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Camilleri e Marx. Il Pil e la “forza produttiva” del crimine

Nei vari tentativi che vengono effettuati per la quantificazione delle attività illegali nel Pil, emergono visioni contrastanti: alcuni arrivano al punto di chiedersi se è lecito inserire le attività illegali nel calcolo del Pil, (1) altri asseriscono che le mafie sono delle aziende a tutti gli effetti, altri ancora sentenziano che il denaro “sporco” ha invaso l’Italia e il mondo, eccetera.

Su questi approcci diversi, s’innesta un denominatore comune che si fonda sulla percezione diffusa che la criminalità organizzata controlli una fetta cospicua del reddito nazionale, estraendo dalle attività illegali, annesse e connesse, profitti esorbitanti.

Tutto ciò significa che le bande criminali organizzate mettono in circolo un flusso enorme di denaro che non viene contabilizzato ai fini fiscali, esercitando, nello stesso tempo, una pressione sulla linea di confine tra le attività “lecite” e “illecite”.

E sembra proprio che questa linea di demarcazione, oltre a diventare più labile, propendi a favore delle attività illegali, infatti gli effetti domino, che la crisi pandemica sta generando sulle relazioni produttive, ci restituiscono un quadro allarmante e le principali fonti d’informazione continuano a ripetere come un mantra lo stesso concetto: somme consistenti di denaro riciclato, abilmente manovrato dalle cosche malavitose, sono dirette all’acquisizione di aziende fallite o in procinto di fallire.

Tuttavia, basta confrontare due o tre dati, per capire che i ricavi imputati alle organizzazioni mafiose sono molto divergenti tra di loro. Se Francesco Mercadante, giornalista del Sole 24 Ore, imputa alle organizzazioni mafiose ricavi che si aggirano intorno a 150 miliardi di euro, il prospetto elaborato dall’Istat (2), nello studio dell’economia non osservata, approda, dopo una serie di passaggi analitici, a un risultato differente.

Intanto, in questo studio, si fa una distinzione tra attività sommerse e attività illegali, precisando che il valore complessivo della non observed economy equivale a circa 210 miliardi di euro, pari al 12, 6 % del Pil, ma attribuisce al crimine organizzato corrispettivi per 19 miliardi di euro, la cui incidenza sul valore aggiunto del Pil è uguale all’1,1%.

Nel balletto degli indicatori sintetici che mirano ad estrapolare il peso e l’influenza delle attività illegali sulla vita della maggior parte dei cittadini italiani, merita attenzione – come scrive Mercadante – (3) uno studio dell’Università di Reggio Calabria del 2013. In esso si arriva alla conclusione che l’economia mafiosa erode il 15 % del nostro reddito pro capite.

 

Ma cosa significa tale affermazione?

In realtà, la fonte citata qui sopra è vaga e suppongo che essa si basi sulla relazione dalla Commissione parlamentare contro le mafie ed è supportata da dati di Banca d’Italia del 2010, in cui si evidenziano i costi economici della criminalità organizzata nelle regioni dell’Italia meridionale. In essa, tra le altre implicazioni rilevate, si asserisce che la pressione delle organizzazioni mafiose frena lo sviluppo di vaste aree del paese e comprime le prospettive di crescita.

Pertanto, se seguiamo la logica deduttiva di questo ragionamento, possiamo constatare che la contrazione del reddito pro capite del 15 % è un valore presunto, per esprimere, in un linguaggio meno intriso della retorica aziendalistica, il danno, gli ostacoli e gli impedimenti che le organizzazioni criminali procurano al “regolare” svolgimento delle attività mercantili.

Qui lo snodo diventa delicato e il rischio di essere fraintesi s’innalza, se non riusciamo a trovare la capacità di meta-comunicare. Senonché, vale la pena chiedersi: come mai le organizzazioni criminali gestiscono il traffico di quei beni e servizi che – come scrive Tonino Perna – hanno un valore d’uso negativo?

La prima risposta che affiora è collegata alla mentalità di chi intraprende questa strada, anche se, spesso, involontariamente: ottenere guadagni (profitti) elevati da attività ad alto rischio, investendo risorse esigue e disprezzando le attività lavorative, che richiedono sforzi fisici e intellettivi.

