Questa non è stata la prima intervista da me rilasciata al più importante quotidiano israeliano, ma certamente è stata la più lunga e quella meglio preparata. Ari Shavit ha passato tre giorni a parlare con me all’inizio di agosto del 2000 a New York. Quel che colpisce di un’intervista del genere è che potesse uscire (come è uscita) su un quotidiano israeliano, ma di certo non su uno americano.
Intervista con Ari Shavit, Ha’aretz Magazine, Tel Aviv 2000
E. W. Said
Poco prima di partire per New York, sono andato a vedere la casa. Non avevo tanta strada da fare – si trova a circa trecento metri da dove abito e si affaccia sui giardini dove mia figlia ama giocare. La costruzione non ha nulla di speciale: due piani, ad angolo, una sorta di funzionalità asciutta, di tipo protestante.
Non si tratta di una di quelle splendide case ben rifinite nelle quali gli arabi cristiani di Talbieh investivano tutti i loro beni; è ben proporzionata, funzionale, rettangolare, con una bella palma nel cortile di fronte, una piccola scala e un ingresso attiguo.
Questo è l’ingresso a cui fa sempre riferimento Edward W. Said e che ha per lui un valore sentimentale. Questa è la palma che lui ricorda. Quando non c’erano altri edifici intorno.
Fino al giorno in cui sentí una conversazione che lo gettò nel panico; qualcuno stava parlando del pericolo rappresentato dagli ebrei. E qualcun altro diceva che non c’era nulla da temere. Che, quando fosse venuto il tempo, i giovani si sarebbero riuniti e con le mazze avrebbero cacciato via gli ebrei. Se ne sarebbero sbarazzati.
No, Said non ricorda il momento esatto in cui la sua famiglia lasciò la casa. Non ha un ricordo dell’ultimo giorno, dell’ultimo periodo. Tutto ciò che avvenne fu che all’inizio dell’inverno fecero ritorno nella loro casa al Cairo, come facevano quasi tutti gli anni.
Fu solamente più tardi che vennero a sapere che qualcosa di terribile era avvenuto in Palestina. E lentamente, molto lentamente, capí che non sarebbero più potuti tornare. Che per loro Gerusalemme era perduta. Che alcuni parenti e amici di famiglia avevano perso tutto. Che adesso erano dei rifugiati.
Ai primi di agosto, nel pieno delle vacanze estive, il campus semideserto della Columbia University a New York è un luogo malinconico e l’oscurità insidia i corridoi dell’edificio che ospita il Dipartimento di Filosofia.
Invece l’ufficio al quinto piano del prof. Edward W. Said è spazioso e ben illuminato. Vi regna un disordine niente affatto sgradevole, fatto di documenti, pile di libri e di giornali in varie lingue.
E in mezzo a tutto questo, in un angolo, sta appeso un vecchio poster molto noto del movimento Yesh Gvul1 (“C’è un limite!”): “Dont say ’I didn’t know” (“Non dire ‘non lo sapevo’”). E in alto, su una delle mensole, una cartina della Palestina. Tutta la Terra di Palestina. Dorata.
Nel corso dell’ultimo anno i suoi capelli sono diventati grigi. Il progredire del tumore allo stomaco comincia a dargli fastidio. Ciononostante, Edward W. Said è tuttora un uomo molto bello, curato nell’aspetto e nell’abbigliamento. Un fazzoletto di seta fuoriesce dal taschino della giacca e un orologio d’oro gli brilla al polso quando allunga la mano per prendere un sorso dalla bottiglia di San Pellegrino sul suo tavolo.
Trasuda fascino. L’intellettuale palestinese più conosciuto in Occidente è un uomo cordiale, dall’intelligenza colta e arguta. Fortemente politicizzato, sensibile e dotato di senso dell’umorismo. Passa con leggerezza e grazia da citazioni poetiche di Dante a citazioni di Sternhell contro il sionismo e viceversa.
Prova un evidente piacere nel muoversi tra lingue diverse e tra diversi livelli culturali in cui vive. Tra le diverse identità da cui è attraversato. Come se celebrasse la propria capacitò di essere allo stesso tempo inglese, americano e arabo. Allo stesso tempo rifugiato e aristocratico, sovversivo e conservatore, letterato e propagandista, europeo e mediterraneo.
Prima che io accenda il registratore, Said indaga a lungo sul mio background. Quanto tempo ho passato in Israele, da dove proviene la mia famiglia, e pian piano ci ritroviamo a parlare del nostro quartiere.
Lui aveva abitato lí, per qualche tempo, più di cinquant’anni fa. Io ci abito adesso. Abbiamo parlato dei vari edifici che ci sono familiari. Dei nomi delle famiglie note a entrambi. Cercando di girare accuratamente intorno a quanto c’è di più delicato: perché lui è il mio Altro. Io sono il suo Altro. C’è questa strana intimità, questa intimità tragica, tra di noi. Tra lui, me e Talbieh.
Ari Shavit: Professor Said, molti israeliani – ma non solo israeliani – sono rimasti colpiti dalla notizia che Lei, esimio studioso, all’inizio dell’estate avesse lanciato sassi contro una postazione militare israeliana al confine libanese. Che cosa l’ha spinta a un’azione tanto inaspettata, dopo il ritiro israeliano dal Sud del Libano?
