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Cambio di paradigma, ad alto rischio

Sollevare lo sguardo dal flusso impazzito delle news ora per ora; individuare una logica, o una tendenza, nel mare magnum senza coordinate stabili; capire dove stiamo andando per vedere se è possibile cambiare direzione prima che sia troppo tardi.

Lo sforzo informativo e analitico che facciamo ogni giorno è spesso superiore alle nostre forze, e dunque siamo abituati ad “aiutarci” con il meglio che troviamo in giro. E’ la ragione per cui pubblichiamo spunti e contributi che ci sembrano importanti, spiegando il legame che vi rintracciamo con quanto andiamo analizzando.

Questa intervista di Sputnik news – sì, sono russi, e allora? – a Guido Salerno Aletta, editorialista autorevole di testate come Milano Finanza e TeleBorsa, fornisce un altro tassello.

Diciamo subito le cose per noi rilevanti, che sottolineiamo in corsivo e grassetto anche nel testo dell’intervista.

In primo luogo il raffronto con l’altra grande crisi di “paradigma”, ossia la crisi petrolifera del 1973. Anche allora un evento geopolitico ed economico di grande dimensione – l’aumento shock del prezzo del greggio, anche fino al triplo – portò a politiche di “austerity” e divieti di ampia portata sulla vita quotidiana dei cittadini.

In quel caso, il “fatto economico” si accompagnava ad una guerra potenzialmente pericolosa (la “guerra del kippur”, tra Siria ed Egitto contro Israele) per gli equilibri mondiali congelati dal bipolarismo Usa-Urss.

Ma anche in questi tempi i venti di guerra sono parecchi, anche se non sono ancora arrivati a provocare esplosioni incontrollate. Un breve elenco dei punti di crisi può aiutare a comprendere: l’ingerenza turco-russo-statunitense in Siria (con obiettivi e alleati diversi), la crisi turco-greca per il gas le mar Mediterraneo, la guerra il Libia (che coinvolge ancora Turchia, Francia, Egitto, Unione Europea), l’assalto occidentale e “majdanista” alla Bielorussia (che per ora ha prodotto il risultato opposto, riavvicinando Kiev a Mosca), l’assedio permanente al Venezuela (oltre che a Cuba), guerra di dazi e sanzioni tra Usa e Cina (ed Unione Europea), la stessa crisi politico-sanitaria degli Stati Uniti, ecc.

In secondo luogo, l’evidente strumentalizzazione di una crisi sanitaria reale – il coronavirus, fin quando non sarà universalmente disponibile un vaccino valido – per modificare radicalmente il modello di sviluppo e gli stili di vita dell’Occidente.

Fuori da ogni “complottismo” idiota, è infatti abbastanza evidente come nell’Occidente neoliberista – nell’incapacità di reagire in modo efficace alla pandemia, limitandone gli effetti – si stia imponendo una drastica riduzione dei consumi “non essenziali” (al pari delle relative “attività produttive”). Il che completa l’analoga e già avvenuta riduzione complessiva dei salari occidentali, da oltre un decennio fermi in termini reali, e accompagna la dichiarata volontà delle imprese di comprimerli ulteriormente, anche al di sotto del “minimo vitale”.

L’esempio più chiaro è certamente l’automobile, ossia la merce-pivot che ha guidato lo sviluppo capitalistico lungo tutto il ‘900, fino a rappresentare il simbolo del benessere generale e della libertà individuale (apparente, certo, ma con diverse ricadute “piacevoli”).

Riduzione dei salari, e quindi dei consumi, e “rivoluzione green” dell’auto (elettrica o ad idrogeno, a guida automatizzata o assistita) non possono stare insieme.

I volumi di produzione delle quattroruote a idrocarburi non sono trasferibili in tempi brevi (un decennio, diciamo) alle “ecologiche” (trascurando il fatto che comunque debbono essere prodotte e smaltite a fine vita, che le batteria elettriche richiedono minerali come il litio e golpe come in Bolivia, ecc).

Specie in un contesto di precarizzazione generale del lavoro dipendente che taglia fuori fette crescenti di popolazione dall’altro “successo novecentesco”: le vendite a rate. Provate a chiedere a qualche giovane (o anziano) precario come reagiscono le banche o le varie finanziarie del credito al consumo quando provano a comprare qualcosa…

La sintesi è in qualche modo una pietra tombale sui tre secoli di capitalismo che conosciamo: il capitalismo non crede più nella crescita continua.

Non è un dettaglio, perché tutto il gigantesco meccanismo dell’accumulazione del profitto si basa da sempre su questo presupposto. Problematico e fisicamente impossibile (viviamo in un mondo limitato, la crescita non può essere infinita), ma è il cuore del capitalismo reale.

