Vi sono sette parti della notte: il vespro, il crepuscolo, il conticinio, l’intempesto, il gallicinio, il mattutino e il dilucolo.
Isidoro di Siviglia, Etimologie.
Nel 1918 e nel 1922 apparvero i due tomi del Tramonto dell’Occidente, opera principale non meno che monumentale (si tratta infatti di un testo di oltre 1500 pagine) del filosofo tedesco Oswald Spengler (1880-1936): uno studioso che, muovendo da posizioni conservatrici, sarà un critico severo della repubblica di Weimar (1918-1933) e giudicherà positivamente, almeno all’inizio, salvo poi prenderne le distanze, il nazionalsocialismo.
Tuttavia, poche opere hanno ottenuto un successo di pubblico paragonabile a quello che arrise a questo libro e poche opere hanno fissato in modo durevole i fondamenti di quella “critica della notte” cui, da allora fino ad oggi, deve il suo enorme successo di pubblico, perlomeno fra le persone colte, questa opera geniale.
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Dalla storia alla natura: ‘Kultur’ e ‘Zivilisation’
Nel Tramonto dell’Occidente Spengler si propone di scoprire la forma che ogni civiltà incarna nel suo svolgersi, laddove proprio il termine di civiltà è quello con cui in italiano conviene tradurre il pregnante vocabolo tedesco ‘Kultur’. Ed è in tal senso che l’autore parla di una morfologia della storia universale.
Alla logica delle scienze naturali, che egli definisce meccanica, Spengler contrappone allora una logica organica che coglie il complesso delle manifestazioni di una ‘Kultur’ come un organismo biologico. Il mondo “come natura”, che risponde alla logica meccanica delle scienze naturali, è per tali scienze un insieme di fenomeni sparsi nello spazio e legati fra loro da nessi causali: è ciò che Spengler chiama sistematica.
Il “mondo della storia”, invece, si manifesta nella ‘Kultur’ attraverso fenomeni unici e irripetibili, capaci di indicare una certa direzione nel tempo, cioè un destino: è ciò che il filosofo tedesco chiama fisiognomica.
Questi due diversi atteggiamenti di fronte al mondo non stanno sullo stesso piano: il mondo appare infatti come natura, ossia come oggetto di spiegazione scientifica, solo in quella maturità di una ‘Kultur’ che Spengler definisce ‘Zivilisation’, mentre originariamente il mondo appariva come storia.
Orbene, è in questa fase terminale della ‘Zivilisation’ – vocabolo che in italiano si può tradurre con il termine di civilizzazione – che il filosofo tedesco ravvisa l’inizio della degenerazione senile di una civiltà.
Con una mossa filosofica che lo apparenta al pensatore neoidealista Giovanni Gentile e che è ispirata probabilmente dalla concezione vitalistica del pensatore francese Henri Bergson, Spengler giunge ad affermare che la logica meccanica cui mira la scienza con le sue osservazioni nasce in ultima analisi dalla logica organica, poiché ogni divenuto ha sempre come presupposto un divenire.
Si tratta di una visione in cui si intrecciano, oltre agli influssi testé indicati, la concezione di una “natura vivente”, propria del poeta e filosofo Johann Wolfgang Goethe, e la concezione, propria di Friedrich Nietzsche, dell’assenza di una razionalità nello sviluppo della storia.
Ogni civiltà passa dunque attraverso un ciclo vitale e la vecchiaia di una civiltà è il momento in cui si trasforma in civilizzazione. «La civilizzazione è il destino inevitabile di una civiltà… Le civilizzazioni sono gli stadi più esteriori e più artificiosi di cui è capace una specie umana superiore. Esse sono una conclusione: il divenire degrada nel divenuto, la vita cede alla morte, lo sviluppo alla rigidità». 1
La civilizzazione, in altri termini, è lo sfruttamento di un’eredità storica morta. «Nel mondo classico il passaggio dalla civiltà alla civilizzazione si compie nel quarto secolo, nel mondo occidentale nel diciannovesimo secolo». 2
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Rifiuto della causalità e del progresso, civiltà autoreferenziali, analogia come canone della ricerca storica.
Spengler rifiuta la causalità e le leggi, considerandole solo come fenomeni storici di determinate epoche e privandole di ogni validità generale (per lui esistono una geometria e una matematica egizia, una geometria e una matematica greca, una geometria e una matematica occidentale, e così via).
Al posto di questi nessi egli mette l’analogia, della quale fa il canone di una ricerca che, come si è visto, mira a creare, partendo dalla storia, una scienza universale. Non bisogna peraltro dimenticare che alla problematica, in virtù della quale Spengler storicizza radicalmente la conoscenza della natura facendone una semplice funzione delle caratteristiche di ciascun “ciclo di civiltà”, è sottesa una questione importante, e cioè come e fino a che punto l’evoluzione storica della società influisca sulla estensione e sul modo della nostra conoscenza della natura.