Edward W. Said: Mi trovavo in Libano per un soggiorno estivo. Avevo tenuto due conferenze ed ero con la mia famiglia e alcuni amici. Poi ho incontrato Sheick (Hassan) Nasrallah (il capo spirituale di Hezbollah), che mi è sembrato un uomo molto notevole.
Un uomo semplice, giovane, e tutt’altro che un ciarlatano. Un uomo che ha adottato una strategia nei confronti di Israele abbastanza simile a quella dei vietnamiti contro gli americani: non possiamo combatterli perché hanno un esercito, una marina e possibilità nucleari, quindi l’unico modo che abbiamo è quello di farli sentire già nei loro body-bags.
E questo è proprio quello che ha fatto. Nell’unica conversazione che abbiamo avuto, mi ha colpito il fatto che, tra tutti i leader politici che ho incontrato in Medio oriente, fosse il solo a essere arrivato puntuale e senza avere intorno individui che agitano kalashnikov.
Ci siamo trovati d’accordo sul fatto che, per quanto riguarda la rivendicazione dei diritti palestinesi, l’accordo di Oslo è stato un vero disastro. Poi mi ha consigliato di andare giù al Sud, cosa che ho fatto qualche giorno dopo.
Eravamo in nove. Mio figlio con la sua fidanzata, mia figlia e un suo amico, io e alcuni altri, e una guida della resistenza libanese.
Prima di tutto siamo andati alla prigione di Khiam che ci ha molto impressionato. Nella mia vita ho avuto modo di vedere molte cose sgradevoli, ma questa forse è la peggiore. Le celle di isolamento desolate, le camere della tortura. Gli strumenti di tortura ancora lí, anche i cavetti elettrici che utilizzavano. E il posto esala un fetore di escrementi umani e di violenza.
Le parole non possono esprimere l’orrore, tanto che mia figlia ha cominciato a gridare e a singhiozzare.
Da lí siamo andati direttamente al confine, in un posto chiamato Bowabit Fatma, Fatima Gate, dove centinaia di turisti si trovavano davanti a un’enorme quantità di filo spinato. Circa duecento metri più in là c’era una torre di controllo, anch’essa circondata da filo spinato e cemento.
Dentro, forse, c’erano soldati israeliani, ma io non li ho visti. Era abbastanza lontano. Quello che mi dispiace in tutto questo è che l’aspetto comico della situazione non sia emerso. Si è creduto che stessi tirando pietre contro qualcuno. Ma non c’era nessuno.
Quello che in realtà è avvenuto è stato che mio figlio insieme ad altri giovani stava facendo a gara a chi riusciva a lanciare sassi più lontano. E poiché mio figlio è un tipo piuttosto massiccio – è americano e gioca a baseball – tirava più lontano di tutti.
Mia figlia mi ha chiesto: “Papà, puoi tirare un sasso lontano quanto Wadie?” e questo ha scatenato in me la solita competizione edipica. Cosí ho raccolto il sasso e l’ho tirato.
A. S.: Tirare sassi al Fatima Gate subito dopo che Israele si è ritirata dal Sud del Libano non sembra essere una celebrazione della liberazione quanto un fondamentale rifiuto di qualcosa. Di che cosa?
E. S.: Un rifiuto degli israeliani. La sensazione è che, dopo vent’anni di occupazione della nostra terra, se ne siano andati. E c’è anche un senso di congedo. Non solo ve ne state andando, ma finalmente una volta per tutte! Non vogliamo che torniate.
Quindi, l’atmosfera è piuttosto “carnevalesca”, un senso di salutare anarchia, un sentimento di trionfo! Per la prima volta nella mia vita e in quella delle persone riunite al Fatima Gate, abbiamo vinto. Stavolta abbiamo vinto.
A. S.: Professor Said, quest’estate israeliani e palestinesi stanno tentando di porre fine al conflitto centenario tra voi e noi. È possibile? Il conflitto può essere risolto?
E. S.: Sí, penso di sí. Ma non credo che Yasser Arafat possa firmare la cessazione del conflitto. E non ha neppure il diritto di farlo in una circostanza promossa da Bill Clinton a Camp David. Finché Israele non si assumerà la responsabilità morale per quello che ha commesso contro il popolo palestinese, non ci potrà essere soluzione al conflitto.
Ci sarebbe bisogno di un vero “capitolato” che contenga tutte le nostre rivendicazioni nei confronti di Israele per l’iniziale esproprio e per l’occupazione che ha avuto inizio nel 1967. Ci sarebbe bisogno, quanto meno, di un riconoscimento della distruzione della società palestinese, degli espropri a danno della popolazione palestinese e della confisca della loro terra.
E, infine, delle privazioni e della sofferenza nell’arco degli ultimi cinquantadue anni, comprendendo azioni come il massacro di Sabra e Chatila.
Io credo che il conflitto possa finire solamente quando Israele si assumerà il carico di tutto questo. Penso che bisognerebbe fare uno sforzo per arrivare a dire “questo è quanto è avvenuto”. Questo è il racconto dei fatti.
A. S.: Qual è questo racconto? Di cosa tratta questo conflitto?
E. S.: È un conflitto che ha una certa solennità. Dicevo l’altra sera a [Daniel] Barenboim: “Pensa a questa catena di eventi: l’antisemitismo, il bisogno degli ebrei di trovare una patria, l’idea originaria di Herzl, decisamente colonialista, e poi la sua trasformazione nelle idee socialiste del moshav e del kibbutz, la situazione drammatica sotto Hitler e persone come Yitzhak Shamir che erano realmente interessate a cooperare con lui, poi il genocidio degli ebrei in Europa e le azioni contro i palestinesi nella Palestina del 1948”.