Ridisegnare tutto non è impresa “ordinaria”, nessuno può credere al “ritorno alla normalità”.

Il ridisegno del “paradigma” ha ovviamente punti forti, sia sul piano istituzionale che finanziario. Ma qui i nostri lettori si muoveranno su un terreno già noto.

Ad esempio l’Unione Europea che si pone come intermediario tra i capitali finanziari e i singoli Stati: il finanziamento del debito pubblico deve così sottostare a due tipi di “vincolo esterno”: uno quantitativo – il rapporto debito-Pil, da ridurre – ed uno qualitativo che va ad imporre “riforme” che modificano radicalmente gli assetti sociali di ogni singolo Paese. Per averne contezza, potete agevolmente guardarvi il film di Costa-Gavras, lì dove l’olandese Dijsselbloem o il tedesco Schaeuble elencano a Varoufakis le “richieste” della Troika

Dialetticamente, la lunghissima serie di forzature ed obblighi decisi all’interno delle varie istituzioni continentali sta costruendo un “sistema” che è “ottimale” dal punto di vista del profitto per il capitale multinazionale (sia finanziario che industriale), ma che pone anche alcune bombe nucleari “sociali” sotto quell’architettura di trattati.

Nulla di strano, in fondo, si vive di successo in successo, finché non si muore…

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Crisi post-Covid, cambio di paradigma e il pericolo “nuove ondate” frena la ripresa

Tatiana Santi – https://it.sputniknews.com/

La pandemia ha provocato una crisi economica mondiale senza precedenti e oggi assistiamo ad un cambio di paradigma: cambiano i modelli di crescita e anche gli stili di vita della società. Il tutto condiziona la ripresa economica frenata dalle minacce di nuove “ondate” di epidemia.

Non è ancora stato del tutto compreso il vero impatto della crisi economica e sociale di questi mesi, dovuta all’epidemia, sul futuro modello di crescita. La crisi sanitaria e le conseguenti politiche volte a limitare il diffondersi dei contagi hanno di fatto arrestato la produzione e i consumi, ma la ripresa economica è ostacolata dal pericolo di nuove ondate.

La crisi post-Covid come influirà sul modello di sviluppo e sugli stili di vita? Come cambieranno inoltre gli equilibri in Unione Europa in relazione al Recovery Fund? Sputnik Italia ha raggiunto per un’intervista l’economista Guido Salerno Aletta.

Professor Salerno Aletta, quali sono le particolarità della crisi economica post-Covid che sta vivendo l’Italia?

La questione è politica e non economica. Riguarda l’Italia come il resto dell’Occidente globalizzato, al cui interno si colloca a pieno titolo la Cina.

Siamo di fronte ad un cambio di paradigma analogo a quello che si determinò nel 1973 con la prima grande crisi petrolifera: anche allora cambiarono radicalmente ed in modo irreversibile i modelli di crescita dell’Occidente per via del peggior rapporto tra manufatti e materie prime energetiche.

Ed anche allora i governi presero decisioni senza precedenti intervenendo duramente sui comportamenti collettivi, con le domeniche a piedi, l’eliminazione dell’ultimo spettacolo dei cinema che era alle 23, e con l’anticipazione di tutte le altre attività: la vita sociale dopo cena venne letteralmente annientata.

Se allora era solo il rialzo del prezzo del petrolio a rendere tutto più caro e meno sostenibile dal punto di vista economico, adesso sono le limitazioni che vengono poste per evitare il contagio a rendere tutto estremamente precario ed incerto.

Se negli anni Settanta ed Ottanta abbiamo avuto la perenne spada di Damocle dei rincari energetici, ora c’è il timore di “nuove ondate” di epidemia. E’ questo che condiziona la ripresa, per questa minaccia reiterata in continuazione: una ben precisa strategia politica e mediatica.

Qual è la portata dei danni economici causati dalla crisi?

Il blocco delle attività economiche e sociali, durante il periodo di lockdown, ha inciso profondamente sulla produzione e sui consumi. Ma sono stati aspetti quantitativi, di calo del prodotto, che si sarebbero potuti anche riassorbire anche velocemente se non ci fosse una strategia più complessiva volta a strumentalizzare la crisi sanitaria per modificare profondamente il modello di sviluppo e gli stili di vita. Tutto deve essere “on line” ed a distanza, favorendo definitivamente i sistemi di elaborazione digitale, la memoria confinata nella nuvola ed il controllo da remoto.