Fra le molteplici illustrazioni di tale problematica si può citare almeno questo passo della fondamentale Introduzione: 3 «Non conosco ancora nessuno che si sia misurato in modo serio con lo studio dell’affinità morfologica che connette intimamente il linguaggio formale di ogni ambito di civiltà…
Chi sospetta del profondo legame formale tra il calcolo differenziale e il principio dinastico-statuale del tempo di Luigi XIV, tra l’antica forma statuale della polis e la geometria euclidea, tra la prospettiva spaziale della pittura a olio occidentale e il superamento dello spazio mediante le ferrovie, i telefoni e le armi da fuoco a lunga gittata, tra la musica strumentale contrappuntistica e il sistema economico dei crediti?
Persino i fatti più sobri della politica assumono in questa prospettiva un carattere simbolico, addirittura metafisico, e qui, forse, succede che cose come il sistema amministrativo egizio, la numismatica antica, la geometria analitica, l’assegno, il canale di Suez, l’arte cinese della stampa, l’esercito prussiano e la tecnica stradale romana vengano simmetricamente concepite alla stregua di simboli e come tali interpretate». 4
Ma l’originalità di Spengler non consiste nella visione ciclica della storia, che deriva dall’antichissima dottrina greca dei cicli storici e che, con ben altra genialità e profondità, Giambattista Vico aveva ripresa e ripensata nel secolo XVIII.
In effetti, all’idea evolutiva di un progresso che, partendo dall’antichità, giunge sino alla nostra epoca, Spengler sostituisce una forma della storia che riproduce la ciclicità dell’organismo biologico: nascita, fanciullezza, gioventù, maturità, vecchiaia, morte.
Questo, scandito dai millenni, è il ritmo che la vita impone ad ogni civiltà, laddove ogni civiltà è concepita come un organismo indipendente, completamente chiuso nel suo specifico orizzonte. Infatti, esaurito lo slancio creativo derivante da una “grande anima”, non vi è ‘Kultur’ che non si riduca a ‘Zivilisation’, ossia ad un organismo irrigidito, espressione dello stato che precede il tramonto della ‘Kultur’ e il ritorno alla condizione primitiva.
Per lo studioso tedesco i grandi personaggi della storia sono, per l’appunto, le civiltà (ne distingue otto principali: egiziana, babilonese, indiana, cinese, messicana, araba, antica, occidentale). Del resto, le civiltà non si sviluppano le une dalle altre, ma si sviluppano ciascuna riferendosi a uno stato originario, a una razza e a un determinato ambiente geografico: fattori che determinano l’eredità, per l’appunto biologica, che ogni civiltà deve realizzare.
Donde consegue che il pluralismo culturale proposto da Spengler esclude ogni possibilità di comunicazione tra le civiltà: ogni ‘Kultur’ ha un suo proprio mondo simbolico che non può essere trasferito in un’altra ‘Kultur’.
L’analisi contenuta nel Tramonto dell’Occidente è quindi generalizzante da una parte, in quanto scopre una morfologia della storia universale, e individualizzante dall’altra, in quanto riconduce ogni manifestazione storica all’organizzazione interna di una ‘Kultur’.
Non è allora difficile constatare che i concetti filosofici che reggono l’interpretazione e la visione della storia presenti nel Tramonto dell’occidente sono filiazioni, dirette o indirette, dello storicismo tedesco, quale si era svolto da Dilthey a Simmel.
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Un testo complesso, originale e ricco di provocazioni
Ciò nondimeno, Il tramonto dell’Occidente è, contrariamente a quanto spingerebbe a pensare lo schematismo del binomio ‘Kultur’/’Zivilisation’ su cui esso si incardina, un testo complesso.
Come fa notare Giuseppe Raciti, al quale si deve l’ultima, e più rigorosa, traduzione del Tramonto pubblicata presso l’editore torinese Nino Aragno nel 2017, un motivo concettuale importante dell’opera spengleriana è quello che emerge dal modo in cui viene interpretato il rapporto tra la nostra civiltà, qualificata come faustiana con un chiaro riferimento al poema di Goethe, e la civiltà greco-romana, vista quale espressione della ‘Zivilisation’.
In questa veste la romanità non è solo una propaggine della ‘Kultur’ greca, ma anche lo specchio della nostra modernità, che è quanto dire lo specchio della nostra inconsistenza culturale e politica. Spengler ridimensiona perfino il mito della forza invincibile dell’esercito romano e, in netto anticipo sulle tesi del Todd di Dopo l’impero, 5 sembra alludere, in realtà, all’ambigua consistenza del moderno esercito nordamericano.
Un altro motivo che caratterizza il Tramonto è quello del socialismo, che viene interpretato come una singolare religione politica da cui dipendono le sorti del mondo occidentale, una forza che, lungi dall’essere una manifestazione della ‘Zivilisation’ e quindi della decadenza di tale mondo, può fare di quest’ultimo una ‘Kultur’.
