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Ma cos’è questa crisi, ma cos’è questa crisi…

Se non fosse tragico, sarebbe quasi divertente vedere come gli analisti liberisti provano a spiegare perché la crisi non se ne va più. Ai nostri lettori ci sembra però il caso di offrire qualche ragionamento meno unilaterale, o meglio uno sguardo sui fatti economici più attento ai fatti e per nulla all’ideologia.

Prendiamo spunto da una pregevole presentazione del problema apparsa sul sito online de IlSole24Ore, redatta da Enrico Marro e intitolata “Perché l’economia mondiale fatica se le Borse corrono (+190% in sei anni)? Tre possibili spiegazioni”.

E cominciamo proprio dal problema malposto nel titolo: economia reale (quella che non cresce più) e mercati finanziari (che invece hanno triplicato le quotazioni) viaggiano su binari completamente separati da molti ani a questa parte. I libri di macroeconomia neoliberista predicano che il “giusto prezzo” di un titolo azionario quotato in borsa dovrebbe essere 16 volte gli utili per azione; ovvero il numero di anni necessari perché l’investitore azionario recuperi il denaro investito (senza vendere l’azione, naturalmente).

Questo rapporto è chiamato price/earnings, ed ha avuto una sua validità finché non è stato permesso alle grandi banche di investimento di agire come “industria a se stante”, invece che come servizio di raccolta di fondi da investire nell’economia reale (agricoltura, industria, servizi). Dalla metà degli anni ’90 il decorso della crescita globale è stato affidato soprattutto ai paesi emergenti (Cina su tutti), mentre nei paesi più industrializzati praticamente si fermava. Nello stesso tempo i mercati finanziari, ormai “svincolati”, procedevano di bolla in bolla (“tigri asiatiche”, new economy, mutui subprime, Lehmann Brothers, ecc), sempre supportati però dalle politiche “non convenzionali” delle banche centrali più importanti, a partire ovviamente dalla Federal Reserve statunitense.

I quantitative easing – tassi ridotti fino a zero, liquidità disponibile senza limiti – hanno prodotto flussi di denaro crescenti che avevano però solo uno sbocco possibile: titoli obbligazionari (soprattutto pubblici) e titoli azionari. Quindi le borse si sono gonfiate a dismisura nonostante l’economia reale segni il passo.

Quel legame rappresentato nel price/earnings è stato reciso e quindi non si può quindi più spiegare con quelle grandezze la dinamica discordante tra borse e crescita. Dunque bisogna trovare nuove spiegazioni, fin qui completamente ignorate.

La prima chiama in causa gli andamenti demografici.

Un mondo di anziani: ora la demografia frena la crescita

Guardando la Storia alle nostre spalle, è evidente che la crescita economica si deve a due fattori principali, il primo dei quali è la demografia. Una popolazione giovane, che aumenta di numero e consuma, allarga il mercato di prodotti e servizi. Oggi però la demografia, da sempre motore di sviluppo, è diventato un potente freno. Sì perché ora la tendenza generale è quella all’invecchiamento: secondo stime delle Nazioni Unite, in appena 60 anni (dal 1990 al 2050) l’età media della popolazione mondiale aumenterà del 46%. E’ un fenomeno unico nella storia dell’umanità, che porta una fascia sempre maggiore di individui a uscire dall’età lavorativa. E quindi a non produrre. Soprattutto in Europa (e in particolare in Italia), ma anche nei Paesi emergenti, con la stessa Cina che ha imboccato la via dell’invecchiamento demografico. Ovvio quindi che, se c’è meno gente che lavora e produce, l’economia non cresce. E questo è solo il primo “freno”. Poi c’è il secondo: la tecnologia.

Contropiano. I dati sono giusti, il rapporto tra loro no. Non si può isolare la dinamica demografica dall’evoluzione tecnologica, perché proprio quest’ultima ha permesso di incrementare la produzione di merci a velocità mai viste prime. Creando dunque anche la base materiale per l’esplosione del numero degli abitanti del pianeta.

Anche solo la rivoluzione dell’agricoltura sarebbe sufficiente a spiegare questa esplosione. Con la meccanizzazione quasi universale nel secondo dopoguerra (trattori invece di uomini con vanga e pala) la produzione di cibo ha superato di molto gli antichi limiti quantitativi naturali. La chimica ha messo a disposizione diserbanti, anticrittogamici, pesticidi, concimi, ecc, che hanno reso incrementato la resa per ettaro e ridotto al minimo la percentuale di prodotto invendibile. La manipolazione genetica e la selezione delle sementi ha messo a disposizione cultivar più resistenti e durature nel tempo; trasporti e infrastrutture hanno ridotto al minimo il tempo necessario a mettere quei prodotti sul mercato.

Non sono tute rose e fiori, lo sappiamo, e i problemi creati (inquinamento, cibi “mostruosi” dalle conseguenze imprevedibili sul corpo umano, ecc) sono forse più numerosi di quelli risolti. Ma la quantità bruta di cibo a disposizione è tale da poter teoricamente sfamare in abbondanza tutta la popolazione mondiale. Il problema è che va venduta. Quindi ci deve essere una domanda solvibile, clienti con soldi in tasca.

E fin quando la crescita economica ha permesso di mettere in produzione (nell’industria e nei servizi) una quantità crescente di persone e popolazioni quella domanda solvibile è stata creata. Crescente.