Le misure precauzionali che sono state adottate anche in Italia per evitare il diffondersi dei contagi, anche quelli che non danno luogo a sintomi neppure lievi di malattia e che quindi determinano una auspicabile immunità di gregge acquisita per via naturale e non con vaccinazioni di massa, si inseriscono in una strategia globale auspicata da anni a Davos di incidere sulla sostenibilità ambientale dei processi di crescita e conseguentemente sulla necessità di modificare radicalmente i comportamenti sociali, i modelli di consumo e le aspettative di crescita.

Le limitazioni agli spettacoli dal vivo, alle attività ludiche di massa come il calcio, al turismo ed alla ristorazione, ma soprattutto il fortissimo incentivo allo smartworking, si inseriscono in una dinamica già ben presente in termini di sostenibilità ambientale. La vita si restringe, non solo in Italia, si asciuga: tutto diviene superfluo.

Chi verrà maggiormente colpito dalla crisi: i giovani, le famiglie?

Il sistema pensionistico rappresenta in Italia insieme alla solidarietà parentale il più grande strumento di stabilizzazione sociale. Finché non verrà smantellato, come è stato fatto in Grecia, la crisi sarà in qualche misura gestibile.

Il problema è rappresentato dalla volontà politica di modificare i comportamenti di massa giudicati insostenibili a livello globale: mentre un tempo le auto erano di anno in anno sempre più veloci e di dimensioni più generose, sono diventate successivamente sempre meno voraci nei consumi e meno inquinanti. Ora il salto è all’indietro: abbandonare l’automobile, che è stata il simbolo della industria del Novecento.

Anche il paradigma dell’auto elettrica ed a guida autonoma non sembra più agibile: per mettere obbligatoriamente fuori uso centinaia di milioni di auto a combustione interna perché inquinanti, servono risorse finanziarie che le famiglie non hanno più. Come accadde con le crisi energetiche, tutti saranno coinvolti da un cambiamento che si annuncia assai profondo: il capitalismo non crede più nella crescita continua.

Quali misure sono necessarie per combattere contro l’impoverimento del Paese?

La strategia di finanza pubblica, volta a perseguire il risanamento finanziario attraverso il saldo primario attivo del bilancio, ha dissanguato inutilmente il Paese: la crescita si è ridotta, mentre le tasse sono andate a finanziare la rendita finanziaria. I tassi di interesse pagati al mercato sia sul debito pubblico che sul finanziamento delle imprese sono stati una arma micidiale di impoverimento.

Anche il saldo strutturale della bilancia dei pagamenti correnti di cui l’Italia beneficia ormai da un quinquennio, per via di un solido export commerciale e di consistenti introiti sugli investimenti di portafoglio all’estero, non viene reinvestito nella economia reale. Il rilevante risparmio finanziario delle famiglie italiane, gestito dalle banche, dai fondi di investimento e dalle assicurazioni, viene indirizzato prevalentemente verso attività speculative.

Non è casuale che, nonostante la crisi globale dell’economia reale, le Borse azionare abbiano invece andamenti positivi: anche le Banche centrali hanno un occhio di particolare riguardo verso i listini.

Anche la strategia di azzerare i tassi sugli interessi, sui depositi e sui debiti bancari, distorce la allocazione delle risorse. Ci si indebita non tanto per investire nella economia reale quanto per speculare sulle attività finanziarie.

I fondi economici del Recovery Fund potranno far uscire il Paese dalla crisi? Come cambieranno gli equilibri in Unione Europea fra l’Italia e Bruxelles in futuro nell’era post-Covid?

L’Unione europea si interpone tra il bilancio dei singoli Stati ed il mercato dei capitali. La allocazione delle risorse così acquisite sarà soggetta alla coerenza con le priorità e con le valutazioni della Commissione.

Si tratta di un processo che attrae a Bruxelles quote ulteriori di capacità decisionale: il vincolo di bilancio non sarà più solo quantitativo, come è stato con il Trattato di Maastricht e con il Fiscal Compact, ma anche qualitativo.

Anche l’Unione Europea strumentalizza la crisi sanitaria per aumentare la sua presa sugli Stati: accadde lo stesso negli Usa, dopo la crisi del ‘29. Da allora il bilancio federale statunitense divenne assai più consistente: l’Unione europea cerca di fare lo stesso. Ma nasconde ancora una volta tutte le asimmetrie esistenti, fiscali, salariali, previdenziali e legali, su cui si fonda la competizione tra gli Stati. Ipertrofia e caos: una miscela ancora più pericolosa per la tenuta della Unione.

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1 Commento


  • Angelo

    Aggiungerei anche la proliferazione massiccia degli apparati di polizia e dei dispositivi bio politici che regolano e controllano ogni aspetto della ‘nuda vita’. Al riguardo utili i contributi di Foucault e Agamben.

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