e slegate anche dai giorni propri delle rivolte del 9 e del 10 marzo); di trasferimenti indiscriminati che si stanno continuando a fare.
Cioè, noi siamo tutti quanti sottoposti a “misure domiciliari” mentre, invece, si stanno trasferendo detenuti da un carcere all’altro e, assieme a loro, si sta trasferendo anche il virus. Lo abbiamo visto con i trasferimenti da Bologna a Tolmezzo. Questa questione non è stata minimamente messa in discussione ma, nel momento in cui si va a toccare il 41 bis (a questo punto lo possiamo chiamare «alibi del 41 bis»), si levano gli scudi a difesa di questo 41 bis e, peraltro, a carico di due persone (lo ha ricordato anche il direttore Sansonetti questa mattina) che non hanno reati di sangue ma reati di tipo economico (Zagaria). Mentre invece, sull’altro caso (Bonura), è anziano, con tutta una serie di patologie e tra sette mesi avrebbe finito completamente di scontare la sua pena. Sarebbe uscito comunque.
Allora, su questo aspetto qui darei la parola a Vincenzo Scalia, sociologo che lavora in Inghilterra ma ha origini palermitane. Paolo Borsellino da ragazzino lo aiutava a citofonare alla sua ragazzina di allora..insomma! Ha un vissuto diciamo all’interno di quel territorio in quel periodo storico.
VINCENZO SCALIA:
Mah, come dire? Forse sull’antimafia si sono persi dei passaggi. Nel senso che ci si dimentica che, per esempio, uno dei primi garantisti è stato Giovanni Falcone: quando Pellegriti (un presunto pentito della mafia catanese) gli disse, durante un interrogatorio, che lui sapeva per certo che l’omicidio di Mattarella era stato commissionato da lì, Borsellino disse «Beh, dammi le prove» e al momento in cui Pellegriti non fu in grado di fornirle, fu lui stesso a sporgere querela verso questo pentito. Oppure sempre l’esempio di Buscetta, che quando disse «Io fui ospitato dai Salvo a casa loro e i Salvo avevano il caminetto nelle ville di Casteldaccia, Borsellino disse «Andiamo lì, andiamo a vedere che c’è, se c’è veramente questo caminetto». Il caminetto non c’era. Poi chiese al custode «Ma come fate d’inverno?» «Ah no guardi, montiamo il caminetto noi». E quindi si accertarono direttamente, prima di incriminare una serie di persone che, comunque, avevano già delle gravi responsabilità: cercarono di acquisire un materiale probatorio sufficiente per andare avanti in questa direzione.
Probabilmente l’equivoco di Falcone fu quello di pensare che la Direzione Distrettuale Antimafia non avrebbe comportato uno sbilanciamento verso le prerogative dell’Esecutivo, anche perché comunque Falcone lavorava nell’ 89, quando Tangentopoli era di là da venire e quindi, tutta questa ondata di punitivismo e di giustizialismo che sarebbe seguita alla crisi di legittimità della prima repubblica, era ancora lontana. Anzi, se pensate un po’ agli anni in cui Falcone andò a fare il direttore dell’ufficio degli affari penali con Martelli, furono gli anni in cui c’erano 25 mila detenuti ; gli anni in cui comunque la legge Gozzini era stata approvata da poco; anni in cui, appunto, il Ministro della Giustizia era Mino Martinazzoli… non era, che so io, Pietro Ingrao oppure Rossana Rossanda. Eppure vararono tutta una serie di pacchetti che andavano sulla scia delle grazie penali. Anche perché il ricordo del caso Tortora era una non ferita fresca, per cui si promuoveva la responsabilità civile dei giudici, si poneva il problema della presunzione di innocenza. Quindi il contesto era quello. Invece, bruscamente, prima negli anni ‘90 abbiamo la Iervolino-Vassalli e, volendo, potrebbe essere considerato il primo passo verso l’inizio del positivismo penale; poi, nel ‘92 abbiamo le stragi di Capaci; abbiamo Tangentopoli e attorno a questi eventi, per certi aspetti… Anzi! Non per certi aspetti… Per aspetti gravi! Perché comunque Tangentopoli è stata la crisi di legittimità di un sistema politico; le stragi di Capaci hanno, come dire, ferito il corpo sociale non solo della mia città natale, ma anche tutta la nazione.
Da allora, in mancanza di progettualità politica, è nato tutto un ceto politico che, sul giustizialismo, ci ha fatto la sua rendita di posizione. Tra l’altro è un’operazione che, secondo me, è stata anche incontrollata, perché non ci sono solo gli imprenditori e
politici (non necessariamente in senso negativo), ma ci sono anche gli imprenditori mediatici.
Se pensiamo a certe trasmissioni come «Samarcanda» o «Milano-Italia», a come hanno in qualche modo allevato le piazze e, in coincidenza diciamo, con l’irrobustirsi di questi nuovi canali di formazione dell’opinione pubblica, abbiamo un deperirsi di altri canali di formazione l’opinione pubblica tradizionali come i partiti, che avevano tanti difetti, però contribuivano in qualche modo ad orientare e a filtrare certe domande che provenivano dal basso. Insomma, oggi si sono formate inevitabilmente delle professionalità che lavorano (ahi noi!) sulla necessità di usare la risorsa penale ma voglio dire, Travaglio, cosa farebbe senza il carcere? Ma.. per esempio… giusto perché non c’è solo Travaglio, voglio dire… Perché, comunque, ci sono alcuni settori dell’opinione pubblica che hanno delle posizioni ambigue. Io ricordo quando, ad esempio, era al governo Prodi, Repubblica diceva «Gli immigrati delinquono, ci vuole più carcere!»; poi si va all’opposizione e si dice «Si! Gli immigrati delinquono, ma gli italiani commettono dei più seri». E siamo all’oggi. Cioè, a pensarci bene, c’è Donald Trump che insiste, dicendo che il virus lo hanno fatto i cinesi… io, da italiano, potrei avere una prospettiva complottista un po’ più stretta e poter dire che l’hanno fatto Grillo e la Casaleggio associati ‘sto virus! Perché, a vedere i sondaggi, abbiamo una netta risalita della china da parte del movimento Cinque Stelle: Conte ha un indice di popolarità che equivale al 66 per cento e questa risalita è dovuta, ancora una volta, all’utilizzo del risorsa penale. Grillo e i Cinque Stelle sono l’evoluzione, lo stadio finale, di un processo che appunto è iniziato con Tangentopoli. Perché ancora con la Iervolino-Vassalli, comunque, si poteva ancora discutere. Quindi, da Di Pietro, si è passati attraverso Travaglio e poi arrivati a Grillo. Diceva Durckheim che la pena non protegge la società perché buona, è buona in quanto protegge la società. Ed è esattamente questo che stanno facendo, sia con l’utilizzo del 41 bis, che con quello della risorsa penale: è un utilizzo funzionale a creare consenso, in questo momento più che mai.
A maggior ragione c’è la necessità di tenere unite le varie componenti della società, di prevenire ogni spinta centrifuga, proprio a partire da un uso della penalità che sia doppio: quello repressivo classico, più becero.. quindi non si varano delle misure, dei provvedimenti clemenziali.
In questo senso, Domenico, sono d’accordo col discorso sull’Iran e sulla Turchia però attenzione, perché Iran e Turchia hanno anche un apparato polizia molto diffuso a livello di quartiere, di vicinato, quindi se mandi i detenuti agli arresti domiciliari, poi c’è sempre un controllo capillare che viene fatto sul territorio. Semmai possiamo parlare dell’Inghilterra, che sta portando avanti dei provvedimenti clemenziali, deflattivi del carcere. Siccome io lavoro in Inghilterra, c’è stata anche la British Society of Criminology che ha promosso un appello per il varo di provvedimenti clemenziali. Ad esempio, in Italia questo non è successo: mi dispiace, mi ci metto pure io tra i colpevoli, ma da parte del mondo accademico e dell’opinione pubblica più cosciente, a provvedimenti del genere nemmeno si pensa! Questo ci deve fare riflettere su quanto, diciamo così, le spinte giustizialiste siano profondamente radicate all’interno dell’opinione pubblica italiana. Perché non si riesce nemmeno a dire che si possa e che si debba. Anzi, addirittura io ho visto dibattiti su Facebook per esempio, ma anche quando si fa la coda al supermercato, che dicono «Ma noi non siamo agli arresti domiciliari!». Perché comunque sia, la differenza con i carcerati è che i carcerati se lo meritano di stare in carcere! Quindi, una volta che sei in carcere, il problema viene rimosso. Perché te lo meriti. Ti meriti anche magari di morire di Coronavirus, ti meriti anche di morire se tu ti ribelli e se vieni represso dalla polizia. I quattordici morti che dice Sandra.. E questa è la cifra ufficiale! Vorrei vederci un po’ più chiaro perché noi sappiamo bene che, per esempio, ci sono 60 suicidi l’anno nelle carceri italiane, ma ci sono anche delle morti che, delle volte, vengono classificate in maniera diversa e sono altro. Quindi questo è l’aspetto repressivo che proprio è la cifra di questo Governo: la cifra di questa coalizione governativa, che non può fare in questo momento in modo differente. Salvini e la Meloni sono disperati. Vedete Salvini che organizza la veglia in Parlamento.
E poi c’è l’aspetto preventivo: per esempio, la «app.» Immuni, che riguarderà tutti noi. In qualche modo è una specie di braccialetto elettronico per tutti i liberi cittadini, perché vieni tracciato tu, viene tracciata la gente che frequenti e quindi tutti siamo passibili di controllo, di essere rintracciati. Se qualcuno dei nostri contatti è risultato positivo veniamo bloccati, fino a successivi accertamenti. Ma che cos’è questa storia? Stiamo parlando di una nuova misura di controllo che, praticamente , mentre adesso in qualche modo è più pesante perché è su tutto il territorio, dopo diventerà più leggera ma anche più invasiva. Quindi, anche su questo aspetto ci dice qualcosa il titolo dell’incontro di oggi, «lo Stato etico», il dirci cosa è bene e cosa è male. E’ esattamente questo lo Stato in questo momento. Ma, d’altronde, si sta giovando di una legittimazione anche dai settori dell’opinione pubblica, abituati a considerarsi come libertari in questo momento. Sta ricevendo una legittimazione dal basso a portare avanti queste misure. Quindi, figuriamoci… il 41 bis è una; la continuazione dell’ erogazione delle misure afflittive è l’altra e poi ci sono queste strategie preventive. Perché secondo me, appunto, il 41 bis lo utilizzano anche come dire «Guardate, sappiamo che la situazione è pesante e che dopo che finirà questa fase sarà ancora più pesante». A me raccontavano che a Palermo ci sono già i bambini che cominciano a fare dei furti per delle irrisorie. E quindi preparatevi, perché lo potrebbero estendere anche a voi! Non ci dimentichiamo che il 41 bis è nato per il terrorismo e poi da lì è stato esteso alla criminalità organizzata: quindi potrebbe essere uno strumento da attuare anche per altri per altri tipi di reati.
Io mi preoccuperei molto di questo. Poi sono d’accordo con quello che dice Domenico sul fatto del provvedimento deflattivo/ clemenziale: dobbiamo lavorarci, perché si sta facendo in molti Paesi. Si sta facendo appunto in Inghilterra; si sta facendo anche in altri luoghi che hanno una cultura giuridica lontana dalla nostra.
Secondo me dovremmo riflettere su quello che ci aspetta dopo. Su questa parte preventiva dell’utilizzo della risorsa penale che, in questo momento, secondo me si sta costruendo: e quindi dovremmo arginare questo processo di costruzione di una nuova penalità di uno Stato etico prima che prenda piede. Come fare? In questo momento non mi vengono delle idee, non ho le idee chiarissime ma insomma, siamo qui per discuterne. Detto questo, io cedo la parola al prossimo relatore. Vi ringrazio per essermi stati a sentire.
SANDRA BERARDI:
Grazie Vincenzo! Sicuramente il tirarli fuori è un qualcosa anche in deroga a quello che è stato, appunto, il «non provvedimento» a questo punto, di questo Governo. Per quanto riguardava le carceri in questa fase di emergenza, se ne sono preoccupati magistrati di sorveglianza assieme a direttori, quelli un po’ più illuminati, di iniziare a vedere quali erano le patologie, le urgenze, le vulnerabilità all’interno del carcere; i soggetti che avrebbero risentito maggiormente del possibile contagio o che, comunque, avrebbero potuto portare a morte certa. Hanno iniziato a da metà marzo, dal 20 marzo a concedere più misure domiciliari, andando a ripescare in qualche modo anche le istanze di sospensione della pena per motivi di salute. Oggi la magistratura di sorveglianza è di fatto commissariata dai magistrati antimafia. Tanto la magistratura di sorveglianza, quanto il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, per un documento di ricognizione di quelle che erano appunto le fragilità all’interno del carcere, come nel resto della società civile, si ritrovano commissariate dall’antimafia. Con discorsi da parte della grande stampa, dell’opinione pubblica, della magistratura e di tutto l’arco istituzionale e politico, che rasentano in qualche modo l’eversione. Come ricordavate prima negli interventi precedenti, già all’indomani della sentenza di Strasburgo e del pronunciamento della Corte Costituzionale sull’illegittimità e incostituzionalità del 4 bis in alcune parti, si sono levati gli stessi cori che rasentano in qualche modo anche l’eversione .
Ora, sul ruolo della magistratura di sorveglianza, sullo snaturamento anche della magistratura di sorveglianza, a cui si vorrebbe affidare quasi un quarto grado di giudizio, sentiamo Laura Longo: ex presidente del Tribunale di sorveglianza dell’Aquila. Per lungo tempo, anche magistrato di sorveglianza del 41 bis. Buonasera Laura.
LAURA LONGO:
Ciao Sandra, grazie. Grazie davvero. Sono stata magistrato di sorveglianza a L’Aquila e a Roma, avendo giurisdizione anche sui 41 bis, come sappiamo, per le donne.
Cosa dire? Guarda io, va beh la premessa è ovvio che mi trova totalmente d’accordo con voi. La magistratura di sorveglianza è purtroppo, ahimè, abituata storicamente a subire questi attacchi non solo mediatici ma anche governativi: perché, ogni qualvolta che si vada a concedere un beneficio, e ci sia un esito infausto, o quel beneficio scomodava qualcuno, o strideva con la coscienza sociale, immediatamente partiva l’ispezione, poi favorita dalla propaganda mediatica.