Quando pensi a tutto questo, quando pensi a ebrei e palestinesi non separatamente ma come parti di una stessa sinfonia, c’è qualcosa di incredibilmente maestoso.
Una storia molto ricca, anche molto tragica e per molti versi disperata, una storia di estremi – di opposti in senso hegeliano – che ancora deve ottenere il giusto riconoscimento.
Quello che hai davanti, quindi è una sorta di grandezza sublime. Una sequenza di tragedie, perdite, sacrifici, dolori che richiederebbe la mente di un Bach per riuscire a ricomporla. Ci vorrebbe un’immaginazione come quella di Edmund Burke per abbracciarla.
Invece, le persone che si occupano di questo imponente affresco sono dei “rattoppatori” come Clinton, Arafat e Barak, che si comportano come portinai con i paraocchi, capaci solo di spazzare intorno al problema, capaci solo di dire “spostiamolo un po’, mettiamolo lí nell’angolo”.
Ecco come vedo il processo di pace.
A. S.: Si tratta di un conflitto simmetrico tra due popoli che hanno uguali diritti sulla terra che condividono?
E. S.: Non c’è nessuna simmetria in questo conflitto. Questo va detto. Io lo credo fermamente. C’è un colpevole e ci sono delle vittime. I palestinesi sono le vittime. Con questo non voglio dire che tutto quello che è avvenuto in Palestina sia la diretta conseguenza di azioni israeliane.
Però, l’originario stravolgimento nelle vite dei palestinesi è stato innescato dall’intervento sionista, che per noi – nel nostro racconto dei fatti – comincia con la Dichiarazione Balfour e con gli eventi che da lí hanno condotto alla sostituzione di un popolo con un altro. Questo processo va avanti anche ai giorni nostri.
Per questo motivo Israele non è uno stato come tutti gli altri. Non è come la Francia, perché l’ingiustizia è continua. Le leggi dello Stato di Israele perpetuano l’ingiustizia.
Si tratta di in conflitto dialettico. Ma non vi è sintesi possibile. Non penso che in questo caso si possano superare le contraddizioni dialettiche. Né che ci sia modo di conciliare la spinta dei sionisti, pervasa di messianismo e di memoria dell’Olocausto, con la spinta palestinese a restare nel paese. Sono spinte fondamentalmente divergenti.
Questo è il motivo per cui penso che l’essenza del conflitto sia la sua stessa inconciliabilità.
A. S.: Sta dicendo che non saremmo dovuti venire?
E. S.: La sua domanda si muove troppo nel regno dei “se”. I fatti sono troppo forti. Dire che non sareste dovuti venire è dire che dovreste andarvene. Sono contrario a questo. L’ho affermato più volte. Sono del tutto contrario al vostro allontanamento.
Ciò che potrei spingermi a dire è che, una volta ammessa la logica dell’idea sionista, quando siete venuti avreste almeno dovuto comprendere che stavate arrivando in una terra abitata.
Potrei dire inoltre che ci furono coloro che ritenevano fosse sbagliato venire. Ahad Ha’am, per citarne uno. E se io fossi stato lí nel 1920 avrei 10 messo in guardia contro questa operazione. Vuoi perché c’erano gli arabi e vuoi perché io personalmente non ho un debole per i movimenti di immigrazione di massa né per le conquiste. Quindi non l’avrei di certo incoraggiata.
A. S.: È disposto a riconoscere che per noi era necessario venire? Che la maggior parte di quelli che arrivarono negli anni ’20 e ’30 sarebbero morti in Europa se non fossero venuti?
E. S.: Sono uno dei pochi arabi ad aver scritto sull’Olocausto. Sono stato a Buchenwald, a Dachau e in altri campi di sterminio, e il nesso lo vedo. Vedo la catena di eventi.
Sono disposto ad accettare quello che gran parte delle testimonianze indica, ovvero che si avvertisse un bisogno profondo di venire. Ma riesco io a sentirmi profondamente partecipe nei confronti di coloro che vennero? Solo un po’. Trovo difficile accettare il sionismo in quanto tale.
Penso che gli ebrei europei avrebbero potuto essere ospitati in altri paesi, come Stati Uniti, Canada e Inghilterra. Rimprovero tuttora gli inglesi di aver permesso agli ebrei di venire in Palestina piuttosto che ospitarli altrove.
A. S.: In quanto al dopo: avrebbe accettato il piano di spartizione del 1947?
E. S.: D’istinto direi di no. Si è trattato di un piano ingiusto fondato sul fatto che una minoranza acquisisca diritti uguali a quelli della maggioranza. Forse non avremmo dovuto permetterlo. Forse avremmo dovuto proporre un nostro piano. Ma posso comprendere che il piano di spartizione fosse inaccettabile per i palestinesi dell’epoca.
A. S.: E nel 1948, la responsabilità morale per la tragedia palestinese di quell’anno è tutta a carico degli israeliani? Gli arabi non ne condividono in parte la colpa?