In questo modus operandi riecheggiano i vagiti, le urla e tutta la violenza del processo di accumulazione originaria del capitale, ampiamente sviluppato da Marx e sul quale non ci soffermeremo. Tranne per dire, in questo contesto, per fare un esempio, che i papponi, i magnaccia, i mantenuti/e ovvero tutti coloro che lucrano sullo sfruttamento e riduzione in schiavitù delle donne, in quanto costrette a vendere il proprio corpo per sopravvivere, non sono capaci di apprendere niente nella loro vita, se non l’arte di parassitare, fingendo di essere degli imprenditori.

Ma nel cercare di rispondere all’ultima domanda che ci siamo posti, è necessario approfondire il livello della nostra analisi.

Esiste un mercato parallelo, che va dal grigio al nero, in cui scalpitano le ciurme criminali allo scopo di espandere il proprio raggio di azione e il proprio giro di affari, ma soprattutto si preoccupano di reinvestire (riciclare) i fiumi di denaro provenienti dagli extraprofitti.

Se lo scarto tra il prezzo di acquisto e di vendita della cocaina, tra un paese produttore come la Columbia e un paese consumatore come l’Italia, è di venti volte, quale altro settore produttivo legale – si chiede Perna – può conseguire un tale margine di profitto? Forse, quello della produzione di farmaci.

Anche qui il prezzo non è basato sui costi di produzione, ma su altre dinamiche come il monopolio dell’informazione, in questo caso il brevetto posseduto dalle case farmaceutiche. Tolta di mezzo quest’analogia, rimane il fatto che negli ultimi tre decenni, gli extraprofitti, ossia il motore dello sviluppo capitalistico, sono generati, per lo più, dai traffici illegali, mentre la cosiddetta produzione ordinaria di beni e servizi è, nella maggior parte dei casi, alle prese con la sovrapproduzione e la corrispondente saturazione dei mercati.

Qualsiasi tentativo di espandere ulteriormente il mercato, si scontra inevitabilmente con la costruzione artificiali di bolle speculative, di valori drogati che designano il ritorno mitico, da parte delle organizzazioni mafiose, alle forme violente dell’accumulazione originaria.

Si assiste, in qualche modo, ad un ritorno al passato, alla coazione a ripetere, si finisce nel cul-de- sac dei romanzi criminali, e sullo sfondo si intravede la “metamorfosi” delle vecchie organizzazioni criminali in «borghesia mafiosa», una «nuova classe sociale che disprezza la cultura e gli intellettuali», (4) in netta contrapposizione all’edificante, seppur bramosa, borghesia industriale.

La satira di Cetto La Qualunque esprime a pennello le attitudini dei nuovi rapaci e ne evidenzia gli intrecci con la politica e con la finanza. Con i suoi gesti eloquenti, ci fa riflettere su un aspetto essenziale del fenomeno che stiamo cercando di descrivere. Infatti, sembra che la mafia non rappresenti più un cancro da estirpare, un difetto della società civile, al contrario, essa si presenta come parte attiva, ossia come una sua componete economica e antropologica di rilievo, che traina il resto della società.

 

La forza produttiva del crimine

La parola mafia, di etimo incerto, affonda le sue radici nel dialetto siciliano, per esprimere tracotanza, spavalderia, baldanza, omertà e segretezza degli affiliati a una congrega i cui membri utilizzano l’intimidazione, la sopraffazione, la costrizione e la violenza per raggiungere i propri obiettivi, e si è diffusa in tutto il pianeta.

Lo stesso concetto, che la parola racchiude, rappresenta, per certi versi, un triste primato della terra dei siculi, come se i clan dell’isola avessero esportato un modello organizzativo, facilmente trapiantabile in paesi come la Cina e la Russia, la Nigeria e la Columbia; una gigantesca piovra, che con i suoi tentacoli, si è aggrappata su tutta la penisola italiana e si è consacrata in espressioni come “mafia capitale” o “eco-mafia”.

È forse possibile dimenticare personaggi mitici come Al Capone o Il Padrino, immortalati da Hollywood?

Certo che no!