Qui secondo me, in questa situazione, c’è qualcosa di più. Perché vedete: eravamo abituati a questo e abbiamo dovuto sopportare lo snaturamento che dell’Ordinamento Penitenziario è stato fatto negli anni da quando, nel periodo ’90-’91-’92, i benefici per talune fasce di delitti sono stati soggetti a preclusioni e a condizioni ben precise che noi conosciamo. Ma temo che questa volta sia ancora più grave perché vedete, questo DL come un’accetta, a mio modo di vedere (e lo dico con grande sofferenza), è andato ad incidere su istituti che non realizzano o realizzavano il principio, pur importantissimo (costituzionale) della rieducazione ma, addirittura, sull’umanità della pena. Principio già sappiamo bene quanto violato nella materia delle modalità di esecuzione della pena. Ad esempio il 41 bis, che abbiamo tante volte assimilato alla tortura. Ma qui per la prima volta, secondo me, si va a incidere proprio sugli istituti giuridici attribuiti alla magistratura di sorveglianza che sono, se mi consentite un momento anche di riflessione tecnica perché forse è importante, a livello informativo, per capire la valenza della gravità: i permessi di necessità e il differimento della pena.
Ora, sono entrambi istituti che vogliono realizzare e garantire, direi, l’umanità della pena di cui all’articolo 27 della Costituzione (“la pena non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”) e l’articolo 3 della Cedu.
Vediamo un attimo questo commissariamento e cioè questa subordinazione quasi, che il legislatore vuole dare rispetto agli uffici della procura. Bene. L’articolo 30, è bene che si sappia, è stato introdotto nel 1975 con l’Ordinamento Penitenziario (quindi, non nell’ 86) al solo ed unico fine di consentire e garantire a tutti, indistintamente, i detenuti condannati e internati, la possibilità di vivere i momenti fondamentali per un essere umano, che sono: stare accanto a chi, purtroppo, sta facendo il passaggio dalla vita alla morte (imminente pericolo di un familiare, primo comma) o, eccezionalmente, per gravi eventi di carattere sempre familiare quali, nella casistica giurisprudenziale per esempio, partecipare al funerale un congiunto; recarsi alla tomba in caso di morte di un congiunto (si pensi alla morte un fratello), eccetera. Cioè, sono veramente fondamenti della civiltà umana e non penso di scomodare non opportunamente Sofocle quando, con Antigone, ci ricorda che la legge positiva non può mai andare contro al diritto naturale, alla coscienza comune.
Cosa succede, che l’articolo 30 O.P., pensate un po’, talmente aveva questo obiettivo di dare la possibilità a tutti, anche i detenuti, di accompagnare i propri familiari in punto di morte, o di condividere il dolore con i parenti nell’ipotesi di decesso di un familiare, o di omaggiare attraverso il recarsi alla tomba, che non c’era proprio il profilo di pericolosità sociale. Noi da qui dobbiamo partire: l’articolo 30 prevedeva solo che permessi di necessità si potessero dare (ma il “potessero” era sui presupposti) con le opportune cautele di cui al regolamento. Cioè a dire: il regolamento diceva che il magistrato di sorveglianza doveva dare le prescrizioni più opportune in ragione della personalità del soggetto e dell’indole del reato. Dunque, secondo me, questo è un passaggio importantissimo per farvi capire l’eversione normativa cui stiamo assistendo: non c’era il profilo di pericolosità sociale! Il profilo di pericolosità inciderà sul tipo di prescrizioni: con scorta, senza scorta; con le manette,senza manette; piuttosto che assistere, nell’ambito familiare, o funerale qualora ci fossero problemi (pensate 41 bis, potevano esserci problemi di contesto sociale); farlo però allora recare alla tomba, in solitudine. Questo era il profilo. Guardate cosa succede ora con l’eversione normativa, per concedere quel permesso che veniva concesso senza, ripeto, questa valutazione della pericolosità sociale: tant’è che l’articolo 30 bis ci dice, al primo comma, che prima di concederlo, le uniche informazioni che potevano essere acquisite tramite le autorità di pubblica sicurezza riguardavano i motivi addotti (cioè è deceduto/non è deceduto, è congiunto/non è congiunto) e il luogo, cioè la situazione ambientale; e invece ora, prima di concederlo, il magistrato di sorveglianza deve, attenzione, acquisire non informazioni ma addirittura un parere. Guardate che è la prima volta che si parla di parere! È la prima volta che viene introdotta l’acquisizione di un parere, anche là dove è richiesto un intervento della procura: in tema di accertamento della collaborazione per concedere i benefici, si parla di acquisizione di informazioni e non è da poco questa differenza. Perché una cosa è dare informazioni, fatti, altro è un parere, che è una valutazione. Un parere è una valutazione. Bene, questo parere viene chiesto alla distrettuale (il pm del capoluogo dove il tribunale ha emesso la sentenza) e, in caso di 41 bis, a questo si aggiunge anche quello della dna.
Vediamo i primi profili. Siccome questi pareri, quindi valutazioni, attengono alla attualità dei collegamenti e alla pericolosità, sono due i profili: attualità dei collegamenti e pericolosità del soggetto. Immaginate voi, perché noi stiamo parlando di detenuti che possono eseguire la pena a distanza di anni, immaginate voi cosa ne sa sull’attualità dei collegamenti e della pericolosità il pm del capoluogo del distretto del giudice che ha emesso la sentenza magari 10- 15 anni fa. Prima obiezione. Questo per i delitti più importanti, quelli del 51 codice di procedura, diciamo prima fascia del 4 bis, che coincidono. E che dire del 41 bis? Perché allora si assiste al paradosso: per dare un permesso di necessità il magistrato di sorveglianza, in caso di soggetto sottoposto al 41 bis, oltre a questo pm, dovrà interpellare per il parere la dna sotto il profilo dell’attualità dei collegamenti. Ma abbiate pazienza.. se la dna dovesse arrivare a dire, cosa che ovviamente non farà mai, ed esprimere quindi un parere favorevole, perché non c’è attualità di collegamenti, mi spiegate perché il 41 bis? Immediatamente si dovrebbe revocare il 41 bis, no? Dunque ai 41 bis non si darà mai più un articolo 30: perché è vero che sulla carta non è vincolante ma, immaginate voi, se prima i magistrati siamo stati tutti crocifissi per questo tipo di parere, siamo stati tutti soggetti al fatto che il DAP non eseguiva i 30 ricordandoci che erano pericolosi e noi dicevamo, quando avevamo il coraggio di farlo, si esegua ugualmente (quindi tutti eravamo sotto la spada di Damocle dei procedimenti disciplinari). Ma immaginate ora, se un magistrato di sorveglianza vada a disattendere quello che sarà nella prassi il parere negativo della dna per 41 bis, o di quel famoso procuratore distrettuale di 10-15 anni fa che non si capisce cosa debba dire sull’attualità. E questo è per il permesso.
Andiamo all’altra materia che è stata attinta da questo decreto legge che, come al solito, sull’onda dell’emergenza e di questo consenso che sull’emergenza si fonda, è andata a fare. Bene, ricordiamoci che 147 (cioè il differimento facoltativo) e il 146 sono del codice penale. Dunque, noi dobbiamo dire che in pieno autoritarismo, in pieno fascismo (1930), sulla base di riflessioni che dal 1925 erano state fatte da una commissione composta da giuristi, magistrati, avvocati, professori erano stati introdotti questi due istituti dove, nella relazione del guardasigilli, si dice espressamente che di fronte al diritto alla salute, la potestà punitiva dello stato deve recedere. In pieno fascismo. Beh, oggi invece che cosa si dice si dice? Che tra il diritto alla salute, articolo 32 della Costituzione che, badate bene, è l’unico diritto che espressamente viene qualificato dalla Costituzione come fondamentale: l’unico per il quale espressamente la Costituzione ci dice che costituiva, fin prima che la Costituzione fosse adottata, a maggior ragione ora, il limite all’esercizio della potestà punitiva dello Stato. Ed invece ora.. e badate che siccome il Codice Rocco è fatto, tutto sommato, nella parte generale da persone pensavano, l’ultimo comma dell’articolo 147 diceva che nel valutare se concedere o meno questo differimento della pena anche in costanza di esecuzione della pena e , quindi, scarcerare la persona, si dovesse escludere il pericolo di recidiva. Quindi una valutazione qui si, non è per il 30, ma una valutazione sulla pericolosità il magistrato già la doveva compiere. Ma il pericolo di recidiva, che si desume dalla gravità del fatto, dal percorso trattamentale dal grado di risocializzazione è molto più concreto di queste generiche e fumose terminologie dell’attualità dei collegamenti e pericolosità sociale. Sappiamo bene quanto essa sia generica e foriera di gravi conseguenze. Bene. Ora la magistratura, per il detenuto “mafioso” affetto da gravi patologie che gli danno il diritto di morire dignitosamente, come ha detto la Corte di Cassazione nella famosa sentenza del 2017 di Riina, non potrà più farlo se la nostra direzione nazionale antimafia per il 41 bis, più il pm (perché si aggiunge), più il famoso distrettuale eccetera eccetera ci diranno che ci sono questi collegamenti.
Guardate, io ho fatto il magistrato di sorveglianza per più di 30 anni e queste non sono informazioni, vedete sono pareri, sono in genere non motivati («si esprime parere contrario»); se sono motivati, si motivano con tutta la storia giudiziaria del soggetto senza tener conto di elementi nuovi ed attuali. Dunque la magistratura deve trovare il coraggio di andare a motivare e a dire che queste sono formule apodittiche, che queste sono formule generiche, eccetera. Secondo voi lo potrà fare? Secondo voi la magistratura di sorveglianza è nelle condizioni ancora di farlo? Appunto si parla di «commissariamento». E un sorriso mi viene da farlo. Perché sorrido? Perché questo legislatore, nella fretta di, appunto, dare questo segnale simbolico a cui siamo ormai abituati dagli anni 90 e immediatamente dire «Mamma mia, questi boss devono marcire in galera!»: il simbolo di marcire in galera perché l’umanità della pena è finita; siamo alla vendetta dello Stato. Però vedete la tecnica legislativa quanto è sottile.. Ed è bene un po’ sottolinearlo questo perché dice che, nell’ipotesi degli articoli 146 e 147 del codice penale, con applicazione della detenzione domiciliare ex 47 ter comma 1 ter O.P. che è il comma aggiunto nel 1998 dalla legge Simeone.
Cioè, siccome stanno rispondendo a queste scarcerazioni che erano state fatte con la modalità della detenzione domiciliare (non è una scarcerazione tout court), prevede solo questa ipotesi. Ma scusate: il differimento della pena, sia obbligatorio che facoltativo, può essere dato senza la detenzione domiciliare. Sono istituti che nascono come scarcerazione. Poi nel ‘98 viene data la possibilità di metterli agli arresti domiciliari, nell’interesse tra l’altro del soggetto che voleva magari che si computasse il tempo di espiazione della pena. Per giurisprudenza è stato detto “Bene. Per la magistratura è un modo per contenere margini di pericolosità” quindi, si ricorreva a questi a questa detenzione domiciliare che postula però i presupposti del differimento (codice penale) tutte le volte che si è diceva “ha un calibro criminale; ha un grande spessore, per cui è meglio metterli agli arresti. Ma si è scordato il legislatore che il 147 e il 146 obbligatorio si possono dare con scarcerazione “secca”. Quindi potremmo arrivare all’assurdo, se non pongono rimedio, che con gli arresti domiciliari (cioè con la misura più contenitiva) si deve dare solo con questi pareri della procura; se, invece, il magistrato lo voglia dare tout court, potrebbe fare a meno di questi pareri che non sono previsti. Ci rendiamo conto? E ci rendiamo conto che hanno inciso anche sull’articolo 146 codice penale che è il differimento obbligatorio? Sapete quando è obbligatorio il differimento, oltre ai malati di aids? Quando il soggetto è arrivato ad una fase tale da non rispondere più a terapie e alle cure. E questo ci tenevo a dirlo perché vedete, è triste penso, per tutti magistrati di sorveglianza, non solo applicare questa legge ma sentirsi parte di questo sistema. È un sistema che ha trasformato la veste della magistratura di sorveglianza da anni, lo sappiamo: è nata nel ’75, poi nell’ ‘86 con la Gozzini, come magistratura di garanzia dei diritti, no? lo statuto dei diritti dei detenuti e degli internati.. per diventare invece purtroppo, dopo gli anni Novanta, il problema della mafia e quant’altro la magistratura cui veniva chiesto che cosa? Di applicare il diritto del nemico, no? Cioè di partecipare alla guerra contro la mafia. Dunque è una magistratura ora commissariata, con le armi spuntate perché è la più debole.. e che vi devo dire? Resistenza civica? Ma chi si sdegna? Il consenso purtroppo va dall’altra parte, mica nella battaglia del 41 bis. E se va in Parlamento pensate che ci sia possibilità che non venga convertito? Ma come.. Anzi! No? Le forze di destra saranno pronte anzi ad eliminare proprio, forse, questi istituti. Dunque un momento molto triste e veramente, con molta serenità, io davvero mi sento di dire e di definire questo intervento legislativo come il più grave perché ripeto, incide su istituti che vogliono realizzare l’umanità della pena. Quindi posso solo esprimere la mia indignazione.
SANDRA BERARDI:
Grazie Laura Longo, veramente un intervento molto sentito, perché chi fa con coscienza il proprio lavoro come lo hai fatto tu (infatti sei ricordata benissimo anche dai detenuti), è terribile sì! Però è umana, giusta, equilibrata ecco: questo è il ruolo che dovrebbero avere i magistrati di sorveglianza che, di fatto, sono da anni non solo con le armi spuntate, ma proprio con le mani legate. Tant’è che ci sono decine e decine di richieste da parte di detenuti e che rientrerebbero in questa 199 e rientrerebbero all’interno di quel quadro più ampio di patologie e quindi di rischio, che di fatto sono bloccate. E ci stanno pensando più e più volte prima di poter emettere un provvedimento. Stiamo assistendo a un qualcosa di scandaloso. Mandano a casa i detenuti dopo che risultano essere positivi al Covid: quindi prima si fanno infettare, si lasciano all’interno delle sezioni di isolamento insieme a persone magari asintomatiche, ma sarà stata solo un’influenza; però, poi, sono soggette a contagio. Ovviamente non lo dico io, ma chi sta sul campo.
L’attacco indirizzato ai magistrati di sorveglianza lo stanno vivendo anche i Garanti: per fortuna che ci sono i Garanti. Per quanto anche loro vengono ripetutamente attaccati da forze politiche e da sindacati di polizia penitenziaria, perché li vedono troppo vicini ai diritti dei detenuti. quindi il garante, il magistrato di sorveglianza un po’ fanno il paio all’interno di questo quadro giustizialista, che vorrebbe la pena non come esercizio della giustizia ma come esercizio di vendetta.