E. S.: La guerra del 1948 è stata una guerra di espropriazione. Quello che è avvenuto quell’anno è stata la distruzione della società palestinese, la sostituzione di questa con un’altra, e l’allontanamento di coloro che erano ritenuti indesiderabili, quelli che erano d’impaccio.
Mi rimane difficile affermare che l’intera responsabilità penda tutto da un lato. Ma la parte del leone, per aver spopolato e distrutto città, è decisamente degli ebrei sionisti.Yitzhak Rabin ha cacciato i 50.000 abitanti di Ramla e Lydda, perciò mi riesce difficile vedere ora un qualsiasi altro responsabile. I palestinesi erano responsabili solo di trovarsi lí.
A. S.: Quando guarda a questa sequenza di eventi, al racconto dei fatti così come lei lo intende, qual è la sua reazione emotiva?
E. S.: Rabbia. Provo una rabbia tremenda. Penso sia stato cosí stupido, cosí del tutto ingiusto continuare a dirci in mille modi “non rispondiamo di voi, andatevene e basta, lasciateci da soli, noi facciamo quello che ci pare”. È questa la follia del sionismo. Erigere questi enormi muri di negazione che sono parte integrante del tessuto della vita di Israele fino ai nostri giorni.
Suppongo che in quanto israeliani Lei non abbia mai atteso in coda a un check-point o al passaggio di Erez. È tremendo. E piuttosto umiliante. Anche per una persona privilegiata come lo sono io. Non esiste scusa per questo. Il comportamento disumano verso l’altro è imperdonabile. Per questo la mia reazione è di rabbia. Molta rabbia.
A. S.: Ci odia?
E. S.: No. Strano, l’odio non è tra le emozioni che provo. La rabbia è molto più produttiva.
A. S.: Eppure nel suo racconto dei fatti della storia palestinese l’odio sembra essere quasi inevitabile.
E. S.: Lei cosa prova verso i tedeschi?
A. S.: È la stessa cosa?
E. S.: Non dico che sia la stessa cosa. Mi sto solo chiedendo cosa si provi a esser stati offesi in tale misura.
A. S.: Credo di provare odio per i nazisti tedeschi, ma l’odio da solo non può esaurire quel che sento.
E. S.: È un sentimento forte, soprattutto perché tuttora continuiamo a venir offesi. Non è finita. Non è come se Oslo vi avesse posto un termine. No, continua ancora. Vada a vedere Khiam. Vada a vedere Erez. È terrificante.
A. S.: Ritiene quindi che non si prospetti niente di buono? Crede che Israele anche ritirandosi nei confini precedenti al 1967 rappresenti comunque un male che va avanti?
E. S.: È un insieme di misure inique il cui effetto d’insieme è un’ingiustizia umiliante sentita nel profondo. E va avanti. Ogni giorno. In ogni modo possibile. Questo è quello che mi colpisce. Il fatto che sia intenzionalmente perpetuata.
Non sto parlando di tutti gli israeliani. Ci sono israeliani di ogni tipo. Ma l’insieme delle misure adottate dagli israeliani nei confronti dei palestinesi è profondamente ingiusto. E tutto questo è profondamente stupido.
Cosa possono nutrire i palestinesi nei loro cuori e nelle loro menti? Non solo un sentimento del tipo “voglio che finisca” ma anche del tipo “voglio che sia il mio turno”, oppure “un giorno la pagherete”.
A. S.: Le sembra che stia avvenendo questo? Crede che il piatto della bilancia stia pendendo verso i palestinesi?
E. S.: Non utilizzo mai termini come “bilancia del potere”. Credo però che anche la persona che i calci li sta dando debba domandarsi fino a quando potrà continuare a tirarli. A un certo punto la gamba si stancherà. Un giorno si sveglierà e si chiederà: “Cosa cavolo sto facendo?”
A mio parere, in Israele, non abbastanza persone si sono svegliate e lo capiscono. Nella mia lettura degli ultimi cento anni, da parte israeliano-sionista c’è stato un presupposto dal tipo: “Se combattiamo duro e li sconfiggiamo ben bene, e se erigiamo muri e rendiamo loro la vita impossibile in tutti i modi, rinunceranno”.
Questo non è avvenuto. Non ha funzionato. Oggi, tra i palestinesi, c’è un desiderio ancor più grande di non mollare. Sulla base della mia esperienza soggettiva, posso affermare che i palestinesi di qualsiasi generazione provano un fortissimo senso di ingiustizia. Sentono che la giustizia negata li obbliga a continuare a lottare.
Questo è il motivo per cui ritengono che soluzioni come quelle discusse in luglio a Camp David non sarebbero soddisfacenti, non porterebbero a una vera riconciliazione.
A. S.: Vuole dire che per i palestinesi, senza giustizia non ci può essere pace?
E. S.: Nessuno può ottenere giustizia assoluta, ma ci sono dei passi che devono essere compiuti, come quelli intrapresi alla fine dell’Apartheid. Israele e Sudafrica sono differenti, ma hanno delle affinità. Non sono del tutto incomparabili.
Una di queste affinità è che gran parte della popolazione sente che gli è negato l’accesso a risorse, diritti, proprietà della terra e libertà di movimento.
Quello che ho imparato dal caso del Sudafrica è che l’unico modo per affrontare una storia complessa di conflitto di stampo etnico, è di guardarlo, comprenderlo e poi andare avanti. Ho in mente qualcosa come la Commissione per la Verità e la Riconciliazione. E ritengo che dobbiamo essere noi palestinesi a farlo. Così come furono Desmond Tutu e i neri a farlo.