Oggi siamo al punto che papi e presidenti auspicano leggi che mettano il cibo in eccesso (rispetto alla possibilità di vendita) gratuitamente a disposizione di chi non riesce ad avere un lavoro.

La tecnologia oggi crea più lavoro di quello che distrugge?

L’altro grande motore dello sviluppo economico, nella storia dell’uomo, è stata la tecnologia. Dalla scoperta del fuoco alla rivoluzione industriale, le innovazioni hanno sempre portato prosperità. Ma oggi è ancora così? Il tema è controverso. Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee, docenti al MIT e autori del famoso saggio “Race against the machine”, hanno scritto che nei primi dieci anni del terzo millennio – quelli del trionfo dell’information technology – l’occupazione mondiale è scesa dell’1%. Mentre negli ultimi due decenni del Novecento era aumentata del 20%.
C’è poi un altro elemento importante, sottolineato tra gli altri dal Nobel Edmund Phelps: la tecnologia oggi non si traduce in aumenti di produttività del lavoro, non almeno come nel glorioso XX secolo (in particolare negli anni Sessanta). Tutto questo comprime gli stipendi e, di conseguenza, i consumi.

Contropiano. Qui si sfiora appena il problema centrale del prossimo futuro, peraltro enunciando soltanto gli aspetti critici della produttività e dei consumi. È logico, viste le basi teoriche utilizzate.

Ma se le tecnologie attuali, e ancor più quelle in fase avanzata di progettazione, distruggono più lavoro di quel che creano – al contrario di quanto fin qui avvenuto nella storia umana – andiamo incontro a una situazione da Zardoz o Elysium: una quantità esponenzialmente crescente di merci a fronte di sempre meno persone che dispongono del reddito per comprare (sempre meno lavoratori addetti alla produzione).

È un limite che i marxisti hanno letto sui libri, con altri termini, ma ora si presenta nella realtà concreta davanti ai nostri occhi. “Lo sviluppo delle forze produttive” permetterebbe di risolvere quasi tutti i problemi di sussistenza per l’intero pianeta, ma…

Le diseguaglianze crescono e frenano i consumi

La “forbice” tra ricchi e poveri sta aumentando quasi dappertutto. E’ un dato di fatto. Ma la brutta notizia è un’altra: dal Nobel Joseph Stiglitz al trendy Thomas Piketty, fino all’austero Fondo Monetario, fior di economisti hanno dimostrato che l’aumento degli squilibri nella distribuzione del reddito uccide la crescita. Sì, perché la propensione al consumo dei ricchi è, in proporzione, minore di quella dell’ormai moribondo ceto medio. Quindi nei Paesi dove la forbice tra ricchi e poveri si allarga, i consumi tendono a scendere. Mentre una middle class ampia e resa potente da un’equilibrata distribuzione dei redditi aiuta la crescita del Pil. Ma la classe media sopravviverà alla “nuova normalità”?

Contropiano. Il “ceto medio” di cui parla Marro è in realtà il lavoro dipendente, comprendendo in questa definizione anche i livelli di competenze più alte (ingegneri, biologi, chimici, ecc). Detto questo, il quadro è esatto, ma astratto, prigioniero della logica dei consumi in ambiente rigorosamente capitalistico. Tradotto: le dinamiche prima illustrate (invecchiamento medio delle popolazioni, sviluppo tecnologico, sovrabbondanza di merci e tecnologie) fanno vedere che “l’aumento degli squilibri nella distribuzione del reddito” è diventato un limite per l’ulteriore sviluppo dell’economia. Quanti sono infatti quelli che possono consumare pagando il prezzo richiesto? Solo quelli – sempre meno – che hanno un lavoro o una pensione, oltre ovviamente ai manager e agli azionisti che si appropriano della gran massa dei profitti. Ma mentre i redditi da lavoro dipendente – pensioni comprese – sono in diminuzione sia come massa di salario individuale, sia come numero di percettori di questo tipo di reddito, dall’altra parte (manager, finanzieri, azionisti, ecc) restano sostanzialmente una frazione numericamente assai limitata della popolazione globale. Anche se incamerano un reddito inviduale crescente la loro “propensione al consumo” è limitata, indirizzata soprattutto verso merci assai particolari, di nicchia, di lusso. Sia che si parli di oggetti (auto, gioielli, quadri, yacht, aerei, abiti, ecc), sia che sia parli di cibo. Il grosso della produzione è però “di massa”, e qui l’espansione dei consumi non funziona più. Anzi, arretra sotto i colpi della crisi.

Cosa ne deriva? Quel che i marxisti dicono con parole ormai incomprensibili ai più, a volte persino a se stessi: “i rapporti di produzione capitalistici sono diventati un ostacolo all’ulteriore sviluppo delle forze produttive”. Ma la traduzione in parole del 2015 non ci sembra difficilissima: dobbiamo toglierci dai piedi questa piccola truppa di parassiti che impedisce di utilizzare conoscenza e tecnologie per fare del mondo un posto dove tutti possono vivere in santa pace. Si possono proporre traduzioni migliori, certo; ma il senso è questo.

Loro non sono d’accordo, ovvio. E non sembra logico aspettarsi che siano disponibili a vedersi “riformare” il sistema che li tiene dove sono.

 

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