Introduco il prossimo intervento che è Samuele Ciambriello, Garante campano dei detenuti, che è praticamente da due mesi è in trincea tanto all’interno delle carceri campane (insieme al suo collega cittadino Pietro Ioia), quanto nel relazionarsi con i familiari, che non riescono ad avere in nessun modo notizie. Quando si parla poi di emergenze e di sospensione dei diritti si parla anche di avvocati che scrivono alle carceri non ricevono nessuna risposta.
SAMUELE CIAMBRIELLO:
Innanzitutto ho ascoltato con piacere e, da oggi, mi dichiaro “prigioniero politico” di Sandra che, alle ore 16 di una domenica bella, gioiosa, familiare, ci impone queste riflessioni in una “direzione ostinata e contraria” dopo che ero riuscito oggi, alla borsa nera, a prendermi qualche pasticcino e qualche dolce. Ti perdono, va bene? E voglio dire però che voglio rompere questo clima “ecumenico” dandovi un paio di notizie. Innanzitutto sento parlare dappertutto in televisione, il giornale, di “distanziamento sociale”: mi spaventa, questo neologismo che è dettato dall’emergenza del covid 19. Vedete, io mi ritrovo a riflettere intorno a questo argomento e mi rendo conto, lo voglio dire a voi come testimonianza, che tutta la mia vita (con le diverse cose che ho fatto nella mia vita) io ho combattuto contro questo concetto: il distanziamento sociale. Poi mi fa paura un’altra parola che sento dire spesso in questi giorni: penso al termine emergenza. “Siamo in emergenza, in emergenza!”. Vabbè, a proposito di emergenza, io vi annuncio che domani mattina, alle 7, inizierò diciamo le mie visite con i familiari a partire dalla lettera C (quindi Berardi, tu arriverai in coda!). Allora l’emergenza ci da la possibilità tante volte di non capire di vivere uno stato d’ansia; spesso, diciamo, questo stato d’ansia ci porta a trovare sempre il colpevole, il nemico fuori da noi. E poi c’è il carcere, terza parola: carcere. Questo grande rimosso sociale che ritornerà a rappresentare l’unica vera cartina di tornasole della nostra civiltà. Innanzitutto, l’anagramma di carcere è “cercare” e questo mi fa ben sperare. Però, però.. non so se le dichiarazioni che sto leggendo di Nando Dalla Chiesa sono prima o dopo i pasti.. Nando dalla Chiesa, esperto di mafia internazionale, in un’intervista su radio popolare, ha affermato che le rivolte carcerarie si sarebbero fermate in cambio della detenzione domiciliare ad alcuni detenuti al 41 bis; siamo alla follia! Siamo oltre la follia! Siamo da trattamento sanitario obbligatorio amici miei! Ma di che parliamo? Se uno agisce così, parla così, che dobbiamo fare più? È la fine. Nella giornata tra l’altro dove io, in mattinata, ho visto invece un’altra dichiarazione di tutt’altro tipo, che mi ha portato, diciamo, un poco di speranza. Voglio dirlo perché stiamo parlando di carcere. Gherardo Colombo che ci ha spiegato perché il carcere è da abolire e dice “l’idea di mandare in galera una persona mi tormentava mettendomi davanti a interrogativi insolubili e angosciosi. Ho cominciato a pensare che il carcere non fosse più compatibile con il mio senso della giustizia, la mia concezione della dignità umana, la mia interpretazione della costituzione. Più che pensare, in realtà sentivo, sentivo tutta l’ingiustizia della prigione.. Era ormai intollerabile. Perciò, dopo anni passati a pensarci, ne ho tratto tutte le conseguenze”.
Perdonatemi, io insegno teoria e tecnica della comunicazione.. Penso che questi due casi di oggi potrebbero essere dibattuti nelle aule, diciamo, dei nostri studenti , potrebbero essere dibattuti da noti psichiatri nazionali e internazionali. Ma veniamo a noi però, perché altrimenti, lo voglio dire con il cuore più aperto, anche alla dottoressa Laura Longo. Dottoressa Longo, è vero che io nella mia regione sono 6572 diversamente liberi in questo momento e 7.454 persone in un’area penale esterna, non ho il 41 bis ma gli ex 41 bis. Mi rifaccio a tutto quello che avete detto voi, mi rifaccio addirittura al mio leader che è il Papa che dice “l’ergastolo non è la soluzione dei problemi, ma un problema da risolvere” e fin qui ci siamo; ma Dottoressa, ma lei quanti casi vuole di persone, non da 41 bis, che devono scontare un anno, due anni, tre anni, quattro anni di carcere e non hanno avuto la possibilità di andare a visitare il figlio appena nato con un permesso di necessità. Diciamo la verità, noi garanti siamo contenti di tante scelte dei magistrati di sorveglianza, che io ritengo siano “i cavalieri dell’Utopia”, ma io le posso registrare in Italia, in Campania, delle scelte di asimmetria che fanno male: cioè, con le stesse questioni, la discrezionalità.. Ma capirà che non è una critica: è un modo per dire “riflettiamo un po’ di più!”. Io l’anno scorso, insieme ai miei collaboratori, in Campania, abbiamo fatto più di 1200 colloqui individuali ma, lasciamo stare il sovraffollamento.. era malasanità e malagiustizia di magistratura di sorveglianza che si lamentavano, mica si lamentavano delle pastarelle che mancano! Poi si lamentavano anche di altre cose diciamo, per carità.. Quindi io voglio dire questo! Perché già un governo.. ma quale governo giallorosso? Questi, sto pensando, per fare una battuta al presidente del Football Club “borgo rosso”: Conte potrebbe essere questo, il Presidente. Perché in Italia, il peggiore dei ministri della Giustizia è stato uno che era comunista italiano: Oliviero Diliberto, di cui non ci ricordiamo più niente! E che è andato a scontare i propri peccati in giro. Ce lo vogliamo dire: in questo momento, il partito democratico la sinistra articolo 1, Renzi si sono appiattiti sul livello della giustizia e delle carceri. Vogliamo trovare un avvocato che denunci i parlamentari che hanno votato il decreto la metà di marzo? Dove sta scritto al 123 e 124, purtroppo, che se uno deve stare sei mesi ma si è comportato bene in carcere, non ha reati ostativi, non è un 41 bis, è un bravo chierichetto, esce subito; se uno deve scontare da un anno e mezzo a un anno e non ha reati gravi, reati di sangue, 41 bis; non ha avuto una relazione negativa comportamentale dal carcere nell’ultimo anno, può uscire con braccialetto elettronico! E quando l’hanno scritto, questi farabutti di deputati e senatori, sapevano che era una farsa. Questa farsa è diventata una tragedia nelle settimane successive. Quattro giorni fa un detenuto giovane di Aversa, che il magistrato di sorveglianza aveva detto a lui e altri nove di uscire con i braccialetti, ha provato ad impiccarsi; dopo il casino che abbiamo fatto qui in Campania, insieme alla direttrice del carcere, sono arrivati ad Aversa l’altro giorno tre braccialetti e uno per questo detenuto, che così è andato in una Caritas nella provincia di Salerno. E gli altri sette che aspettano? Ancora aspettano.
Ma io dico questi dati, che possono sembrare piccole cose dal valore non quantificabile, perché da qui che misuriamo il livello di attenzione di chi governa la giustizia e le carceri.
E basta mettere sempre magistrati al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria! Mettiamoci operatori del terzo settore, cappellani, professori universitari; che cos’è questa cultura? Questa è una cultura etica e io ho paura di questo stato etico, che continua a mettere i magistrati in questi posti. Ma la vogliamo finire? Ma noi, non lo so che altro deve succedere. Ormai le carceri sono una polveriera a miccia corta, che altro deve succedere?
E quindi io chiedo per tutte queste persone la possibilità.. Piera pesa 37 kg a quarant’anni. Sta nel carcere di Santa Maria Capua Vetere perché quando aveva avuto ( Dottoressa Longo le chiedo questa possibilità di dialogare),
quando aveva avuto l’incompatibilità nella sua Regione dal magistrato, dopo la relazione sanitaria, chiaramente della relazione sanitaria del direttore sanitario, lei aveva avuto gli arresti domiciliari la possibilità di frequentare un corso di formazione e non poter frequentare diciamo dei pregiudicati. Un giorno dà un passaggio a una sua amica insieme al fidanzato dell’amica, che è stato scoperto poi che questo fidanzato era un pregiudicato. Beh, la prendono l’arrestano e la portano a Santa Maria da sei mesi. Ha due tumori. Ma ancora non si può utilizzare già la vecchia incompatibilità? I sei mesi fatti in carcere? Due tumori! Pesa 37 kg. L’altro giorno io non riuscivo a parlare con lei al telefono.. non c’è solo il 41 bis, va bene? Ma io racconto questi fatti perché mi sento impotente! Non so che dobbiamo fare. Oppure, nello stesso carcere dove è successo a Benevento, l’ho detto prima, un detenuto non è stato autorizzato ad uscire con la scorta per vedere il figlio nato e poi voleva anche dichiarare la sua paternità.. Allora queste asimmetrie.. Ci vorrebbe un comitato di garanti. Potremmo, in qualche circostanza, entrare non diciamo in punta di piedi.. spesso qualche volta sbagliamo i tenori e, diciamo, entriamo a gamba tesa. Però sono piccole cose ripeto, che mi lasciano perplesso.
Le poche persone uscite con questi due decreti e nessuno dice del grande coraggio dei magistrati, anche inquirenti, oltre che dei magistrati di sorveglianza che, piuttosto che applicare (era imperfetta questo 123 e 124) la falsa copia della 199,
in molti casi hanno avuto il coraggio di applicare direttamente da 199.
Io vi dico tutto questo, e chiudo, perché già il carcere è un rimosso sociale.. Ma se noi facciamo le battaglie e le sto facendo pure io, per carità, sul fatto della Costituzione, delle leggi, della Corte Costituzionale che si è pronunciata sull’ illegittimità costituzionale dell’articolo 4 bis comma 1.. Corte costituzionale! Non i Garanti d’Italia! Perché la concessione dei permessi premio non è che si deve dare soltanto quando uno collabora.. e che vuol dire collabora? E in assenza di collaborazione con la giustizia io non ti do nessun permesso premio? Per carità, io mi rendo conto che il punto di partenza può esserci, questo della collaborazione, che non è una cosa sbagliata, può essere importante di fronte alla criminalità organizzata. Io personalmente mi rifaccio ai pentiti della grazia, non ai pentiti della legge perché poi vedo che questi pentiti che hanno ammazzato 70-80 persone o un bambino nell’acido, poi ne fanno arrestare altri dieci. Lì non c’è l’indignazione sociale, escono. Allora io dico, attenzione “agli Esposito” (senza offese ai miei conterranei che si chiamano molte volte Esposto), cioè quelli la cui attenzione qualche volta nelle carte… Dice “Professore, adesso abbiamo messo anche il polo universitario a Secondigliano” grazie, diciamo, ad un insieme di attori e in particolare alla sensibilità che ha avuto all’epoca rettore Manfredi. Con Federico II ci sono 24 detenuti dell’alta sicurezza che stanno studiando e una trentina di detenuti comuni; ma quando lui in carcere, che deve scontare 18-20 anni, poi si diploma, si laurea beh.. io non accetto la parola “trattamento” come se fossero le bestie; c’è una relazione trattamentale positiva, passano 26 anni di carcere e che altro deve attendere questo “cristiano” per uscire?
Io mi accontenterei di evitare meno asimmetrie sul piano giuridico; di mettere in campo risposte non sempre, diciamo, all’altezza da parte dei politici. Guardate, c’è stato un appello al Presidente della Repubblica dal Papa, dall’ Associazione Nazionale Magistrati, dal Garante Nazionale, Garanti regionali… tante associazioni di intellettuali! Ma questi non sentono, perché si rifanno al consenso.
Sta terminando la stagione dei diritti e io di questo pure sono molto preoccupato. Insomma, tutte queste paure che stanno in giro , come le stesse malattie , spesso sono alimentate da povertà, disuguaglianze, però io sono un po’ preoccupato.. mi auguro che mi smentiscano, voglio dargli una mano. Per esempio già il numero uno del DAP, e il numero due, sono due magistrati che vengono da un’esperienza diciamo attiva della magistratura e ha indagato sui fatti di mafia e camorra, però io sono per mettere in campo una cultura costituzionale del carcere e dell’esecuzione penale. Vi ringrazio.
SANDRA:
Grazie a Samuele, per l’intervento accorato e appassionato di chi veramente sta vivendo di riflesso, ma interiormente, anche quello che sta avvenendo, che assorbe tutto quanto il malessere che viene dall’interno e dall’esterno delle carceri, di tutte le assurdità invece che si stanno muovendo a livello istituzionale. Dei provvedimenti legislativi che vanno contro la Costituzione vanno contro i diritti umani. Laura Longo ha parlato di «eversione legislativa» rispetto a quello che sta avvenendo. Ma è possibile che due testate giornalistiche riescano a trascinare un’intera opinione pubblica? Perché di questo si tratta: non si tratta di provvedimenti finalizzati a garantire effettivamente la sicurezza. La sicurezza attuale si sarebbe dovuta attuare solo ed esclusivamente su un piano sanitario, su un piano di emergenza sanitaria che avrebbe dovuto mettere al riparo tutti e non si sarebbe dovuta subordinare né al titolo del reato né alla quantità di pena residua; come in altri Paesi, che sicuramente non sono democratici – è stato riportato l’esempio della Turchia di Erdogan- che però hanno ragionato da un punto di vista preventivo rispetto all’emergenza che stiamo vivendo, ma anche da un punto di vista politico.
Il fatto stesso che abbiano trattenuto solo i Kurdi, i prigionieri politici, ci dice che Erdogan ha ragionato politicamente mentre in Italia non c’è né un ragionamento politico né un elemento oggettivo. Per quella che è l’emergenza in atto, si va dietro alle opinioni di “opinionisti” e di alcuni pezzi della magistratura, mentre non fanno testo gli interventi dei magistrati di sorveglianza oppure del Coordinamento Nazionale dei Garanti, oppure dell’organizzazione mondiale della sanità o della Commissione europea dei diritti umani.
È intervenuto anche Salvi. Anche lui è amico dei mafiosi? Perché di questo si sta parlando: «Chi difende i diritti dei detenuti, siano essi ladri di galline siano essi grossi boss, diventa automaticamente amico della mafia e dei criminali». Ecco, questo non è quello che ci dice la Costituzione, non lasciare nessuno indietro significa che il carcere ha uno scopo è quello dovrebbe perseguire. Dovrebbe perseguire il reinserimento e il recupero della persona condannata, come giustamente ricordava Laura, l’articolo 27, l’articolo 25 che parlano di questo non ci parlano di condannare e basta.