Certo, loro prima avevano vinto. Si erano sbarazzati dell’Apartheid.
A. S.: Fino a che punto Israele post occupazione assomiglierebbe ancora al vecchio Sudafrica?
E. S.: C’è indubbiamente un’ideologia della differenza. Il senso di un sistema creato dagli israeliani in cui una popolazione possiede più degli altri. Si tratta proprio di apartheid come è stato in Sudafrica? Probabilmente no.
Tuttavia ci sono delle affinità. Gli afrikaner avevano un’ideologia proto-sionista. Si consideravano prescelti da Dio. Ma quello che conta di più, a mio parere, è la questione della responsabilità.
Credo che nella consapevolezza e nella coscienza di ogni israeliano dovrebbe esser chiaro il fatto che il suo Stato ha cancellato l’esistenza araba precedente al 1948. Che Jaffa un tempo era una città araba da cui furono cacciati gli arabi.
E ritengo, quindi, che gli israeliani debbano essere consapevoli del fatto che la loro presenza in molti luoghi del paese porta con sé la dispersione di una famiglia palestinese, la demolizione di una casa, la distruzione di un villaggio. Secondo me è un vostro dovere andare a rintracciare tutto questo. E agire di conseguenza, in senso kantiano.
Molti israeliani si rifiutano di farlo perché credono che la conseguenza sia doversene andare. Niente affatto. Come le ho detto, io sono contrario. L’ultima cosa che vorrei è perpetuare questo processo per il quale uno stravolgimento ne genera un altro. Mi fa orrore. L’ho visto accadere troppe volte. Non voglio più vedere gente costretta ad andarsene.
A. S.: Sta dicendo che gli israeliani dovrebbero sapere di avere, come i sudafricani bianchi, il diritto a rimanere purché rinuncino alla loro ideologia.
E. S.: Sí, a una ideologia che nega i diritti degli altri.
A. S.: Per cui è necessario un processo di de-sionizzazione?
E. S.: Non mi piace utilizzare parole del genere. Perché starebbe chiaramente a indicare che io chiedo ai sionisti di compiere harakiri. Possono essere sionisti e possono affermare la loro identità ebraica e il loro legame con la terra a condizione che questo non comporti una cosí manifesta estromissione degli altri.
A. S.: Seguendo questa logica, sarebbe necessario allora sostituire l’attuale Israele con una Nuova Israele, cosí come il Nuovo Sudafrica ha preso il posto di quello vecchio. I meccanismi statali iniqui andrebbero abbattuti.
E. S.: Sí, giusto. Diciamo riformati. Mi trovo a disagio a parlare di abbattimento. È un linguaggio apocalittico. Mentre vorrei usare vocaboli che siano il meno possibile derivati dal contesto dell’apocalisse e della rinascita miracolosa. Per questo non dico de-sionizzazione. Equivale a sventolare una bandiera rossa di fronte a un toro arrabbiato. Non vedo a cosa possa servire. Preferisco quindi parlare di trasformazione. Della graduale trasformazione di Israele. Cosí come della graduale apertura di tutti i paesi del Medio Oriente.
A. S.: Due anni fa Lei ha scritto un articolo sul New York Times in cui approvava la soluzione di un unico stato. Sembra aver chiuso il cerchio – dal privilegiare negli anni ’70 la soluzione di un unico stato laico-democratico ad accettare negli anni ’80 la soluzione dei due stati per tornare infine all’idea di partenza di uno stato laico-democratico.
E. S.: Non lo chiamerei necessariamente laico-democratico. Lo chiamerei piuttosto uno stato bi-nazionale. Voglio mantenere per palestinesi e israeliani un meccanismo o una struttura che permetta loro di esprimere la propria identità nazionale. Mi rendo conto che nel caso di uno Stato Palestina-Israele una soluzione bi-nazionale dovrebbe tener conto delle differenze tra le due comunità. Non penso tuttavia che la spartizione o la separazione funzionerebbe. La soluzione dei due Stati non è più percorribile. E date le realtà geografiche, demografiche, storiche e politiche, ritengo ci sia veramente molto da guadagnare da uno stato bi-nazionale.
A. S.: Crede che l’idea di uno Stato ebraico abbia un vizio di fondo?
E. S.: Non reputo l’idea di uno Stato ebraico troppo entusiasmante. Gli ebrei che conosco – quelli più interessanti che conosco – non si definiscono a partire dalla loro ebraicità. Penso sia problematico confinare gli ebrei nella loro identità ebraica. Consideri solo il problema di “chi è ebreo”. Una volta passata l’iniziale esaltazione per l’idea di uno Stato ebraico e per i sussidi della aliyah2, la gente scoprirà che essere ebrei non è un progetto di lunga durata. Non è sufficiente.
A. S.: Questa però è una questione ebraica interna. Per voi la domanda è se gli ebrei siano un popolo che ha diritto a un proprio stato?
E. S.: Se ci sono abbastanza persone che si considerano un popolo e sentono il bisogno di costituirsi in quanto tale, questo lo rispetto. Se non comporta però la distruzione di un altro popolo. Non posso accettare l’atteggiamento del “dovete morire affinché noi rinasciamo”.