E nelle vostre letture quotidiane, vi capita di trovare analisti finanziari che cercano di quantificare i ritorni economici dei produttori cinematografici e televisivi collegati con la narrazione delle storie delle gang criminali?

Temo di no! O formerebbero uno sparuto gruppo.

È su queste “connections” che Andrea Camilleri, nel 2007, riprende Elogio del crimine, di Karl Marx, un piccolo testo, dal valore inestimabile, scritto fra il 1860 e il 1862, e aggiunto dai curatori alla Teoria del plusvalore, nel quarto volume de Il Capitale. (5)

Nella prefazione al libretto, dal titolo Il Rinascimento e l’orologio a cucù, Camilleri rielabora la lucida critica alla concezione “apologetica della produttività” di Marx e ne rende evidenti, io direi, le implicazioni e diramazioni con il Pil, senza tralasciare un pizzico di sana autocritica a proposito della diffusione ed espansione del suo lavoro creativo.

Camilleri sapeva bene quello che diceva, poiché la sua ascesa come scrittore è decollata con la creazione del famoso personaggio televisivo Il Commissario Montalbano; conosceva bene l’arte drammatica e amava prendersi in giro, quando affermava di andare a trovare Sciascia e Pirandello, per “ricaricare le pile”. Ma soprattutto era consapevole di essere diventato l’ispiratore di un fenomeno letterario e televisivo mondiale, l’ideatore di un personaggio onirico, con un successo strepitoso, che viaggiava, spesso e volentieri, per conto suo, tormentando e ricattando il suo autore.

Camilleri, giustamente, ci rammenta che lo stesso Marx attinge alla logica paradossale di Bernard de Mandeville, il quale, nel 1714, scrive un saggio intitolato: La Favola delle api, ossia vizi privati, pubblici vantaggi.

In quest’opera, Mandeville sostiene la tesi che ciò che noi chiamiamo il male, tanto quello morale quanto quello naturale, è il grande principio che fa di noi degli esseri sociali, è la solida base di tutti i mestieri e di tutte le occupazioni.

Ed è proprio su questa base che Marx, con toni satireggianti, mette a nudo il legame tra il crimine e una consistente componente delle forze produttive complessive dell’economia borghese.

Il delinquente, scrive Marx, rompe la monotonia e la banale sicurezza della vita borghese, egli preserva così questa vita dalla stagnazione e suscita quell’inquieta tensione e quella mobilità, senza la quale anche lo stimolo della concorrenza si smorzerebbe.

E mentre un filosofo, continua Marx, produce idee, un poeta poesie, un pastore prediche, un professore manuali, eccetera, un delinquente produce delitti, ma con essi anche il diritto e con ciò anche il professore che tiene lezioni sul delitto criminale, e inoltre l’inevitabile manuale, in cui questo stesso professore getta i suoi discorsi in quanto “merce” sul mercato generale.

Ora, non c’è bisogno di soffermarsi a lungo su tutti gli apparati produttivi direttamente collegati con le attività criminali e già noti ai tempi di Marx, così come credo che non ci sia bisogno di passare al vaglio l’elenco delle professioni che traggono linfa dall’esistenza delle azioni dei delinquenti.

Ma ritengo che si possa convenire con Camilleri, quando afferma che il travolgente progresso scientifico della seconda metà del Novecento ha infinitamente allargato le possibilità e le varietà, persino le qualità, del crimine e quindi ha esponenzialmente elevato il numero di coloro che attorno al crimine ruotano, sia come complici sia come avversari.

Basti solo pensare che negli immensi quartieri periferici di una metropoli come Roma, sono stati utilizzati milioni di tonnellate di ferro e acciaio, per costruire grate fino al secondo piano di ogni abitazione, allo scopo di difendersi dai ladri.

Tuttavia, quest’ultimo genere di espediente non ha niente a che vedere con i sofisticati sistemi di sicurezza di cui fanno uso, per esempio, i proprietari delle ville costruite a Waterford Crest, non lontano da Los Angeles, e descritti da Robert Lopez in La città-fortezza, un nuovo apartheid sociale.

Ciò che hanno in comune, però, è la difesa della proprietà privata.