Allora Francesco Iacopino, penso che Sansonetti abbia qualche problema di collegamento, quindi invito Francesco ad accendere il microfono e a darci lui una lettura, anche rispetto a quello che si sta vivendo da un punto di vista proprio di passaggio dallo Stato di diritto allo Stato etico. Se è solamente una suggestione che i garantisti d’Italia hanno oppure se vi è un rischio concreto rispetto a questo.
FRANCESCO IACOPINO:
Grazie Sandra, ringrazio l’organizzazione della tavola rotonda per avermi concesso la possibilità di partecipare. Ma permettetemi anche di ringraziare chi mi ha preceduto, non solo per la competenza tecnica, ma anche per la passione civile e umana che ha voluto esprimere nell’elaborazione degli interventi che hanno offerto oggi a chi ci ascolta. «Verso lo Stato etico, tra populismo penale e Costituzione tradita» il tema della tavola rotonda. Credo che essa, sostanzialmente, valorizzi la crisi del garantismo penale. Una crisi che l’avvocatura penale denuncia da molto tempo: sia io che l’amico Maurizio Nucci siamo degli avvocati militanti, perchè ci riconosciamo nell’attività politica dell’Unione delle Camere Penali Italiane e nella battaglia che l’Unione porta avanti da anni, in difesa dei diritti e delle libertà individuali. Non è un caso che il 10 e l’11 maggio scorsi, a Milano, nella terra di Cesare Beccaria dopo 255 anni dalla pubblicazione de «Dei delitti e delle pene», l’Unione delle Camere Penali, con le espressioni più alte dell’accademia sia della dottrina penalistica che di quella processual-penalistica abbia voluto presentare il Manifesto del diritto penale liberale e del giusto processo. Perché le ragioni di un manifesto? Perché in fondo, se è vero che oggi con l’avvento del populismo al potere si è acutizzata la crisi del garantismo, è anche vero che questa crisi (è stato detto bene anche da chi mi ha preceduto), non affonda le radici nell’odierna politica, ma ha una sua manifestazione che è risalente nel tempo.
Vedete, quello che noi percepiamo e che oggi registriamo, l’acutizzazione del divario tra il sistema normativo delle garanzie e l’effettivo funzionamento del sistema punitivo già Norberto Bobbio, agli albori del nostro secolo, ci aveva avvertito del divario che registriamo tra ciò che il diritto è e ciò che il diritto dovrebbe essere all’interno di un moderno ordinamento giuridico. Questa divaricazione tra effettività e normatività delle norme penali e il suo discostarsi dal modello costituzionale è fenomeno che costituisce oggetto della riflessione della dottrina penalistica da molti lustri. Ferrajoli, del resto, aveva parlato del progressivo svuotamento delle garanzie sostanziali e processuali e della crescente «amministrativizzazione» del diritto penale; il sistema punitivo oggi, non solo all’interno della penalità sostanziale, registra un arretramento della soglia di rilevanza penale con un incremento dei reati di pericolo, ma sta spostando l’asse repressivo verso le misure di prevenzione che, non essendo coperte dallo statuto di garanzia proprio del diritto penale, diventano un arsenale repressivo più agevole, più duttile, per poter colpire tanto le persone quanto i patrimoni.
E allora, in questo processo di «mutazione genetica» del sistema penale, noi vediamo che il processo non è più luogo di accertamento del fatto, ma diventa strumento di lotta e di repressione per regolare i conflitti sociali. Anche il lessico è degenerato: noi parliamo ormai di «spazza-corrotti»; le norme, secondo questa impostazione, servono per spazzare via categorie sociologico-criminose. Ma anche la pena, se lo strumento del processo diventa luogo di regolazione di conflitti sociali, anche la pena smarrisce ogni collegamento con la gravità della violazione con la sua finalità rieducativa.
Questa progressiva degenerazione del sistema delle garanzie si è accentuata, nel corso degli anni, man mano che il diritto penale è diventato il terreno elettivo sia dello scontro politico, sia del conflitto tra i poteri dello Stato.
Sia chiaro: non è in discussione qui, l’irrinunciabile necessità dello Stato di difendere sè stesso i suoi cittadini dall’aggressione terroristica; dalla pervasività mafiosa; dalla propensione corruttiva nella politica e nella pubblica amministrazione .
Qui in gioco c’è un altro tema: tali scopi primari di politica criminale non possono essere perseguiti alterando gli equilibri costituzionali ma, soprattutto, alterando quegli equilibri che regolano il rapporto da un lato, tra il potere punitivo e i diritti fondamentali della persona; dall’altro, la separazione dei poteri.
L’avvento di formazioni populistiche o meglio, di formazioni politiche dichiaratamente populiste, ha soltanto accelerato questo processo di degenerazione che era già in atto nel nostro Paese.
È vero, il populismo penale non è soltanto fenomeno che appartiene all’Italia. Europa, Stati Uniti e Sud America conoscono il fenomeno del populismo penale, la sua degenerazione giustizialista. Lo abbiamo visto e lo abbiamo avvertito nitidamente con l’amico Domenico Bilotti nello scorso novembre quando, a Chicago, in occasione del decimo colloquio di costituzionalisti americani all’Università Loyola, abbiamo presentato il «Manifesto del diritto penale liberale». Le preoccupazioni dei giuristi e degli operatori italiani sono condivise anche dalla comunità dei giuristi europea e d’oltreoceano.
Il giustizialismo, come connotazione più accentuata del populismo che si è fatto Governo, non è fenomeno che appartiene, purtroppo, esclusivamente alla nostra esperienza politica; oggi l’aggressione però è al sistema delle garanzie! È questo il cambio di passo: non è più dissimulato come in passato, anzi! È rivendicato dalla politica come obiettivo di governo e come componente costitutiva del patto elettorale. Insomma, il consenso elettorale oggi è offerto in cambio di una promessa securitaria; il governo dell’insicurezza sociale guida una «democrazia emotiva», come ben detto dal professore Giostra.
Siamo allora di fronte ad un contesto storico in cui viviamo l’esasperazione del carattere illiberale del moderno diritto penale, nato in Italia da Beccaria. Sul terreno penale, per esempio, basti citare le più recenti riforme della legittima difesa o della prescrizione per ravvedersi di tutto ciò. La riforma della prescrizione, non a caso, è stata definita un «ergastolo processuale». Basta vedere, sul terreno del rito penale, dalle riforme delle intercettazioni all’uso sempre più espansivo dei Trojan, fino ad un utilizzo ipertrofico della custodia cautelare, che neppure l’intervento regolativo del legislatore più recente è riuscito in qualche modo ad attenuare.
Nella prassi applicativa, la smaterializzazione del processo penale è stata in qualche modo agevolata dall’emergenza Covid, che ha anticipato nei tempi un progetto di riforma che il nostro Governo vorrebbe in qualche modo stabilizzare, avviandoci verso un processo distopico. Insomma, questa trasformazione dello Stato di diritto, chiaramente costituisce il ponte verso il passaggio ad uno Stato etico e ad uno Stato, forse ancora peggio, di polizia. Oggi espressamente rivendicata l’aggressione ai principi costituzionali della presunzione di non colpevolezza; dell’eccezionale privazione della libertà personale, che non segua all’esecuzione della pena; alla legalità penale; alla finalità rieducativa della pena; alla proporzionalità e adeguatezza della pena, che sia modulata sulla gravità della violazione. Ma, come recentemente è ben messo in risalto dal Professore Pulitanò in un suo scritto, il diritto penale è un pharmacon, medicina o veleno a seconda delle dosi: arma a doppio taglio; strumento necessario dell’ordine giuridico ma anche fattore di ingiustizia. La storia, anche nel nostro tempo, offre esempi terribili. La politica del diritto penale ha il problema di dosare questi farmaci: dosi terapeutiche vanno ricercate tra non troppo poco è un tossico troppo.
Le ideologie autoritarie populiste, che oggi agitano la scena politica, pensano al penale come arma (lo registriamo quotidianamente anche, nella nostra attività): puntano sulla potenza di fuoco; sul più penale, sempre di più, di fronte ai fallimenti a cui questa strada va incontro; dando risalto alla «passione del punire» e, a proposito della passione del punire, l’ossessivo fanatismo punitivo è stato ben affrontato in un recente saggio dell’antropologo e sociologo francese Fassin nel suo libro «Punire: una passione contemporanea».
Ma veramente questo scambio tra sicurezza sociale e consenso elettorale è produttivo di effetti per la sicurezza individuale e collettiva? Anche qui bisogna sfatare un mito: noi lo sappiamo, sul terreno delle misure cautelari, dicevo prima, c’è un muso ipertrofico della custodia cautelare, di questa misura coercitiva di massimo rigore, che è una delle concause del sovraffollamento carcerario perché in carcere, ancora molti in termini percentuali, sono detenuti in attesa di giudizio. Ma ci dà maggiore sicurezza? O piuttosto dobbiamo anche vedere qual è il risvolto della medaglia di una dimensione punitiva nella fase endo processuale?
Il tasso di errori giudiziari ancora in Italia è altissimo: negli ultimi 25 anni, oltre 26 mila sono stati casi di ingiusta detenzione riconosciuto all’esito del processo e oltre 800 milioni sono stati gli euro che l’Italia ha dovuto spendere per riparare errori giudiziari; mille persone all’anno, tre persone al giorno, subiscono una ingiusta detenzione e, purtroppo, devo registrare che il mio distretto di corte d’appello, Catanzaro, nonostante sul piano quantitativo non sia un distretto di corte d’appello medio alto, doppia o comunque supera enormemente la dimensione degli errori giudiziari che sono registrati in altri distretti di maggiore intensità demografica.
Ma la situazione non muta sul terreno delle esecuzioni penali, sul quale dobbiamo smascherare la le tossine della visione carcere centrica della pena, della visione marcatamente retributiva della pena. Ancora, il Professore Giostra scriveva «la necessità di mascherare chi nel carcere non vede mai un problema, ma la soluzione di tanti problemi». Abbiamo la prova empirica che il maggiore tasso di carcerazione non aumenta il livello di sicurezza sociale. Fassin, sempre nel suo saggio prima citato, registra un dato statistico: negli ultimi 40 anni, la carcerazione è aumentata del 180 per cento.
Come ha ben detto che mi ha preceduto, in carcere in Italia dal 2000 al 2015 sono registrati a 2.368 casi di morte, di cui 160 all’anno dovuta suicidi. Un altro dato che mi ha allarmato, leggendo un libro di Manconi, Anastasia, Calderoni,
«Abolire il carcere» è che molti detenuti, per poter reggere il peso della vita intramuraria, sono costretti ad assumere psicofarmaci. La popolazione carceraria che vive di psicofarmaci è altissima. non solo, ma il 70 per cento dei detenuti subisce il rischio di recidiva. Questo perché il modello retributivo e carcerocentrico, oltre che vendicativo della pena, non funziona. Invece, le statistiche ci dimostrano che quando la pena viene seguita consentendo il recupero sociale e il reinserimento nel tessuto della società attraverso le misure alternative (e questo ancor di più attraverso la dignità nel lavoro), i tassi di recidiva si abbassano quasi fino ad annullarsi; mentre invece, in maniera speculare, quando il carcere diventa luogo di segregazione, di alienazione, una «discarica sociale» e il soggetto viene restituito alla società attraverso un passaggio non mediato dalle misure alternative, il tasso di recidiva raggiunge quasi la soglia dell’80 per cento.
E poi dobbiamo togliere il velo da un’ altra ipocrisia: nelle carceri, oltre il 25 per cento della popolazione carceraria è tossicodipendente; una buona parte è immigrato; ma noi davvero pensiamo che il luogo di recupero dalla tossicodipendenza possa essere la carcerazione?
E allora, vedete, bisogna recuperare toni di serietà nell’affrontare questo tema. Pensavo prima, mentre ascoltavo che mi ha preceduto, che se nei talk show televisivi e nelle prime serate invece di invitare i «somministratori di sostanze psicotrope» che anestetizzano la pubblica opinione, impedendo di comprendere la reale portata dei fenomeni; se ci fossero persone competenti come chi mi ha preceduto, probabilmente i percorsi di civilizzazione del nostro Paese non sarebbero così a rischio come invece oggi siamo costretti a registrare.
Perché anche il tema della giustizia riparativa, per chi studia questo fenomeno e per chi ha modo di avvicinarsi a questa realtà, dimostra che essa è capace non solo di riparare veramente il torto subito dalle vittime attraverso un percorso di incontro tra vittime e autori dei reati, ma anche di avviare un percorso serio di revisione critica da parte di chi ha commesso, di chi è entrato nel circuito della delinquenza. E qui ci sarebbe da discutere, visto il costo che ciascun detenuto assume per lo Stato: costo non solo economico, se l’investimento dello Stato verso norme di giustizia riparativa non debba essere il nuovo futuro della esecuzione penale. C’è un bellissimo libro, permettetemi di dirlo, di una notaia calabrese, Marcella Reni, che ha scritto «Ne vale la pena», dove racconta la straordinaria efficacia dei progetti di giustizia riparativa. Si chiamano progetti Sicomoro, che in alcune carceri italiane sono stati avviati. È veramente emozionante leggere la capacità di efficacia della giustizia riparativa attraverso progetti che abbiano a cuore l’umanità ferita nel carcere, ma anche umanità ferita dalla delinquenza, attraverso un percorso serio di rivisitazione, di elaborazione di quanto accaduto. E allora comprenderete il perché del grido di allarme dei penalisti e dell’Accademia, che l’anno scorso ha raggiunto la sua massima espressione proprio con la pubblicazione con la diffusione del Manifesto del diritto penale liberale. Siamo convinti che i principi costitutivi del nostro patto sociale siano più ignorati che reietti; più fraintesi che consapevolmente avversati. Come la nostra quotidiana esperienza ci restituisce, ogni qualvolta il cittadino entra nel circuito penale scopre la forza salvifica dei principi delle libertà e delle garanzie contenuti nella Costituzione. Vedete, non è vero che questi temi spinosi come il carcere non si possono affrontare con l’opinione pubblica: ce lo ha dimostrato venerdì santo il Papa, nell’ aprire una finestra nel mondo del carcere nel corso la Via Crucis, dando voce ad detenuti (anche di mafia); dando voce ad educatori; dando voce a cappellani; dando voce ai magistrati di sorveglianza. Quella finestra sul carcere che ha emozionato la pubblica opinione dimostra che si può parlare anche di un tema spinoso come il carcere, ancorché il tema sia contro intuitivo sotto il profilo valoriale. Noi sappiamo che i nostri valori sono contro-intuitivi, ma non per questo non comprendiamo quanto importante sia mantenere alta l’attenzione sul rispetto del quadro assiologico che regola lo statuto delle garanzie all’interno della Costituzione. È vero, il tema come dicevo prima ci impone di nuotare controcorrente, di essere quasi voci che gridano nel deserto (per richiamare un‘espressione evangelica). Ma chiediamoci: l’evoluzione umana della pena, se dal 1700 fino ad oggi non avesse conosciuto soggetti capaci di gridare del deserto e di andare anche contro lo spirito del tempo (mi riferisco a pensatori come Lock Beccaria e, infine, Foucault, Garland solo per citarne alcuni) ci sarebbe stata?