A. S.: Intende dire agli israeliani che dovrebbero rinunciare all’idea di una sovranità ebraica?
E. S.: Non chiedo a nessuno di rinunciare ad alcunché. Tuttavia la sovranità ebraica fine a se stessa non mi sembra valga tutto il dolore, la devastazione e la sofferenza che ha prodotto. Se d’altro canto si può pensare alla sovranità israeliana come a un passaggio verso un’idea più generosa di coesistenza, di essere al mondo, allora sí, vale la pena rinunciarvi.
Non nel senso di essere costretti a rinunciarvi. E nemmeno nel senso di “vi conquisteremo”, come molti arabi intendono dire quando chiamano Arafat “Salah-e-Din” – che significa “lui vi caccerà”. No, non in quel senso. Non voglio quella dinamica. E neppure voi volete quella dinamica.
La scelta migliore sarebbe quella di dire che la sovranità debba gradualmente cedere il passo a qualcosa che sia più aperto e meglio vivibile.
A. S.: In uno stato bi-nazionale gli ebrei diverrebbero presto una minoranza come i libanesi cristiani.
E. S.: Sí, ma siete comunque destinati a diventare una minoranza. Tra dieci anni circa si arriverà a una parità demografica tra ebrei e palestinesi e cosí andrà avanti. Gli ebrei sono una minoranza ovunque. Lo sono in America. Possono di certo esserlo in Israele.
A. S.: Tenendo conto del territorio e della storia del conflitto, Lei crede che una tale minoranza ebraica verrebbe trattata in modo equo?
E. S.: La questione mi preoccupa. La storia delle minoranze in Medio oriente non è stata cosí terribile come quella in Europa, ma mi domando cosa succederebbe. Mi preoccupa molto. La questione di quale sarebbe la sorte degli ebrei mi mette molto in difficoltà. Non so davvero. Sono preoccupato.
A. S.: Lei personallmente ha diritto a tornare, diritto a tornare a Talbieh, a Gerusalemme?
E. S.: Per me Talbieh significa una casa. È la casa di famiglia, situata in 16 Brenner Street, là dove oggi c’è un piccolo parco. Quando ci andai la prima volta nel 1992 portai con me un rogito della casa che mi aveva dato mio cugino. Voleva che vedessi cosa si riusciva a fare.
Quattro anni dopo è venuto lui stesso, si è iscritto a un’organizzazione per poter rientrare in possesso della casa. Voleva riavere la casa. Questo è un fatto specifico.
Se me lo chiede in senso astratto, direi che ho diritto a tornare tanto quanto il mio collega ebreo che gode di questo diritto per la legge israeliana del ritorno.
Se invece me lo chiede nello specifico, prenderei le parti di mio cugino, il nome del cui padre compare nell’atto di rogito, ed esigerei una qualche forma i riconoscimento del fatto che la casa gli è stata sottratta. Che quella casa è sua.
A. S.: Conta davvero di tornare in quella casa? Tornerebbe a Talbieh?
E. S.: Non so. Avverto l’avanzare della fine della vita. Sarebbe difficile per me staccarmi dalla mia vita a New York. Ma in quanto a desiderare di tornare in quei luoghi della mia giovinezza, e non da turista… direi di sí. Per quel che riguarda mio figlio, lui vuole poter tornare lí. In quella casa. Gli piacerebbe. Certo, perché no?
A. S.: La richiesta di ritorno quindi non è astratta. Non è solo una metafora. La intende proprio cosí?
E. S.: Sí. È un problema reale, e un attaccamento reale a persone reali. Questo è quello che da sempre è stato. Tanti israeliani dicono, be’ se cosí fosse si tratterebbe della distruzione dello Stato di israele.
Io però non la penso affatto cosí. Il problema dei rifugiati è il più complicato da risolvere perché implica le questioni morali dell’espulsione. Ritengo però che Israele debba riconoscere il dramma dei rifugiati. Penso che i rifugiati debbano avere il diritto al ritorno. Non sono certo di quanti vogliano tornare, ma penso che comunque debbano avere il diritto di farlo.
Sulla questione del ritorno sono stati fatti studi che si occupano della fattibilità e di quella che posso chiamare solamente accettabilità. Come portarlo a termine con il minor danno. Senza letteralmente cacciare via le persone dalla terra che hanno coltivato.
Secondo questi studi, è possibile sistemare abbastanza facilmente nell’attuale Israele un milione di persone con un minimo sconvolgimento. Questo credo potrebbe essere un inizio. Un buon argomento da cui cominciare a discutere. Ovviamente deve essere un ritorno regolato. Non che chiunque salga su una nave e faccia ritorno.
A. S.: Torniamo a Talbieh. In che modo questo potrebbe funzionare nel quartiere dove Lei ha vissuto cinquantadue anni fa e dove io abito adesso?
E. S.: I miei parenti, i cui nomi compaiono nell’atto di rogito, ritengono che la casa sia loro e dovrebbero quindi avervi diritto. Nel caso specifico di quella casa non c’è alcun problema poiché non appartiene a nessuna famiglia israeliana. È di proprietà di un’organizzazione cristiana fondamentalista. Del Sudafrica, tra l’altro.
La mia famiglia quindi dovrebbe poter riavere la casa. Se qualcuno di loro vi tornerà ad abitare? Credo proprio di sí. Comunque, in questo caso particolare, la scelta dovrebbe essere loro concessa. Per quanto riguarda altre case, in cui abitano persone, e ci abitano da tanti anni, il mio istinto non è certo quello di cacciarle via.
