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“Le ragioni per la rottura di allora, oggi ci sono tutte”

I quaranta anni dal Movimento del ‘77 e dalla giornata che ne segnò un passaggio storico – la cacciata di Lama dall’università di Roma occupata – sono stati il contesto in cui ieri a Roma, proprio alla Sapienza c’è stata la presentazione e il dibattito sul primo volume de “La storia anomala”, quello dedicato al decennio degli anni ‘70.

Il punto di vista, ovviamente, è quello di una esperienza politica dentro quel contesto storico, l’Organizzazione Proletaria Romana. Nessuna pretesa dunque di valore oggettivo. “Non vogliamo né possiamo mettere le braghe al mondo sul quel periodo pretendendo che il nostro punto di vista sia quello di tutti” ha affermato Sergio Cararo, uno dei curatori del libro.

Tanto più che a discuterne sono stati chiamati compagni con esperienze, elaborazioni e sintesi diverse da quelle degli autori: Marco Ferri e Vincenzo Miliucci (all’epoca esponenti di punta dell’Autonomia Operaia) e Giorgio Cremaschi (allora dirigente sindacale della Cgil e non “romano”).

Ovvio quindi che la lettura sulla cacciata di Lama vista da angolazioni diverse, presenti a quaranta anni di distanza sottolineature non distanti ma differenti. Per Cremaschi, la destra amendoliana del Pci cercò e ottenne lo scontro con il movimento degli studenti anche grazie alla cacciata di Lama e lo fece anche per nornalizzare all'interno il partito e il sindacato. Per Cremaschi è arrivato il momento di “ricostruire la storia comune di chi non si è arreso”.

Diversamente, sia gli autori del libro che Miliucci, rivendicano in quella rottura nel piazzale della Sapienza la ratifica tra due ipotesi contrapposte – quella rivoluzionaria e quella riformista – del cambiamento politico del sistema dominante (allora rappresentato dai governi della Dc, dall’alleanza subalterna agli Usa e da un padronato vorace ma non altezza dei competitori multinazionali).


Mauro Casadio, uno degli autori del libro, ci ha tenuto però a sottolineare che la Storia anomala non è un libro di memorialistica, quanto un tentativo di spiegare i caratteri di una esperienza di classe tra continuità e discontinuità – appunto dall’Opr alla Rete dei Comunisti – che trova nell’oggi le ragioni per la rottura di ieri. Insiste nel segnalare alcune caratteristiche dell’Opr come la scelta della “proletarizzazione dei militanti”, del metodo adottato partendo più dall’analisi della realtà che dalla visione soggettiva nei passaggi fatti, dell’internazionalismo come visione generale dei processi. Un agire da partito senza essere un partito perché consapevoli della limitatezza delle proprie forze.

Marco Ferri ha sottolineato come proprio la “filettatura” della logica di partito oggi vada rifatta, perché la divaricazione tra lotte sociali ed espressione politica riproduce un meccanismo di delega che va fatto saltare. Vincenzo Miliucci non si è sottratto al confronto di merito anche sulle visioni offerte dal libro. Ha rilevato criticamente il tentativo di leggere l’intera esperienza dall’Opr alla Rete dei Comunisti come continuità. Ha respinto le critiche di “movimentismo” verso l’Autonomia Operaia richiamate in più passaggi, ma tirando le conclusioni del suo intervento ne ha riproposto esattamente le motivazioni, quelle che hanno portato negli anni alle “divergenze” (talvolta asprissime) tra l’elaborazione dell’Opr e quelle dei Volsci sul tema dell’organizzazione.

Emidia Papi, un’altra dei curatori del libro, ha ricostruito come l’esigenza di dare vita a organizzazioni sindacali di base alternative ai sindacati ufficiali, nascesse dall’esperienza dei comitati operai di fabbrica e dall’esclusione dagli organismi rappresentativi dei delegati sindacali più combattivi. Una realtà che la cacciata di Lama dall’università accentuò fortemente fino a rendere inevitabili la nascita di nuove organizzazioni sindacali, prima come organismi di base e poi come RdB.

Gli interventi dei compagni nel pubblico hanno poi portato ulteriori contributi. Serena (una esperienza nei Quaderni Rossi e Il Potere Operaio pisano, poi in Cgil e Pci) il giorno di Lama era nelle file del sindacato. In chiusura ha ribadito la tesi secondo cui il movimento è finito con l'omicidio Moro "eterodiretto".

Una tesi contestata radicalmente da Bruno Seghetti che ha rivendicato la genuinità e l'internità al movimento delle esperienze legate alla lotta armata, in particolare delle Br, una internità che non può essere messa in discussione, neanche in presenza di una sconfitta.

Claudio Ursella (dirigente del Prc di Roma e tra i pochi ad entrare nel merito della storia politica a cui il libro è dedicato) ha riconosciuto come la traiettoria che ha portato dall'Opr alla Rete dei Comunisti abbia di fatto contribuito a creare "un gruppo dirigente oggi riconoscibile nei risultati prodotti sul piano politico e sindacale" ma ha anche criticato quello che ritiene un certo settarismo.

L’elemento comune rintracciabile in tutti gli interventi è il giudizio sulla sconfitta operaia alla Fiat nel 1980 come il passaggio che ha segnato la fine della fase storica del conflitto di classe degli anni Settanta. Quella alla Fiat è stata la “madre di tutte le sconfitte”, incluso per le organizzazioni che scelsero la lotta armata (richiamate in alcuni interventi dal pubblico) e che proprio su quel tornante mancarono all’appuntamento perché decimate dai blitz preventivi a Torino e Milano dei carabinieri diretti dal gen. Dalla Chiesa (poi ucciso dalla mafia nel 1982).

La cesura storica della sconfitta alla Fiat, secondo Sergio Cararo, va compresa anche su due aspetti: fu un cambiamento epocale dell’organizzazione produttiva in fabbrica che spianò la strada ad un modello di destrutturazione micidiale ma fu anche l’inizio di un “politicidio” cioè di un annientamento politico delle visioni, delle idee, delle pratiche di lotta ed emancipazione sociale complessiva che ebbero negli anni Settanta il loro punto più alto. Insomma la nostra storia non possiamo accettare che a raccontarla alle nuove generazioni sia La Repubblica, né la vendetta di cdi “un nemico di classe che ci odia” (ricambiato) incarnata dal Corriere della Sera. Inoltre non può essere trascurato il fatto, ha sottolineato Mauro Casadio, che quegli anni erano ben dentro il boom economico del paese, un processo che modificò in profondità comportamenti sociali e assetti ideologici, soprattutto nel Pci, anticipandone quella che verrà poi definita la “mutazione genetica”.

Le conclusioni di un bella assemblea, piena di gente in carne ed ossa in larga parte anche attiva politicamente, sono in continuità con quanto scritto nella “Storia anomala” ricostruita nel libro: le ragioni per la rottura rivoluzionaria di allora oggi ci sono tutte, anzi sono rese ancora più attuali da una situazione sociale assai peggiore – e che quella rottura aveva ampiamente intuito e combattuto. In tal senso, gli autori del libro rigettano ogni senso di sconfitta pur nella consapevolezza di una realtà che ad una generazione politica non ha risparmiato nulla – dalla galera per i più riottosi all’eroina diffusa a piene mani nei quartieri popolari – ma che trova ancora e nuovamente nella realtà ottime motivazioni per non chinare la testa e tenere aperta l'opzione comunista e rivoluzionaria.

(foto di Patrizia Cortellessa)

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