Io credo che noi dobbiamo sviluppare un nuovo lessico, un lessico civile; ai populisti che usano le ragioni della forza, noi dobbiamo porre la forza della ragione; ai populisti che parlano alla pancia della gente, noi dobbiamo porre un lessico che sappia parlare al cuore delle persone.
L’emergenza Covid ha solo accentuato la visione ipocrita e manichea che sta dietro il fenomeno del populismo e giustizialismo penale e l’indifferenza che ha su un’umanità sofferente che abita le nostre carceri in condizioni inumane e degradanti. Non lo dico io, ma lo dice la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo: quelle condizioni inumane o degradanti, intanto, diventano un appello al tribunale della nostra coscienza, prima ancora che un monito della Corte Europea. È chiaro: un legislatore
illuminato oggi si interrogherebbe sull’applicazione di un indulto, soprattutto quando un Ministro dell’Interno riconosce che siamo di fronte ad una «bomba epidemiologica» che può scoppiare da un momento all’altro all’interno delle carceri. Non abbiamo questo legislatore illuminato, ma non possiamo per questo arretrare rispetto all’esigenza che sia restituito al diritto penale il ruolo di Magna Carta del reo, intanto recuperandolo nella sua dimensione liberale: perché è necessario,
in primo luogo, che vengano garantiti e protetti i diritti individuali, civili e politici; ma, soprattutto, è necessario lottare perché le organizzazioni istituzionali siano capaci di tutelare e garantire questi diritti, che sono fattori irrinunciabili perché il liberalismo e la democrazia marcino nella stessa direzione. Non dimentichiamo che il nostro Stato costituzionale è stato edificato sugli «a priori» dei diritti umani. Recentemente, in un suo scritto, mi avvio rapidamente alla conclusione, il professore Maiello mette in luce il rischio che il vento dello spirito popolare possa condizionare non solo l’azione politica, legittimata dal consenso elettorale, ma le stesse istituzioni penali di garanzia. È vero, aggiungeva il professore Maiello, la vigenza di una Costituzione rigida e delle carte internazionali dei diritti umani sono un baluardo significativo, ma potrebbero non bastare di fronte al vento populista: ecco perché bisogna sostenere le ragioni di un modello di giustizia penale che si riconosca nella civiltà dei principi costituzionali. Bisogna, in altri termini, ricostruire una grammatica del discorso civile sul tema dei rapporti tra autorità ed individui. Concludo con un interrogativo che qualche giorno fa un pubblico ministero molto illuminato e di grande sensibilità, autore di un libro a me molto caro (“Difesa di un avvocato scritto da un pubblico accusatore”) che è il Dottore Paolo Bornia, magistrato requirente in Torino, si poneva al termine di un suo articolo pubblicato su Questione Giustizia: fino a che punto, si interroga il magistrato, in nome della legge, della ricerca di sicurezza il diritto costituzionale può essere compresso; i diritti di libertà possono essere compressi; fino a quando potremo esercitare questo così esteso potere di controllo sulle libertà delle persone senza incidere notevolmente sulle vite degli altri italiani. C’è un limite oltre il quale, aggiunge il magistrato, ci ha ricordato recentemente Giovanni Verde «la nostra Repubblica pensata come democratica e liberale si trasforma in uno stato etico». In questo tempo di emergenza Covid 19, ma anche dopo, fermiamoci a meditare su questo ammonimento. Vi ringrazio.
SANDRA BERARDI:
Grazie Francesco Iacopino. Intervento accorato e condivisibile dalla prima all’ultima parola. Sì, ma sono interrogativi che nella società ci si pone veramente molto molto raramente. Rimangono quasi relegati nel limbo di argomenti degli «addetti ai lavori» quando, invece, stiamo parlando di uno dei punti cardine dello stato di diritto e dello stato democratico. Ci avviamo alla conclusione con l’intervento di Maurizio Nucci, avvocato penalista di Cosenza, ex presidente della camera penale Fausto Gullo, con il quale stiamo anche lavorando e collaborando all’interno della Rete emergenza carcere (che fa parte, ovviamente, del movimento antipenale composto da diverse realtà associative e politiche). Con lui abbiamo elaborato diversi quesiti posti a questo Governo e a questo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, tra cui quello di fornire i dati rispetto a quella che era la situazione dei contagi e delle misure di prevenzione adottate all’interno delle carceri. Bene, a fronte di questa richiesta di dati, che dovrebbero essere di pubblico dominio in base alla normativa che prevede la trasparenza degli atti della pubblica amministrazione ebbene, insomma, un carcere ci risponde che, salvo determinazioni superiori, non ci possono fornire le informazioni richieste. Nella risposta che ci danno si lasciano sfuggire la mail che è stata trasmessa a sua volta dal provveditorato regionale a questo carcere, dove era scritto che non avrebbero dovuto fornirci i dati richiesti perché stavano indagando sulla nostra matrice ideologica. Ecco la nostra matrice ideologica, glielo diciamo anche in anteprima durante questa diretta è quella delle garanzie costituzionali, è quella di agire in nome del Diritto, quello che invece altrove si sta violando. Do la parola Maurizio Nucci.
MAURIZIO NUCCI:
Buona sera a tutti! Vi ringrazio perché ho ascoltato tutti gli interventi con molto interesse. Non nascondo che la riflessione su argomenti che a volte diamo per scontato, considerando il fatto che li trattiamo quotidianamente, non può che aiutare a individuare aspetti di novità ulteriori che hanno necessità di sviluppo, affinché si possa cercare di dare una risposta a problematiche assai delicate che riguardano l’entità umana. Verso lo Stato etico e, soprattutto, il populismo penale e il tradimento verso i valori costituzionali in che misura spiana la strada ad uno
Stato etico? Perché io ho la sensazione e, non nascondo, l’avverto come una sofferenza, che l’idea di uno Stato etico abbia sfiorato, e non in maniera minimale, quasi tutte le forze politiche che hanno governato negli ultimi anni. E cioè attraverso quel populismo che sfruttava quelle che venivano di volta in volta definite “emergenze”, si introducevano, quasi mi viene da dire si introiettavano, si introducevano all’interno del sistema tante lacerazioni, fratture, che allontanavano l’agire da quei valori costituzionali che avrebbero dovuto essere l’unico obiettivo da perseguire e che, viceversa, diventavano invece un nemico da rifuggire. La magistrato Longo parlava del come in realtà si stia cercando di irretire l’azione giudicante della magistratura, di quella di sorveglianza nel caso di specie, attraverso i condizionamenti provenienti dagli uffici delle procure e, soprattutto, dalla direzione investigativa antimafia. Lo diceva con tantissima onestà intellettuale, perché di corredo a quella affermazione ne aggiungeva un’altra: «Ma quanto coraggio dovrà avere un magistrato giudicante e, quindi, un giudice terzo ed indipendente, per resistere ad un parere contrario proveniente da una direzione distrettuale antimafia?». E , però, questo è l’apice del problema. Questo è quella parte del problema che trova la sua genesi, probabilmente, anche nella mancata esecuzione di una norma costituzionale; nel fatto che la magistratura stessa abbia ostentato ostinazione ad avversare quella norma costituzionale. E mi riferisco a quel principio contenuto nell’articolo 111 della Costituzione che pretendeva la separazione delle carriere, anche affinché il giudicante fosse realmente terzo ed indipendente rispetto anche ad altri ambiti della magistratura. E altri ambiti della magistratura, come quella requirente, rimanessero confinati in una situazione di parità con le altre parti processuali, tanto da non poter interferire come invece , probabilmente, in ciò che è il risultato di quella riflessione della dottoressa Longo, è una prassi e cioè il sentirsi vincolati ad un qualcosa che proviene dallo stesso ambito di appartenenza.
E allora, probabilmente, la direzione oggi intrapresa verso un nucleo assolutista che vorrebbe contenere, condizionare il tutto, fa anche parte di alcune situazioni di «disinteresse interessato», cioè di una volontà di non applicare fino in fondo quelli che sono i valori costituzionali che ha portato, per esempio in campo di esecuzione delle pene… Perché un aspetto contenuto nella carta costituzionale, nell’articolo 27, è stato spesso svilito di significato: le pene devono tendere alla rieducazione, non la pena detentiva deve tendere alla rieducazione. E le pene non sono necessariamente quelle di natura restrittiva, carceraria tra l’altro, ma sono delle forme di esecuzione di una statuizione penale e noi abbiamo voluto necessariamente (quando dico «noi abbiamo voluto» dico «altri hanno voluto») limitare ad una forma esecutiva di natura carcerocentrica, come giustamente diceva Francesco Iacopino, che altro non ha fatto che andare ad arricchire di una umanità (ed arricchire sicuramente è un eufemismo) gli istituti penitenziari che, di fatto, sono paralizzati dell’opera rieducativa.
Forse questo è accaduto in un determinato periodo, e mi è sembrato che fosse oggetto di riflessione da parte di Francesco Iacopino, perché all’interno degli istituti di pena vi sono gli ultimi? Perché, effettivamente, buona parte della popolazione carceraria è rappresentata dagli ultimi gradini per gli esseri umani come persone provenienti da altre nazioni o soggetti affetti da patologie quali la tossicodipendenza? Però questo, piuttosto che lenire il disinteresse che si è generato attorno al problema, lo aggrava. E lo aggrava perché non lo maschera, ma lo sviscera anche come una mancanza di umanità. Abbiamo discusso (e Sandra era della partita), anche all’esito di alcuni pronunciamenti interni ed esterni alla nostra giurisdizione, del diritto al sogno; del diritto alla speranza; di come effettivamente, attraverso un’opera demolitoria di quella che sembrava essere una direzione intrapresa verso una apertura del sistema penale a forme di esecuzione differenziata rispetto al carcere, non si sia fatto altro che intorbidire nuovamente le vicende, sempre sulla scorta di scelte emergenziali. Quelle stesse scelte emergenziali che in realtà hanno inasprito in maniera assolutamente improvvida i tetti di pena per buona parte dei reati contenuti nel codice; quelle stesse scelte emergenziali che oggi vanno a minare quelli che sono gli istituti che governano l’Ordinamento penitenziario; quelle stesse scelte che comunque, in limine allo scorso Governo, hanno indotto a non approvare una riforma dell’ordinamento penitenziario esclusivamente per scelte elettoralistiche, perché sarebbe stato sotto un certo profilo (ma è il profilo che più interessava loro)
controproducente sotto un profilo politico dare un segnale di apertura verso un Ordinamento penitenziario volto alla rieducazione, piuttosto che lasciar cadere nel vuoto quella che era stata un’operazione di concertazione legislativa che, probabilmente, avrebbe avuto grande respiro anche in momenti come quelli che stiamo vivendo.
È funzionale una concezione del diritto penale centrale rispetto all’amministrazione dello Stato. È funzionale nel momento in cui rappresenta la possibilità di creare delle forme di controllo che Francesco Iacopino ha spiegato in maniera assai pregevole. E, però, noi non possiamo rimanere inermi o in una posizione di difesa supina ma abbiamo necessità di dire, di riconoscere. Di riconoscere quelli che sono stati gli errori commessi, in maniera tale che si possa creare un’apertura verso quella che dovrebbe essere, rappresentare, l’unica via di garanzia dei diritti: il pieno rispetto dell’assetto costituzionale. Ed allora non ci possiamo più accontentare. Non possiamo pensare di dover far fronte alle emergenze. Emergenze come quella che stiamo vivendo rappresentano solo una parte di quelle che già ci sono state negli ultimi anni e negli anni precedenti. Allora abbiamo necessità che ognuno di noi denunci tutte quelle che sono le storture del sistema e lo faccia in una maniera così genuina e schietta da non poter sembrare una versione interessata ad ottenimenti di vantaggi personali, professionali o politici, ma come dato concreto. Non basta dire, all’interno delle case di reclusione non vengono applicati quelli che sono gli schemi affinché vengano garantite le misure alternative; all’interno delle case di reclusione non vi è alcuna possibilità di ottenere la rieducazione del condannato perché manca tutto ciò che è funzionale ad ottenere quell’opera: non ci sono le figure professionali. Ce ne siamo accorti anche laddove si è messo in atto quel percorso di apertura a soluzioni alternative alla pena detentiva, mi riferisco alla messa alla prova e ad istituti analoghi, per riscontrare come gli uffici penali esterni, come non vi sia la possibilità di gestire quelle che sono le soluzioni alternative per carenze di personale. Ed allora il punto diventa leggermente più pernicioso. Vi è la responsabilità da parte di qualcuno che è a conoscenza (e non mi riferisco soltanto ad una responsabilità politica), vi è la responsabilità di parte di chi è a conoscenza dello stato attuale nel quale versano le carceri italiane, per non aver fatto quanto necessario ad evitare il rischio di contagio? Vi è la responsabilità da parte di qualcuno che, dall’interno delle carceri, non ha sufficientemente denunciato quanto stava accadendo e sta accadendo affinché si ponesse rimedio? Ebbene, noi stiamo vivendo e guardando con molta attenzione ciò che sta accadendo per le vicende collegata alla diffusione del virus nelle Rsa: stiamo vedendo e vivendo , con molta attenzione, quelli che sono i risvolti penalistici di natura colposa, forse anche no (ma questo sarà la storia a verificarlo), e dovremmo necessariamente prendere atto di ciò che già stiamo vivendo in altre realtà per andare a sperimentare tutto ciò che è necessario ad aprire uno spaccato sereno ma profondo su quella che è la vita all’interno degli istituti di reclusione. Affinché non solo si pongano in essere le basi per poter determinare l’applicazione di misure nei tempi più rapidi possibili, ma anche e soprattutto far in modo che il legislatore da un lato e la politica dall’altro, prendano atto di una responsabilità che potrebbe non essere soltanto una responsabilità politica.
Tutto questo perché (mi avvio a conclusione), io non avevo preparato alcun intervento perché, lo dico con la massima sincerità, leggendo i nomi di chi ha partecipato a questo incontro ero molto incuriosito e avrei voluto, e ho così fatto, ascoltare piuttosto che dire la mia. Sono molto entusiasta di quello che si è detto, perché ognuno ha raccontato uno spaccato e lo ha fatto in maniera assai genuina ed è questo quello che deve governare! È questo quello che deve governare la nostra azione: cioè fare in modo che tutto ciò che si debba fare in prosieguo per tentare di dare un colpo di sterzo a quella che è una deriva verso lo Stato etico, diventi il trampolino di lancio per portare avanti delle idee che invece rappresentino una costituzionalizzazione dello Stato. È importante. Ed è importante che si parta dal percorso carcerario perché, se è vero che non ci sono i numeri parlamentari per poter oggi auspicare un indulto, e quindi una legge di indulto, è altrettanto vero e vi deve essere in concreto, la possibilità che nessuno possa essere messo a rischio vita per situazione di inadempienza o per omissioni della politica o degli enti e dei responsabili di riferimento. Grazie.