Penso si debba trovare una soluzione umana e moderata che tenga conto delle rivendicazioni del presente e di quelle del passato. Non possiedo soluzioni a portata di mano ma, come le ho detto, sono contrario all’idea di persone costrette ad abbandonare la propria casa, ad andarsene.
Nemmeno in nome di un tribunale internazionale o di un popolo che afferma che quello è un suo diritto. È suo diritto. Ma come metterlo praticamente in atto, in quale particolare modo… non lo so.
A. S.: Non la preoccupa il fatto che tra i palestinesi vi sia chi la pensa in modo diverso? Che una volta ammesso il diritto al ritorno, vi sarebbe una corsa all’esproprio?
E. S.: Credo di sí, ma io mi opporrei. Sono totalmente contrario all’esproprio. Il mio modo di pensare, nel suo insieme, è tale da impedire questa eventualità. Non sono sicuro di esserci ancora quando questo avverrà ma, se ci sarò, lo combatterò con estrema fermezza.
Questo mi fa pensare alla situazione nello Zimbabwe. Non ho dubbi sul fatto che lí la gente – i bianchi che coltivano la terra – abbia un attaccamento molto sincero alla terra, alla proprietà, alle coltivazioni frutto del loro lavoro. Credo che debbano rimanere. Solo però se ammettono che altri sono stati espropriati e derubati dei loro diritti.
Lo stesso vale qui. Ma si tratta di una questione etica molto spinosa. Che va molto al di là della capacità del singolo di trovarle una risposta.
A. S.: Quello che Lei prospetta quindi è una situazione del tutto nuova in cui la minoranza ebraica vivrebbe pacificamente in un contesto arabo?
E. S.: Sí, lo ritengo fattibile. Una minoranza ebraica può sopravvivere cosí come altre minoranze sono sopravvissute nel mondo arabo. Detesto dirlo, 18 ma paradossalmente funzionava piuttosto bene durante l’impero Ottomano con il sistema dei millet. Ciò che avevano allora, appare molto più umano di quanto abbiamo noi oggigiorno.
A. S.: Perciò, in questa prospettiva, gli ebrei alla fine godrebbero di un’autonomia culturale all’interno di una struttura pan-araba?
E. S.: Pan-araba o mediterranea. Perché non includere anche Cipro? Mi piacerebbe una sorta d’integrazione degli ebrei all’interno del tessuto di una società più ampia, che possieda una capacità di resistenza straordinaria nonostante la perdita dello stato-nazione. Credo possa essere realizzato. Ci sono tutte buone ragioni per puntare a un’unità più ampia.
L’organizzazione sociale che questa richiederebbe è una cosa su cui non ho ancora ben riflettuto, ma sarebbe comunque più facile da attuare rispetto alla separazione che Barak e i suoi consiglieri vanno sognando. Il carattere fondamentale della cultura araba era la sua universalità. La mia definizione di pan-arabismo includerebbe le altre comunità all’interno di una cornice arabo-islamica. Compresi gli ebrei.
A. S.: Quindi fra un paio di generazioni avremo una comunità minoritaria arabo-ebraica all’interno di un mondo arabo?
E. S.: Sí, direi di sí.
A. S.: Molti ebrei lo troverebbero spaventoso.
E. S.: In quanto ebreo Lei ha certamente buone ragioni per essere spaventato. Però a lungo andare bisogna muoversi verso una diminuzione dell’ansia piuttosto che verso il suo accrescimento. Forse mi sbaglio, ma per come la vedo io, l’esistenza attuale di Israele si fonda su una forte tendenza ad arginare quel che la circonda, in modo da scongiurare l’eventualità di essere sopraffatta. È un modo di vivere poco attraente, credo.
La scelta nazionalista ha creato una società dominata dall’ansia. Ha prodotto paranoia, militarizzazione e una mentalità rigida. Tutto questo a che pro? L’altro modo, l’alternativa di cui parlo, concederebbe a voi ebrei una vita più libera e più mobile. Offrirebbe un fondamento molto più sano al progetto degli ebrei di venire in Palestina, in Israele.
A. S.: Lei è un rifugiato?
E. S.: No, il termine rifugiato ha per me un significato molto specifico. Vuole dire cattiva salute, miseria sociale, privazione e dislocazione. Questo non è il mio caso. In questo senso non sono un rifugiato. Però sento di non avere un luogo. Sono tagliato fuori dalle mie origini. Vivo in esilio. Sono un esule.
A. S.: Il titolo della sua autobiografia uscita di recente è Sempre nel posto sbagliato. Cosa vuol dire?
E. S.: Non poter tornare. È davvero una sensazione forte che mi porto dietro. Potrei descrivere la mia vita come una serie di partenze e ritorni. Ma la partenza è sempre piena di angoscia. Il ritorno sempre incerto. Precario. Cosí anche quando parto per un breve viaggio, riempio sempre in eccesso la valigia nel caso in cui non riesca più a tornare.
Hai sempre la sensazione di non appartenere. E di fatto non appartieni. Perché non sei veramente di qui e qualcun altro dice che il luogo da cui provieni non è tuo, ma suo. Cosí persino l’idea del posto da dove vieni è sempre messa alla prova.