Meritano, inoltre, di essere segnalate per la loro originalità le riflessioni sulla statistica e sull’entropia, che chiudono il primo volume del Tramonto, nel mentre la nozione di pseudomorfosi, che Spengler mutua dalla geologia, diventa nelle sue mani un dispositivo straordinario per spiegare il mancato sviluppo di alcune civiltà.
L’idea, infine, che il cristianesimo sia una propaggine dell’islàm e non viceversa, che la sua natura era e resti orientale, è un paradosso molto fecondo e può spiegare più cose di quante riesca a spiegarne la tradizionale rappresentazione storica. Il fascino dell’opera dipende anche da queste provocazioni.
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Dalla civilizzazione alla barbarie: l’analogia all’opera
Il libro di Spengler non contiene soltanto la profezia apocalittica di una “lunga notte” che incombe sulla decadente civiltà occidentale, ma di tale decadenza specifica, con la precisione di un entomologo, i caratteri, scandisce le fasi, fissa i tempi, i modi, le date.
Così, il lettore europeo degli anni Venti del secolo scorso, poteva trovarvi enunciata l’inquietante previsione, confermata ampiamente dalla realtà storica e da quella attuale, che il periodo dal 1900 al 2000 avrebbe corrisposto a quello degli Hyksos in Egitto, all’ellenismo, al regno dei diadochi e al periodo romano da Scipione a Mario, e sarebbe stato contrassegnato dal cesarismo, dal crescente naturalizzarsi delle forme politiche, dalla decadenza degli organismi nazionali che si ridurranno a masse amorfe internazionali, e dal riassorbimento di esse in un impero di tipo primitivo-dispotico.
E però la previsione assume il tono apocalittico della profezia, giacché Spengler preconizza che dopo il 2200 prevarranno in tutta l’Europa tendenze degenerative che egli, sempre ricorrendo alle analogie, definisce come egittismo, mandarinismo e bizantinismo; la macchina politico-burocratica diventerà sempre più rigida e si dissolverà; l’Europa sarà preda di popoli giovani o di conquistatori stranieri; e via via si riformeranno condizioni preistoriche, e – come scrisse Benedetto Croce in una famosa stroncatura del Tramonto, che il filosofo abruzzese pubblicò nel 1920 sulla propria rivista – si tornerà alla selva, “a una selva, per quel che sembra, con scarsi alberi”. 6
Applicato alla civiltà occidentale, lo schema interpretativo di Spengler mostra che lo slancio iniziale di questa civiltà si è esaurito. Così, alle grandi visioni del mondo, quali il cristianesimo, il liberalismo e lo scientismo, succede l’irreligione, l’economia non è più diretta dalla politica, mentre il denaro è diventato il criterio di riferimento per ogni attività.
Intanto la vita si concentra in poche metropoli, facendo del resto della terra una sconfinata provincia. La tecnica stessa, espressione tipica dell’uomo “faustiano”, cessa di essere il privilegio di uomini superiori, mentre la rivolta delle masse e dei “popoli di colore” riduce la tecnica a bruta strumentalità, privandola del suo carattere aristocratico.
Alla civiltà occidentale dovrà quindi succedere una civiltà russa (si tenga presente che Spengler elabora la sua concezione filosofica all’indomani della rivoluzione sovietica del 1917).
Ma prima della ricaduta nella barbarie deve ancora subentrare la fase autoritaria del cesarismo: e come non pensare, attualizzando, sia pure all’ingrosso, il discorso spengleriano, a personaggi o personalità quali Trump, Biden, Millei, Meloni, Orbán oppure, in tutt’altro quadro geopolitico, quali Putin, Lukashenko, Xi Jin-ping, Kim Jong-un?
Di fronte a tutto questo l’individuo, a giudizio di Spengler, può soltanto accettare il destino che la necessità storica gli impone, mentre alla nostra ricerca, resa più fruttuosa ma anche più ansiosa dal numero crescente di conferme dell’ipotesi di partenza, non resta che domandare quale sia oggi, fra quelle enumerate con didascalica esattezza dal dottore della Chiesa citato nell’epigrafe e commentate con rara finezza dal filosofo Giorgio Agamben, 7 la parte della “notte” in cui abitiamo.
1 O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente. Lineamenti di una morfologia della storia universale, Prima parte, Forma e realtà, Introduzione, Nino Aragno Editore, Torino 2017, p. 67.
2 Ivi, p. 68.
3 Ivi, pp. 17-108.
4 Ivi, pp. 25-26.
5 E. Todd, Dopo l’impero, Marco Tropea Editore, Milano 2005 (ed. or. Essai sur la décomposition du système américain, Gallimard, Paris 2002).
6 Cfr. «La Critica – Rivista di letteratura, storia e filosofia diretta da B. Croce», vol. XVIII (1920), Laterza, Bari, p. 238.
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