Sandra
Grazie Maurizio, grazie Laura Longo, Samuele Ciambriello, Francesco Iacopino, Vincenzo Scalia e Domenico Bilotti. È stato un incontro veramente molto sentito e partecipato, con degli interventi di spessore che, veramente, invito chiunque abbia la possibilità di far circolare tra la gente “comune” perché è proprio quello su cui noi puntiamo; in qualche modo, provare a spostare l’ago della bilancia dell’opinione pubblica, tra la gente comune. È inconcepibile che siano delle trasmissioni come quelle di Giletti, piuttosto che Il Fatto quotidiano, a indirizzare e l’opinione pubblica e l’azione legislativa di chi ci governa. Stanno portando l’Italia da uno stato di diritto a uno stato etico e lo vediamo quotidianamente. Lo stiamo vedendo all’interno di alcune città dove il livello di militarizzazione e il livello anche di abusi hanno raggiunto apici impressionanti; così come si sta vedendo nelle carceri lo stiamo vedendo anche in mezzo alle strade. Il populismo penale ha sostituito di fatto l’Italia fondata sul diritto, sulle libertà, sui diritti di tutti. Ringrazio tutti e tutte. Alla prossima.
Contributi
LA GIUSTIZIA LAICA DELLE LIBERTÀ FONDAMENTALI
Pantaleone Pallone- Domenico Bilotti
1.Il programma tradito dei principi costituzionali
Gustavo Zagrebelsky, insigne costituzionalista italiano, ha recentemente affermato che la fase presente del “nostro diritto” (le norme eccezionali che sono state adottate, gli organi che ne garantiscono l’esecuzione, i legislatori che le pongono in essere, i loro comportamenti) non sta sacrificando assolutamente le libertà fondamentali. Ma come si stabilisce se un divieto stia effettivamente garantendo, secondo quanto si è invocato nelle ultime settimane, il diritto alla salute? Diritto, al netto di inutili fronzoli terminologici, vuol dire libertà, un potere di volontà e di azione che viene garantito dalla norma giuridica. Nelle situazioni di emergenza, da quel che è dato capire, lo scopo giustifica i mezzi. Eppure, ciò non risolve il problema preliminare: qual è lo scopo che si vuole perseguire? E con quali mezzi si ha l’ambizione di tutelarlo? Questi mezzi possono a propria volta divenire discriminatori (ad esempio: contro i malati, contro i minori, contro i detenuti, contro i lavoratori)? Proprio la tragicità del momento dovrebbe suggerire che la libertà nulla ha a che vedere con l’egoismo, con la minaccia, con la prevaricazione o con la paura. Anzi, la libertà di cui si avverte il profondo bisogno è esposta al contatto continuo con le nozioni di responsabilità, solidarietà, unità, personalità, legame umano. Soltanto in questi termini, la norma giuridica derogatoria può essere utilmente adottata: se non è, insomma, insostenibile imposizione, ma guida e orientamento di viaggio.
Un’osservazione di questo tipo emerge chiaramente proprio in tre fondamentali volumi dello stesso Zagrebelsky, che oggi invece inclina a credere che le limitazioni dichiarate per il diritto alla salute, quale che sia la confezione attuativa loro predisposta, siano comunque legittime. Già ne “Il diritto mite”, l’Autore, presidente della Corte costituzionale nel 2004, si poneva il problema dell’emenda in luogo dell’ammenda (del ravvedimento interiore contro il patimento inflitto) e lo faceva in termini tipicamente di giustizia costituzionale, fonti del diritto e dogmatica giuridica. La “mitezza” del diritto – l’assenza di caratteri punitivi, il rifiuto di additare alle folle inferocite dalla fame i mostri da decapitare, l’esigenza universale di difendere l’interesse particolare dei deboli – non era, insomma, proposta come astrattezza filosofica, ma come concreto scopo di politica legislativa. Delle speranze di trent’anni addietro, molto il racconto mediatico della giustizia e della politica ha spazzato via. Addirittura, in “Giuda, il tradimento fedele”, Zagrebelsky investigava, con grande competenza teologica giudaico-cristiana, la necessità del comportamento di Giuda per la realizzazione del regno. Fuor di similitudine religiosa, una giustizia laica non si pone in competizione contro i rei (anche i più efferati), ma ne presume costitutivamente il diritto all’esistenza. È proprio la reazione al crimine che qualifica la proposta di giustizia. Infine, in “Liberi servi” il costituzionalista metteva chiaramente sotto accusa la fonte “oscura” del potere. Il potere enigmatico, il potere delle segrete stanze, il potere di un novello Anticristo che ha la sfacciataggine di presentarsi in sala stampa sempre come il più angelicamente irreprensibile, calpestando con questa sola posa ipocrita la fatica del lavoro negato, la violenza gerarchica contro le donne, il dolore silente di chi soffre. Il dolore peggiore, quasi da contrappasso dantesco: il dolore di quelli a cui è impedito di urlarlo.
Quando la dottrina italiana ha distinto la costituzione formale dalla costituzione materiale, il dettato testuale della legge fondamentale dalla sua applicazione essenziale e sostanziale, non immaginava forse che un altro modo di guardare alla costituzione sarebbe emerso, portando effetti (anche giuridici) di speciale gravità: il modo, cioè, in cui i cittadini danno per presunte le garanzie costituzionali finché non sono loro toccate. Questo sentimento non è naturale, non avviene iure naturae, ma è anzi fondamentale alla legittimazione di una pratica di governo. È quanto le scienze sociali studiano quando parlano di “fascismo istituzionale”: dispositivi di potere che prevedono una e una sola soluzione. Quella, appunto, volta per volta, scelta dal potere stesso che la mette a punto. Si è così accettato di rappresentare l’indulto e l’amnistia come cause di aumento della criminalità – e così non è: salvi rarissimi e certo inevitabilmente clamorosi casi, i beneficiari di amnistia, indulto e persino della grazia presidenziale hanno minori tassi di recidiva rispetto a tutto il resto della popolazione penitenziaria. Si è accettato di ritenere che la pena prevista in Costituzione fosse solo e soltanto pena detentiva, e così non era: perché molte sono le situazioni passive dell’afflizione e la Corte europea dei diritti dell’uomo ha espressamente stabilito che esse debbano prestarsi a un giudizio unitario, a una chiave parimenti invasiva di restrizione e compressione delle libertà. Si è accettato che la lotta alla mafia e l’impegno per la legalità si concludessero nel prevedere la prosecuzione di pene esemplari a detenuti condannati per reati sicuramente gravissimi, quanto ormai da decenni ristretti, spesso con dure conseguenze fisiche, mentali, familiari, relazionali. Dall’interpretazione sistematica della Costituzione scritta, la scarcerazione emerge come istanza giudiziariamente valutabile nel quadro di una nozione specifica di pena. In questa stramba “Costituzione percepita”, forgiata dalle alterazioni di senso comune, la scarcerazione – ivi compresa quella fondata sul prudente bilanciamento tra le ragioni di salute e la valutazione delle condotte – diventa un sinonimo di viaggio premio, la certezza dell’impunità, il beneficio dei diavoli.
2.L’utilità pratica di una visione dialogica della giustizia
Dialogare è facile, comprendersi è difficile. Non mancano di sicuro le parole, anzi ce ne sono fin troppe. L’eccessivo dire amplifica il rischio di attivare dialoghi effimeri e senza qualità. Un continuo rincorrersi di voci insopportabili che portano a relegare l’uomo in arcipelaghi di solitudine, una dispersione di idee che può diventare molto imprudente. Il dialogo è un’arte difficile che diventa scopo e destinazione dopo lunga e faticosa educazione. Un proprio sentire che diventa ricerca condivisa, non prepotente sopraffazione. In questi mesi di emergenza acuta è mancato il confronto dialogico tra chi ha responsabilità istituzionali e di guida, tra chi dovrebbe alimentare giuste speranze. Invece, scenograficamente, alcune forze politiche hanno pensato di inscenare l’occupazione del parlamento. Invece, platealmente, si disattendono i provvedimenti già approvati. Sembrano prove tecniche di gradimento, comportamenti che vogliono stanare (ove esista) il consenso diffuso. Comportamenti pericolosi che possono dilagare, in spregio alla democrazia.
Il rito processuale al quale il nostro sistema ha dichiarato di ispirarsi è quello accusatorio. Lo accogliamo come tale, nonostante anche sul processo accusatorio sia scientificamente legittimo operare dei distinguo tra i principi che lo scolpiscono e le pratiche che lo pongono in essere. Il rito statunitense, nella generalità degli Stati federati americani, si sostanzia ad esempio su una visione fortemente competitiva dei rapporti tra l’accusa e la difesa e assegna poteri anche endoprocedimentali troppo spiccati in capo alle autorità di polizia (Miranda c. Arizona, 13 Giugno 1966).
Il principio del contraddittorio implica la selezione gnoseologica e performativa dell’argomentazione in un territorio pratico (non meramente simbolico!) di confronto. Si crea per questo tramite una comunicazione tra cerchi concentrici: la giustizia sostanziale non può che informare i criteri dispositivi della giustizia procedurale, la giustizia procedurale non può essere in sé, se non è anche giustizia dialogica, equa misurazione di tesi che conducono a un percorso veritativo. Non è un elogio del relativismo o della fungibilità di qualunque alternativa processuale. Se Caino ha ucciso Abele, la difesa di Caino non estinguerà l’individuazione di una responsabilità. Ma a chi giudica deve essere consentito di considerare la posizione di Caino, anche e soprattutto se questi sarà condannato per aver ucciso Abele.
La giustizia perciò deve essere dialogica in senso etico e metaetico oltre che semplicemente applicativo. E la natura dialogica deve identicamente appartenere al potere della giustizia (la giurisdizione) quanto al racconto della giustizia, al modo in cui essa vien fatta conoscere al popolo che le viene sottoposto.
È possibile liberare un reo prima che sconti la pena comminatagli? Se il quesito è questo, su questo deve essere formulato giudizio. Il racconto e la percezione della giustizia non possono cadere nel divieto di cui all’art. 499, comma II, del Codice penale (che in modo perfettibile cercava di codificare la proibizione di domande suggestive).
La domanda “è possibile liberare un reo prima che sconti la pena comminatagli?” diventa nell’orchestrazione massmediologica diffusa: “ma lei davvero libererebbe un reo che ha commesso un reato grave contro di lei e i suoi cari sapendo che potrà tornare a fare la stessa cosa?”. O peggio “ma è possibile dare un premio a chi ha fatto il male? A chi è il male?”. Il giudizio tecnico-giuridico sull’ammissibilità dell’alternativa alla pena detentiva non diventa un giudizio teologico-morale sui contenuti dell’espiazione (magari!); diventa piuttosto un giudizio di ricaduta politica sui rischi veri e presunti di situazioni astratte che perdono ogni residuo legame con la realtà storica, con la vicenda giudiziaria, con l’analisi della fenomenologia di esecuzione delle pene. Il dialogo tra le parti si fa monologo dell’inquisitore che, in calce al sermone, chiede alla giuria di apporre (liberamente) la sua firma a un giudizio scritto da altri.
Sia detto incidentalmente. La qualità di azione antimafia oggi richiesta all’ordinamento è segnatamente d’altra natura. Riguarda la prima fonte di ricattabilità: la crisi di liquidità della piccola impresa (tema fugacemente accennato, in un procedimento relativo alla violazione delle tutele previdenziali, in C. Cass. 31 Ottobre 2019, n. 44515). Riguarda, ancora, le proposte irricevibili di completo superamento della disciplina di filtro ai contraenti delle pubbliche amministrazioni, in materia d’appalto. E anche lì, quanti danni ha fatto il neodiritto pandemico-mediatico, facendo innaturalmente profilare all’opinione pubblica un dualismo capzioso di parti esclusive, di giochi di ruolo da cui non si esce: o uno Stato che non paga mai o un’impresa criminale che elude sempre. Per fortuna né l’una né l’altra ipotesi dobbiamo permetterci di ritenere assolute (ad esempio, Adunanza Plenaria, Consiglio di Stato, 6 Aprile 2018, n. 3). Anzi, eventualmente entrambe dovremmo arginare e combattere, come necessità economica prima ancora che come metodo giuridico.
3.Il virus della continuità nell’illegalità
La società ha il compito, non può sottrarsene, senza rischiare l’infamante marchio di inumano comportamento, di tendere all’oggettività dell’occhio che giudica con giustizia. Nietzsche, su posizioni di individualismo radicale, tuttavia valutava ciò come il momento della suprema maestria in terra. Il giudizio sulla giustizia è uno strumento forte per contenere con ragionevolezza ogni tentativo di arbitrarietà della legge. Per intenderci, esiste un’intollerabile “giustizia” (la somma del processo di applicazione di norme inique, “summum ius, summa iniuria”) che si può fermare soltanto se si è ricchi di un patrimonio coscienziale costituito su valori essenziali e categorie di orientamento. Ci sono casi in cui l’applicazione di una legge può far gemmare il seme della discordia o della rivolta, del dissenso o dell’ostilità. In questi lunghissimi giorni di difficile convivenza espropriata, l’arbitrio della presunta ragionevolezza è straripato. Si rappresenta sempre di più la conflittualità tra la legge e il diritto. Una opposizione intollerabile, che foraggia un’ignoranza cieca e incoraggia la demolizione della civiltà giuridica. Quel che sta accadendo in questi mesi è un’anomalia, un’aberrazione, che tuttavia si trascina dietro incognite e pericoli ben più risalenti sul piano dell’organizzazione, della formazione, della responsabilità. Forse, trovata la manifesta illegittimità di queste regole, dovremmo tirar fuori nuovamente il vocabolario dei principi, altrimenti continueremmo a usare il linguaggio dell’ingiusto.