A. S.: Perciò ha dovuto inventare se stesso?
E. S.: Secondo un significato molto particolare del termine. In latino inventio vuol dire ritrovamento. Veniva utilizzato nella retorica classica per indicare un processo attraverso il quale si scoprono esperienze passate e si riorganizzano in modo tale da dotarle di eloquenza e di novità. Non è un creare dal nulla, è riordinare. In questo senso ho inventato me stesso.
Prima, sotto l’influenza di Vico, ho capito che i popoli fanno la loro storia. Che la storia non è come la natura. È un prodotto umano. Ho capito inoltre che noi possiamo creare le nostre stesse origini. Non sono date, sono atti di volontà.
Ma negli ultimi anni, mentre affrontavo la malattia terminale – con un’enorme dose di incertezza – ho scoperto di non aver paura della morte. E neppure della sofferenza legata alle fasi terminali della malattia. Avevo però paura di non essere in grado di ritrovare, di riformulare, di reinterpretare quegli aspetti della mia vita che pensavo avessero un valore.
È stato allora, nel guardare indietro, che mi sono reso conto che il mondo dove ero cresciuto, il mondo dei miei genitori, quello del Cairo e di Talbieh prima del ’48, era un mondo inventato. Non era un mondo reale. Non possedeva quella concretezza oggettiva che desideravo avesse. Per molti anni, ho pianto la perdita di quel mondo.
Ho pianto sinceramente. Ora invece ho scoperto la possibilità di reinterpretarlo. E ho capito che questa possibilità esiste davvero non solo per me ma per quasi tutti: attraversiamo la vita disfacendoci del passato – il dimenticato, il perduto.
Ho compreso che il mio compito era quello di raccontare e riraccontare una storia di perdita in cui la nozione di rimpatrio, di un ritorno a casa, è praticamente impossibile.
A. S.: Dunque per Lei personalmente non esiste ritorno?
E. S.: Mentre scrivevo la mia autobiografia, il mio caro amico Abu Lughod, che è un rifugiato di Jaffa, è tornato in Palestina e si è sistemato a Ramallah. Anche per me questa poteva essere una possibilità. Avrei potuto prendere un incarico a Bir Zeit.
Ho capito però che è qualcosa che non posso fare. Il mio destino è di restare a New York. Restare su queste sabbie mobili dove i rapporti non sono ereditati bensí creati. Dove non esiste la solidità di una casa.
A. S.: Ha maturato una sorta di dipendenza dall’essere senza fissa dimora?
E. S.: Non saprei dire. Però non possiedo immobili. L’appartamento dove vivo è in affitto. Mi considero un girovago. La mia condizione è quella del viaggiatore, non interessato al possesso del territorio e senza alcun regno da proteggere. Adorno sostiene che nel XX secolo l’idea di casa sia passata di moda. Credo che parte della mia critica al sionismo sia rivolta proprio a quel suo attribuire troppa importanza alla casa.
Quell’affermare “noi abbiamo bisogno di una casa” e “faremo qualsiasi cosa per ottenerla anche se questo significa toglierla ad altri”. Perché crede che io sia cosí interessato allo stato bi-nazionale? Perché desidero un qualche tessuto sociale talmente ricco che nessuno possa interamente comprendere e nessuno possa del tutto possedere.
Non ho mai capito l’idea del “questo è il posto mio e tu restane fuori”. Non amo tornare all’origine, alla purezza. Penso che i maggiori disastri politici e intellettuali siano stati provocati da movimenti riduttivi che tentavano di semplificare e purificare. Che dicevano: “Dobbiamo piantare tende o kibbutz o eserciti e cominciare da zero”.
Non credo in tutto questo. Non lo desidererei per me stesso. Anche se fossi ebreo, mi ci opporrei. E non durerà. Mi creda, Ari. Mi prenda in parola. Sono più anziano di Lei. Non ne resterà memoria.
A. S.: Sembra molto ebraico quello che dice.
E. S.: Certamente. Io sono l’ultimo intellettuale ebreo. Non ne conosco altri. Tutti i vostri altri intellettuali ebrei oggigiorno sono dei gretti signorotti di provincia. Da Amos Oz a tutti questi qui in America. Dunque sono l’ultimo. L’unico vero continuatore di Adorno. Mettiamola cosí: sono un ebreopalestinese.
Note 1. Yesh Gvul è un gruppo di pacifisti israeliani che si batte contro l’occupazione, appoggiando i refusenik, ovvero i soldati disponibili a prestare servizio nell’Esercito, ma non nei Territori. [N.d.T]
2. Aliya dall’ebraico…., “ascendere” o “salire”, è l’immigrazione ebraica in Terra d’Israele (e nello Stato d’Israele dopo la sua fondazione nel 1948). [N.d.T] Testo tratto da “Edward W. Said, Il mio diritto al ritorno”, Nottetempo, collana i sassi, ottobre 2007 (www.edizioninottetempo.it). Titolo originario: My Right of Return. Traduzione di Maria Leonardi.
Fotografia di pag. 23: volantino in lingua araba lanciato dall’aviazione militare israeliana dopo il ritiro unilaterale dalla striscia di Gaza del settembre 2005. Ai palestinesi viene intimato di non accedere nella zona cuscinetto, segnalata in bianco nella mappa, perché area di bombardamenti dei caccia di Tel Aviv.
* Haaretz Magazine
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