Man mano che scendiamo nei dettagli dei legami produttivi, l’elenco delle attività, messe in moto dai delitti dei delinquenti, si allarga a dismisura e coinvolge una miriade di addetti pubblici e privati.

Se non ci fossero stati i ladri, sarebbe mai stato possibile costruire le industriose casseforti, per custodire gli oggetti preziosi? Senza Diabolik, non ci sarebbe Ginko, né Eva e nemmeno gli artefici degli inespugnabili caveaux, che corazzano diamanti ineguagliabili.

Chi avrebbe progettato le porte blindate, se non ci fossero stati gli scassinatori di appartamenti? Per non parlare degli allarmi delle automobili, dei sistemi di videosorveglianza delle banche e dei negozi, dei sistemi SET, per evitare le clonazioni delle carte di credito, delle società para-criminali che assoldano e sfruttano schiere di vigilantes, e così via. Ha ragione Camilleri: se proseguiamo su questa strada, porteremmo acqua al mulino di Marx.

E ne portiamo ancor di più, quando pensiamo all’odierno diluvio di romanzi polizieschi, noir, gialli, horror, giudiziari, spionistici, all’immensa quantità di serie televisive che vengono prodotte sulle scenografie che traggono ispirazione dai suddetti libri, al marketing indiretto che generano le star cinematografiche, quando interpretano personaggi di spicco della malavita, incrementando il numero degli spettatori attratti dall’industria d’intrattenimento, senza dimenticare il giornalista di grido, che cerca lo scoop e si reca nei quartieri degradati di una grande città, per intervistare un capoclan, invece che le flotte di disoccupati.

Alla luce delle connessioni che esistono tra i crimini che commettono le organizzazioni malavitose e coloro che scrivono le leggi speciali e il Codice penale, dei variegati intrecci paradossali che fungono da stimolo e da pungolo, per lo sviluppo di una parte delle forze produttive, l’autore del Sole 24 Ore, qui sopra citato, e gli esperti dell’Istat sarebbero disposti a rivedere le loro congetture sulla misurazione del Pil?

Proprio perché è facile cadere nella trappola delle illusioni, potremmo, almeno, immaginare che gli giunca all’orecchio la pulce. Del resto, partendo dall’affermazione che le economie mafiose erodono il nostro reddito pro capite e percorrendo un sentiero poco battuto, sono pervenuto a un risultato opposto.

Che paradosso!

 

Note

1) A partire da settembre 2014, gli stati membri dell’Unione europea hanno adottato il nuovo sistema europeo dei conti nazionali e regionali. Il sistema, in osservanza del principio di esaustività dei conti nazionali, che impone di ricomprendere nelle stime nazionali tutte le attività produttive di reddito indipendentemente dal loro status giuridico e in risposta a una superiore esigenza di omogeneità nei conti dei diversi stati dell’Unione, ha previsto l’ingresso nel Pil nazionale dell’attività illegale. E. Montani, Le mafie nel Pil, Lavoce.info, https://www.lavoce.info/archives/49746/le-mafie-nel-pil

* da Coku

(2) Fonte: Report Istat 11 ottobre 2017.

(3) F. Mercadante, È ora di trattare la mafia come un’impresa a tutti gli effetti. Ecco perché, Il Sole 24 Ore, 22/06/2019.

(4) T. Perna, Destra e sinistra nell’Europa del XXI secolo, Terre di mezzo, 2001, p. 105.

(5) K. Marx, Elogio del crimine, a cura di A. Camilleri, Nottetempo, 2007 (Karl Marx, Abschweifung (ueber produktive Arbeit) [Digressioni (sul lavoro produttivo)], in Werke – Band 43, Verlag, Berlin, 1990, p. 302-305.Traduzione di Ailke Richter)

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1 Commento


  • ndr60

    La più grande impresa mafiosa è Wall Street, visto che è il capitalismo stesso ad essere criminogeno: i fondi neri delle multinazionali farebbero impallidire qualunque re dei narcos. Totò Riina era un dilettante rispetto a Cheney & c., e la Mafia srl. non ha mai invaso nessuno stato sovrano, si limita ad occupare il proprio, drenando il surplus. Del resto, se rapini una banca rimani un poveraccio: se vuoi fare davvero carriera, una banca la devi fondare.

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