Tutto sommato limitata è stata l’attenzione data alle vaste riforme penitenziarie varate recentemente nell’Iran sciita e nella Turchia sunnita, nella quale i processi di confessionalizzazione e secolarizzazione della sfera pubblica sono blanditi secondo le convenienze da almeno due decenni, a meri scopi di preservazione di un fortino, tuttavia cospicuo, di consenso politico. È intollerabile che parlare di questi provvedimenti a qualcuno paia la difesa di quegli ordinamenti: no, i loro limiti sono noti. In Turchia, appunto, si assiste a una politicizzazione estrema del diritto penale, di fatto integrato agli strumenti di contenimento delle opposizioni interne. E l’Iran sconta una crisi del potere d’acquisto che ha indebolito le pur presenti ma ristrettissime garanzie di prestazioni sociali. Ben si capisce che le “scarcerazioni” di massa varate in quegli ordinamenti sono rese pacificamente ammissibili, anche all’opinione pubblica locale più legista e dispotica, perché le strutture periferiche dei poteri di sorveglianza e di esecuzione costituiscono un vero e proprio Stato nello Stato (così forte da essere persino competitivo rispetto alle autorità centrali). Quello che qui mette conto sottolineare è altro: ci sono ragioni pratiche, empiricamente verificabili, che a volte possono necessitare, con beneficio collettivo, l’alleggerimento delle strutture di pena. Possono, come nell’attualità, sostanziarsi in misure che prevengono il contagio di massa nelle comunità chiuse. Possono consistere in forme di riconduzione del sistema alla legalità internazionale, comunitaria e costituzionale. Possono essere persino misure funzionali alla contrazione del numero dei reati. E di questo ci deve essere chiesto di dire ed esprimerci: quali ricadute pratiche positive può universalmente avere una riforma dell’esecuzione penale che renda il carcere meno illegale dei suoi numeri fuori controllo, dei suoi troppi ristretti in attesa di giudizio, dei suoi malati assegnati a una struttura medico-sanitaria con alcuni eroici casi di servizio individuale ma troppo spesso priva dei ritrovati terapeutici e della programmazione complessiva. Il virus più grave, quello per cui l’immunità di gregge è strage del diritto, sta tutto lì. Il carcere da luogo residuale ordinato tuttavia all’espiazione dei reati a luogo nel quale i reati sono in gran copia commessi. Non solo dai detenuti.
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USI DEL 41 BIS
Vincenzo Scalia
Si parla del 41 bis come di un totem, come se fosse un sacrario inviolabile. Si citano, spesso, e a sproposito, Falcone e Borsellino per giustificarlo. Ebbene, bisogna precisare una cosa: se c’erano due garantisti, che credevano nella presunzione di innocenza, quelli erano proprio Falcone e Borsellino. Nel 1984, quando Buscetta raccontò che nel 1979 era stato ospite, in latitanza, nella villa dei cugini Salvo, Borsellino si recò personalmente presso la casa. Non vide il camino, si stava preoccupando, quando chiese al custode: “ma d’inverno, come fate?”. Gli venne mostrato un camino smontabile, e si rasserenò. Falcone, da parte sua, quando Pellegriti, pentito catanese, gli disse che Lima era stato ammazzato da Mattarella, gli chiese di specificare. Appena vide che era un invenzione, lo querelò. Questi due episodi per dirvi che Falcone e Borsellino, a differenza di chi oggi brandisce l’antimafia come arma da utilizzare contro chi ne ostacola il cammino, non erano giustizialisti. Sì, è vero, Falcone promosse la Procura Antimafia. Ma lo fece per svincolare l’Antimafia dalle camarille locali. E comunque lo fece in un periodo in cui il caso Tortora aveva ispirato il referendum del 1987, sulla responsabilità dei giudici. La legge Gozzini era stata aprovata 3 anni prima, nel 1988 era stato introdotto il rito accusatorio, e i detenuti erano 25.000. Insomma, si era all’interno di un contesto votato verso l’allargamento delle garanzie penali. La Iervolino-Vassalli avrebbe segnato lo spartiacque tra un’epoca e l’altra. Ma, soprattutto, fu Tangentopoli ad inaugurare la stagione del giustizialismo ancora in corso, coi magistrati investiti di un’autorità morale spropositata rispetto alle loro prerogative, e la penalità utilizzata come strumento regolatore dei rapporti sociali. La crisi di legittimità della politica, le stragi di Capaci e via D’Amelio, hanno creato questo giustizialismo infinito che tuttora ipoteca le sorti democratiche del nostro paese, di cui il 41 bis rappresenta forse la sintesi.
Emile Durkheim diceva che la pena non protegge la società perché è buona, ma è buona perché protegge la società. In altre parole, non si tratta di efficacia o di equità della pena, ma della sua esistenza a simboleggiare l’esistenza di una linea di demarcazione netta, che tanto più riafferma l’esistenza di un confine tra buoni e cattivi, tra bene e male, tanto più è precaria e va rimarcata ogni volta. Puntare il dito su qualcuno, distinguersi, sentirsi dalla parte giusta. Ecco cosa c’è dietro questa strenua difesa del 41 bis. Quanto meno da parte dell’uomo della strada, di quelli in buona fede.
Se usciamo da questo ambito, invece, dobbiamo riscontrare un utilizzo strumentale del 41 bis, da parte di una pluralità di attori che si vogliono ricavare una rendita di posizione nell’arena pubblica. Non si può non pensare a tutto l’apparato mediatico che ruota attorno al professionismo anti-mafioso, che delle sue crociate del bene fatte a mezzo della promozione di carriere politiche, letterarie e giudiziarie ha fatto la sua ragione di esistere. Ma bisogna anche tenere in considerazione gli equilibri governativi attuali. Pensiamo a cosa era questo governo, e a cosa è: Conte non ha mai avuto un indice di gradimento così alto. Il suo partito di riferimento, che ha fatto del giustizialismo una sua bandiera, e che stava per scomparire, grazie all’emergenza coronavirus è risalito nei sondaggi, e adesso mira a puntellare il successo ri-innalzando la barriera della repressione. Ecco, l’uso del 41 bis, in questo ambito, viene declinato in senso repressivo. Ci viene ricordato che il giustizialismo rimane l’unico collante di una società sempre più decomposta e spaesata, e che ogni altra proposta non può avere nessun diritto di cittadinanza. Quindi non importa se sono morte 14 persone all’interno delle carceri italiane a partire dall’inizio dell’emergenza, non importa se ci saranno di sicuro altre morti imprecisate o altri episodi che verranno derubricati come “eventi critici” che registreranno un aumento esponenziale. D’altronde, a sentire i commenti della gente, o a leggerli sui social networks, chi è in carcere si merita di starci, la pena implica sofferenza, quindi l’emergenza sanitaria si colloca nel solco di questo retribuzionismo sadico che prevale tra il pubblico italiano ormai da trent’anni.
Tuttavia io inviterei a non sottovalutare l’aspetto “preventivo” del 41 bis. Mi riferisco al fatto che una discussione così insistente sulla misura più afflittiva prevista dall’ordinamento penitenziario italiano, potrebbe in realtà uscire dal mero ambito penale per assurgere al ruolo di monito ad uno scenario sociale sempre più pieno di incognite. Si parla del 30% degli esercizi commerciali che non riapriranno, senza contare che la metà dei lavori oggi sono atipici, e rischiano di essere ancora più sottopagati, se non di scomparire del tutto, alla fine di questa emergenza. Povertà, disoccupazione, miseria, che potrebbero sfociare in risentimenti sociali diffusi, ai quali, un paese in declino, costretto a elemosinare MES e Coronabond vari, potrebbe rispondere attraverso un utilizzo massiccio della risorsa penale, arrestando, imprigionando e condannando. E utilizzando il 41 bis. Non dimentichiamo che le origini risalgono al terrorismo, alla quale tuttora viene applicato. Non vorrei che questa discussione, serva ad avvertirci a cosa si andrà incontro qualora si cantasse fuori dal coro alla fine dell’emergenza. Una volta si sarebbe fatto appello alla vigilanza democratica. Oggi si può provare a rinnovare l’appello. Legandolo alle lotte sociali. Perché questione penale e questione sociale sono gemelle. Non dimentichiamolo.
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“Verso lo stato etico tra populismo penale e costituzione tradita”.
Francesco Iacopino
Il titolo dell’odierna tavola rotonda sintetizza gli effetti diretti e i rischi collaterali della crisi del garantismo penale. Una crisi che l’avvocatura penalistica denuncia da molto tempo.
Con l’amico Maurizio Nucci apparteniamo alla categoria degli avvocati militanti, che si riconosce nell’attività politica dell’Unione delle camere penali italiane (d’ora in poi anche UCPI) e nella battaglia che l’assise dei penalisti conduce da decenni in difesa (spesso solitaria) dei diritti e delle libertà individuali.
Non è un caso che il 10 e l’11 maggio 2019, a Milano, nella terra di Cesare Beccaria, dopo 255 anni dalla pubblicazione “Dei delitti e delle pene”, l’UCPI e l’Accademia abbiano avvertito l’esigenza indifferibile di presentare il Manifesto del diritto penale liberale e del giusto processo.
Perché le ragioni di un manifesto? Perché oggi, con l’avvento del populismo al potere, si è acutizzata (o, meglio, cronicizzata) la crisi del garantismo; una crisi, per vero, già risalente nel tempo, che ha dato l’abbrivio a un progressivo allargamento della forbice applicativa e del conseguente distacco tra il sistema normativo delle garanzie e l’effettivo funzionamento del sistema punitivo.
Già Norberto Bobbio, agli albori del nostro secolo, aveva segnalato il “divario tra ciò che il diritto è e ciò che il diritto dovrebbe essere all’interno di un medesimo ordinamento giuridico”.
La divaricazione sempre più marcata tra effettività e normatività delle norme penali e l’ingravescente discostarsi dal loro modello costituzionale, è il terreno di analisi sul quale, da molti lustri, si sviluppa la riflessione della dottrina penalistica sulla crisi del garantismo penale.
Una crisi che ha prodotto, come segnalato da Luigi Ferrajoli, “uno svuotamento progressivo di quasi tutte le garanzie sostanziali e processuali e una crescente amministrativizzazione del diritto penale”, mediante l’introduzione di pene atipiche, oltre che di sanzioni applicabili alla fase precedente all’instaurazione di un giudizio o, addirittura, al di fuori di esso.
Si assiste, allora, ad una mutagenesi del sistema penale.
Il sistema punitivo è sempre più caratterizzato da una espansione della penalità. La politica criminale, onnivora e ipertrofica, si incentra massivamente sui reati di pericolo, sulle misure di sicurezza e su quelle di prevenzione. Misure, queste ultime, non “coperte” dallo statuto di garanzie proprio del diritto penale e, dunque, formidabile arsenale repressivo idoneo a colpire, senza freni inibitori, tanto le persone quanto i patrimoni.
Il processo, dal canto suo, ha smarrito la funzione elettiva di accertamento del fatto e delle responsabilità, trasformandosi in strumento di lotta e di repressione regolativa dei conflitti sociali in difesa dei cittadini. E anche la pena, vittima secondaria dei rigurgiti autoritari, schiacciata da una logica vendicativa, è sottoposta allo “scollegamento” dalla gravità della violazione e dalla sua finalità di rieducazione.
La degenerazione non risparmia neanche il lessico. Si assiste, così, all’avvento del moderno diritto penale “spazza-” fenomeni (pensiamo, ad esempio, alla c.d. legge “spazzacorrotti”), all’interno del quale le norme penali assolvono funzione teleologica di smaltimento di intere categorie criminologiche.
Sia chiaro. Nessuno dubita della necessità dello Stato di difendere se stesso e i propri cittadini dall’aggressione terroristica, dalla pervasività mafiosa, dalla propensione corruttiva nella politica e nella pubblica amministrazione. La questione che si agita è diversa. È di metodo. Tali scopi primari di politica criminale, se da un lato sono irrinunciabili, dall’altro non possono essere perseguiti alterando gli equilibri costituzionali che regolano tanto il cruciale rapporto tra il potere coercitivo e i diritti fondamentali della persona, quanto la separazione dei poteri.
Ed è qui il punto. Il progressivo svuotamento del sistema delle garanzie si è accentuato nel corso degli anni, man mano che il diritto penale è diventato il terreno elettivo, sia dello scontro politico, sia del conflitto tra i poteri dello Stato. È così che, sulle ali di un formidabile consenso popolare, l’avvento al potere di formazioni politiche che rivendicano con orgoglio la loro vocazione populista, è diventato il naturale approdo finale di questa incessante semina.
Certo, il populismo penale non è fenomeno (esclusivamente) indigeno. Anche in Europa, Stati Uniti e Sudamerica si è affermato con il suo corredo tossico di degenerazione giustizialista. Lo abbiamo avvertito nitidamente con l’amico Domenico Bilotti lo scorso novembre nell’Università Loyola di Chicago, in occasione del XX Colloquio dei costituzionalisti americani, all’esito della presentazione del Manifesto del diritto penale liberale e del giusto processo. Le preoccupazioni avvertite in Italia dall’avvocatura penalista e dall’Accademia sono state condivise anche dalla nutrita comunità dei giuristi presenti in America dai vari continenti.
Oggi, però, in Italia si marca un sensibile cambio di passo ideologico e culturale. L’aggressione al sistema delle garanzie non è più dissimulata dalla politica come in passato, ma rivendicata come obiettivo di Governo, è costitutiva del patto elettorale. Il consenso elettorale è offerto espressamente in cambio della promessa securitaria. Il governo dell’insicurezza sociale guida la democrazia emotiva (Glauco Giostra).
La stagione politica che stiamo vivendo registra il primato dell’esasperazione dei caratteri illiberali del moderno diritto penale, nato in Italia con l’illuminismo dei Beccaria e dei Pagano. Basti citare, sul terreno della penalità sostanziale, le recenti riforme della legittima difesa e della prescrizione (definita, non a caso, un ergastolo processuale). Ed ancora, sul versante del rito, agli interventi manipolativi introdotti con la riforma delle intercettazioni, con l’uso sempre più espansivo del trojan, con l’utilizzo ipertrofico della custodia cautelare (che neppure l’intervento regolativo più recente – espressione di una rara forma di lucidità legislativa – è riuscito in qualche modo ad attenuare nella prassi applicativa), con la smaterializzazione del processo penale, agevolata dall’emergenza epidemiologica in atto (e il rischio, concreto, che essa dia l’abbrivio a un progetto di riforma che stabilizzi la virtualizzazione del rito, introducendoci in nuova dimensione distopica del processo penale).
Oggi è espressamente rivendicata l’aggressione ai principi costituzionali della presunzione di non colpevolezza, dell’eccezionale privazione della libertà personale che non segua all’esecuzione della pena, alla legalità penale, alla finalità rieducativa della pena, alla proporzionalità e adeguatezza della pena che sia rimodulata sulla gravità della violazione.
Questa trasformazione (e deformazione) dello Stato di diritto, chiaramente, segna la rotta e la transizione verso lo Stato etico o, ancora peggio, lo Stato di polizia.
Come ha efficacemente evidenziato Domenico Pulitanò in un suo recente contributo, “il diritto penale è un farmaco, medicina o veleno a seconda delle dosi, arma a doppio taglio, strumento necessario dell’ordine giuridico ma anche fattore di ingiustizie, la storia del nostro tempo offre esempi terribili. La politica del diritto penale è il problema di dosare questi farmaci, dosi terapeutiche vanno ricercate tra un troppo poco e un tossico troppo. Le ideologie autoritarie populiste che oggi agitano la scena politica pensano al penale come arma, puntano sulla potenza di fuoco, sul più penale, sempre di più di fronte ai fallimenti cui questa strada va incontro. Danno risposta ed alimento alla passione del punire”.
E a proposito della passione del punire, l’ossessivo fanatismo punitivo è stato analizzato in un recente saggio dall’antropologo e sociologo francese Didier Fassin nel suo libro intitolato “Punire. Una passione contemporanea”.
Al riguardo, occorre chiedersi: davvero l’erosione sempre maggiore delle garanzie e delle libertà individuali, che consegue al crescente scambio tra domanda di sicurezza sociale e offerta di consenso elettorale, è antibiotico necessario per assicurare maggiore tutela individuale e collettiva di fronte alla carica batterica prodotta dai fenomeni criminali?
Anche qui occorre sfatare un (falso) mito.
Intanto sul terreno cautelare. I dati statistici confermano l’(ab)uso della custodia in carcere, sempre più somministrata prescindendo dalle reali esigenze terapeutiche. Una misura coercitiva di massimo rigore che è concausa del sovraffollamento carcerario (dal momento che oltre il 40 % dei detenuti è, oggi, in attesa di giudizio). Che l’accentuazione delle istanze repressive sia, nella fase endo-procedimentale, fonte di maggiore sicurezza collettiva è affermazione (a dir poco) discutibile. Meno discutibili, invece, i dati offerti dalla nuda artimetica sugli esiti della dimensione punitiva applicata così aggressivamente prima della sentenza definitiva. Alla resa dei conti, il tasso di errori giudiziari è altissimo, insopportabile. Negli ultimi 25 anni, nel registro dei casi di ingiusta detenzione la quota annotata supera la soglia di 26.000 unità. Tradotto: 1000 persone all’anno (3 al giorno) subiscono ingiustamente la privazione della propria libertà. L’Italia ha speso oltre 800 milioni di euro per riparare gli errori giudiziari. E il Distretto di Corte di Appello di Catanzaro, nonostante sul piano quantitativo non assuma rilevanti dimensioni (al pari di Roma, Milano o Napoli, ad esempio), nel 2017 e nel 2018 ha registrato un triste primato e numeri preoccupanti, capaci addirittura di “doppiare” la dimensione degli errori giudiziari accertati in altri Distretti di maggiore intensità demografica.
Ma la situazione non muta sul terreno dell’esecuzione penale, sempre più inquinata dalle tossine prodotte dalla visione carcerocentrica della sanzione. Anche su tale orizzonte occorre smascherare subito, dati alla mano, l’inganno prodotto dalla corrente di pensiero che -spesso a colpi di slogan, come “buttare via la chiave”- ha introdotto il dogma (oggi prevalente) della funzione marcatamente retributiva della pena. Bisogna resistere, detto altrimenti, a un’idea repressiva e vendicativa dell’ordinamento penitenziario, sostenuta da “chi nel carcere non vede mai un problema, ma la soluzione di tanti problemi” (Glauco Giostra). Il carcere (al netto di poche eccezioni) non cura, ammala. Non restituisce uomini liberi e liberati, ma esseri alienati da un contesto strutturalmente disumano e criminogeno. Didier Fassin rivela un dato statistico allarmante: negli ultimi 40 anni la carcerazione è aumentata del 180%. Se la ‘passione del punire’ fosse ideologicamente fondata, dovremmo sentirci tutti più sicuri. Non è così. Nel recente saggio di L. Marconi, S. Anastasia, V. Calderone, F. Resta, “Abolire il carcere”, si documenta che molti detenuti, per poter reggere il peso della vita intramuraria, sono costretti ad assumere psicofarmaci. La popolazione carceraria che vive di psicofarmaci è altissima. Ed ancora: dal 2000 al 2015 sono registrati 2368 casi di morte, di cui un terzo, 160 all’anno, dovute a suicidio. Nelle carceri italiane, oltre il 25% della popolazione carceraria è tossicodipendente. Un’altra buona fetta è composta da un esercito di disperati di estrazione extracomunitaria. Ma noi davvero pensiamo che il luogo di recupero della tossicodipendenza o di inserimento sociale dello straniero possa essere il carcere?
Anche su tale terreno, se si bonificassero il linguaggio e la riflessione dagli inquinamenti demagogici, ci si potrebbe confrontare con un dato empirico di rilevante interesse, che inquadra il rapporto di diretta proporzione tra il tasso di carcerazione e il livello di sicurezza sociale nella categoria della “truffa delle etichette”. I dati osservazioni sono noti. In un sistema rigidamente regolato da un modello retributivo e carcerocentrico, tra il 70 e l’80% della popolazione carceraria è esposta al rischio di recidiva. Detto altrimenti, quando il carcere è luogo di segregazione e di alienazione (id est: di ‘discarica sociale’) e il detenuto è restituito alla società attraverso un passaggio non filtrato da un percorso di elaborazione del proprio vissuto e dalle misure alternative, il tasso di recidiva raggiunge quasi la soglia dell’80%. Al contrario, quando la pena è eseguita avviando concreti percorsi di recupero e di reinserimento sociale, attivando anche il sistema delle misure alternative (ancor di più se accompagnate da un concreto inserimento nel mercato del lavoro), i tassi di recidiva si abbassano, quasi fino ad annullarsi.
Insomma, l’esperienza sul campo dimostra che il livello di sicurezza sociale non è destinato ad aumentare cedendo alla tentazione primitiva di “buttare via la chiave”. Semmai il contrario. Come ha sostenuto Vincenzo Maiello in un suo recente intervento, l’idea che la sanzione penale debba costituire una manifestazione di rancorosa vendetta, che deve inseguire fino all’ultimo giorno il condannato nel luogo di privazione della libertà, è uno schiaffo terribile alla teoria personalistica della nostra costituzione, la cui norma più nobile è proprio l’art. 27 comma 3 della Costituzione. L’art. 27 non è un orpello che ingentilisce sul piano estetico la nostra Carta. L’art. 27, terzo comma, occorre ricordarlo, è in stretto collegamento con l’art 3, comma 2, della Costituzione, con il principio di uguaglianza sostanziale. Attraverso il riconoscimento della funzione risocializzante della pena, lo Stato prende impegno di creare le condizioni perché chi è entrato da delinquente esca da persona che possa osservare le regole della legalità. Di fronte all’altezza e alla profondità di un tale quadro assiologico, la barbara e primitiva concezione della pena come vendetta sociale sembra arrestare l’orologio della storia della civiltà catapultandoci in una dimensione che Bauman definiva di retrotopia.
Se volessimo veramente camminare spediti sul terreno della legalità costituzionale e dei percorsi di civilizzazione ispirati dallo statuto di garanzie che essa racchiude, dovremmo proiettare il terreno della nostra riflessione sul versante della giustizia riparativa, per le proprietà terapeutiche che essa ha dimostrato di possedere tanto a favore delle vittime, prese davvero in carico con il peso delle loro ferite, quanto a favore degli autori dei reati, seriamente avviati un percorso di revisione critica di elaborazione del proprio vissuto nel circuito della delinquenza. Vorrei segnalare, al riguardo, un bellissimo libro di Marcella Reni, Notaio in Palmi, dal titolo “Ne vale la pena”, che ripercorre i frutti straordinari prodotti dai percorsi di giustizia ripartiva. I progetti, denominati Sicomoro (perché ispirati alla storia di Zaccheo -un esattore disonesto- raccontata nel capitolo 19 del Vangelo di Luca), sono stati avviati in alcune carceri italiane grazie all’impegno e alla tenacia di persone di buona volontà, come la Reni, che si sono fatte carico della sofferenza e dell’umanità ferita dentro e fuori dal carcere, avviando percorsi di liberazione dal peso che ogni delitto inevitabilmente reca con sé, tanto per le vittime quanto per gli autori dei reati. Mi sia consentito, al riguardo, di dare voce a Giacinto Siciliano, già Direttore della Casa Circondariale di Milano San Vittore, che nella prefazione ha scritto: “Con il ‘Progetto Sicomoro’ abbiamo imparato che il rapporto con le vittime, che noi tradizionalmente trascuravamo, contribuisce ad abbassare la rabbia, a restituire fiducia nell’istituzione penitenziaria da parte della persona detenuta così come di quella apparentemente libera, che ha bisogno di liberarsi dalle sbarre che spesso le circostanze della vita innalzano nella sua mente. Abbiamo imparato che il superamento della rabbia e la fiducia nei confronti dell’istituzione diventa uno dei principali strumenti per una corretta gestione delle complesse dinamiche proprie di un istituto penitenziario, contribuiscono a rendere meno conflittuali i rapporti ed aumentare il livello di riconoscimento e fiducia tra operatori e persone detenute. Abbiamo imparato che il confronto dell’Uomo con sé stesso e con un altro Uomo nel dolore, è più forte della libertà e genera un rispetto che non può essere barattato con la libertà. Abbiamo scoperto che i piani dell’umanizzazione e della corrispondenza nel rapporto con gli autori di reato possono essere punti di forza e non di debolezze dello Stato, degli operatori, delle vittime, della gente comune che attraverso le testimonianze si ferma a riflettere fuori dalle logiche dell’impulsività e dell’emozione negativa, si rende conto di poter contribuire, senza rabbia e senza paura ed in qualche modo diventare anche lei protagonista del processo di cambiamento. E quando cambiano le persone cambia le società che da quelle persone è composta”. La testimonianza di Marcella Reni e di Giacinto Siciliano, allora, dimostrano che il diritto penale, anche nella sua fase esecutiva, è tanto più efficace quanto maggiormente si rivela in grado di mostrare il volto umano disegnato dai padri costituenti.
Non è vero, peraltro, che temi spinosi come il carcere non si possano affrontare al di fuori dei circuiti dedicati agli addetti ai lavori. Ce lo ha dimostrato il giorno di Venerdì Santo 2020 Papa Francesco, al quale va il merito e il coraggio di aver aperto, nel corso della Via Crucis, una finestra sul mondo penitenziario dando voce a detenuti (anche di mafia), a educatori, a cappellani, a operatori di polizia, a magistrati di sorveglianza. Le riflessioni e il respiro offerto da quella realtà troppo spesso ignorata ha suscitato un’ondata emotiva che ha ha scosso le coscienze di tutti. E’ vero che i valori del diritto penale liberale sono contro-intuitivi, ma è altrettanto vero che essi segnano la tappa più avanzata del percorso di civilizzazione del nostro stato costituzionale di diritto. Per tale ragione, l’avvocatura ha la responsabilità di mantenere alta l’attenzione sul rispetto del quadro assiologico che regola lo statuto delle garanzie e delle libertà dell’individuo all’interno della nostra Magna Charta. Certo, il tema ci impone di nuotare spesso contro corrente, di essere voci che gridano nel deserto, per richiamare un’espressione neo-testamentaria (Gv 1,23); ma chiediamoci: l’evoluzione umana della pena, se dal 1600 fino ad oggi non avesse conosciuto pensatori capaci di “gridare nel deserto” e di guardare oltre lo spirito del tempo (mi riferisco a studiosi come Friedrich Von Spee, John Locke, Cesare Beccaria, Enrico Pessina, Eugen Wiesnet, Michel Foucault, David Garland, per citarne alcuni fino ai giorni nostri) ci sarebbe stata questa evoluzione umanitaria?
E’ necessario sviluppare un nuovo lessico civile. Ai populisti che usano le ragioni della forza, occorre opporre la forza della ragione; ai populisti che puntano alla ‘pancia della gente’, noi dobbiamo opporre un lessico che sappia puntare al ‘cuore’ delle persone. L’emergenza COVID ha solo accentuato la visione ipocrita e manichea che si nasconde dietro il fenomeno del populismo e del giustizialismo penale, alimentando l’indifferenza verso un’umanità sofferente che abita le nostre carceri in condizioni inumane e degradanti, per come attestato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo. Quelle condizioni inumane e degradanti diventano un appello al tribunale della nostra coscienza, prima ancora che un monito della Corte Edu. È chiaro. Un legislatore illuminato, oggi, si interrogherebbe sull’applicazione di un indulto, soprattutto quando un ministro dell’Interno riconosce che siamo di fronte ad una bomba epidemiologica che può scoppiare da un momento all’altro all’interno delle carceri. Non abbiamo il dono di un legislatore illuminato, ma non possiamo per questo arretrare rispetto all’esigenza che sia restituito al diritto penale il ruolo di magna carta del reo. Intanto recuperandolo nella sua dimensione liberale. È necessario, in primo luogo, che vengano garantiti e protetti i diritti individuali civili e politici, ma soprattutto è necessario lottare perché le organizzazioni istituzionali siano capaci di tutelare e garantire questi diritti, che sono fattori irrinunciabili perché liberalismo e democrazia marcino nella stessa direzione. Non dimentichiamo che il nostro Stato costituzionale è stato edificato sugli apriori dei diritti umani. Recentemente in un suo scritto pubblicato su “Diritto di difesa”, Vincenzo Maiello ha messo in luce il rischio che il vento dello spirito popolare possa condizionare non solo l’azione politica legittimata dal consenso elettorale, ma le stesse istituzioni penali di garanzia: “È vero” – ha aggiunto Maiello – “la vigenza di una costituzione rigida e delle carte internazionali dei diritti umani sono un baluardo significativo, ma potrebbero non bastare di fronte al vento populista. Ecco perché bisogna sostenere le ragioni di un modello di giustizia penale, che si riconosca nella civiltà dei principi costituzionali. Bisogna, in altri termini, ricostruire una grammatica del discorso civile sul tema dei rapporti tra autorità ed individuo”.
Concludo proponendo gli interrogativi che qualche giorno fa Paolo Borgna (pubblico ministero in Torino, autore di un saggio dal titolo Difesa di un avvocato scritta da un pubblico accusatore), si è posto al termine di un suo articolo pubblicato su “Questione giustizia”. Fino a che punto – si è chiesto il magistrato – in nome della legge e della ricerca di sicurezza, il diritto costituzionale può essere compresso? I diritti di libertà possono essere compressi? Fino a quando potremo esercitare questo così esteso potere di controllo sulle libertà delle persone senza diventare Gerd Wielser delle vite degli italiani? C’è un limite oltre il quale “ci ha ricordato recentemente Giovanni Verde – «la nostra Repubblica (pensata come) democratica liberale si trasforma in uno “Stato etico”». In questo tempo di emergenza COVID-19, ma anche dopo, fermiamoci a meditare su questo ammonimento”.
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