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Ci sono periodi in cui la Storia cambia di segno. Qualcosa ce lo fa intuire, molto ci impedisce di cogliere il cambiamento. Facciamo le stesse cose, manteniamo identiche abitudini, il supermercato è ancora lì, il bar sotto casa è ancora aperto.

Ma nulla è già più come prima. Anche per molti compagni è dura capire che qualcosa si è irreparabilmente rotto e siamo entrati già in un’altra epoca. “Altra”, non “nuova”.

I segni caratteristici di questo “tornante della Storia” vanno – marxianamente – rintracciati sempre nei luoghi della produzione, nel vivo dei rapporti sociali, tra classi che non stanno nel cielo delle idee ma lì dove si lavora. E solo lì. Fuori siamo di nuovo tutti e soltanto “consumatori”.

Mettiamo dunque in evidenza il racconto fatto dagli ex delegati di Pomigliano durante la recente Assemblea nazionale Fiom a Roma. Una testimonianaza ripresa da Loris Campetti su il manifesto con queste parole.

Qui, su duemila «nuovi» assunti non ce n’è uno iscritto alla Fiom. Forse uno o due ce l’aveva quella tessera extraparlamentare, ma per essere assunto l’ha dovuta strappare. Allora, a Pomigliano senza Fiom succede che se un operaio selezionato (politicamente e sindacalmente) non ce la fa a reggere i ritmi infernali del nuovo modello produttivo Fiat, se ritarda di qualche secondo o se monta male un pezzo, non solo viene sanzionato ma a fine turno e senza poter andare in mensa a mangiare è costretto a presentarsi nell’«acquario», un open space dove al disgraziato viene consegnato un microfono e davanti a una folla di capi, capetti e sottocapi deve dire «song n’omm e mmerda». Meglio ancora se accusa il suo vicino alla catena di montaggio per quel ritardo o quell’errore.

Questo è ben altro e ben oltre il mobbing. Così come nella situazione di Melfi (vedi il video nella sezione multimedia), i “capi” Fiat hanno cambiato modus operandi, caratteristiche fondamentali, procedure.

La pratica dell’”acquario” prende molto dal trattamento carcerario degli istituti di “massima sicurezza”. L’individuo viene letteralmente spogliato di ogni certezza sulla propria condizione, “deve” sentirsi in balia di un potere sconfinato, inconfutabile, inattaccabile. I capi schierati, i vetri (chissà se “a specchio”, come nelle questure e quindi nei film), costruiscono la condizione del “processo”. Naturalmente senza avvocato difensore.

È il passaggio indispensabile per arrivare all’autoaccusa, o alla “chiamata di correo” verso qualche collega. Un “pentimento” per fare ammenda della propria “incapacità di corrispondere” alle attese dell’azienda.

Qui non c’è alcuna motivazione “economica”, se non un’idea preistorica della “produttività” come funzione specifica della condizione schiavistica. Se non hai alcun diritto di parola, e riesco a privarti anche del rispetto di te stesso, sarò sicuro che mi obbedirai al meglio delle tue possibilità rinunciando persino a proteggerti (l’incidente è sempre in agguato, sul lavoro) pur di reggere il ritmo che io padrone imporrò alla catena di montaggio o qualsiasi altra procedura produttiva.

Qui c’è una pratica dei rapporti sociali che divide l’umanità in tre: i padroni, i kapò e gli schiavi. Con buona pace dell’insopportabile retorica padronale di un Marchionne che ripete di continuo “i nostri collaboratori”.

C’è poi un secondo aspetto, relativo ai kapò. Quelle tecniche di umiliazione non sono improvvisate. A Melfi, come si può sentire nel video, c’è un linguaggio esplicitamente mafioso (“ti stacco la testa” è solo la sintesi più semplice del florilegio di espressioni malavitose messe in campo dal “capo”). A Pomigliano, un format da agenti carcerari, o comunque da “forze dell’ordine”. Non ci soprenderebbe apprendere che tra questi “capi” ci sono ex membri delle innumerevoli polizie, diventati “contractors” per Fiat.

Non è insensato, a pensarci bene. Pomigliano è zona che conosce sia il linguaggio camorristico che le pratiche delle forze dell’ordine. Un adeguato mix delle due “culture” – in realtà complementari e complici nel mantenimento dell’”ordine sociale”, nella perpetuazione della subordinazione popolare – dev’esser quindi sembrato “il meglio” per ripristinare il comando d’impresa. Magari dividendosi i compiti: minacce “poliziesche” in fabbrica, “camorristiche” fuori.

Fuori dall’impressionismo, però, resta la nuda scena dei rapporti tra lavoratore e azienda capitalistica.

Si deve notare che è scomparsa la mediazione. Ovvero il ruolo proprio dei “corpi intermedi”, in specifico del sindacato. Non sappiamo se tra quei “capi” ci siano le Rsa di Cisl, Uil, Fismic. È possibile, visto che ormai negli stabilimenti Fiat sono i “capi” a fare il lavoro dei delegati: dare notizie, convocare assemblee, distribuire i testi deli “accordi” o – più spesso – del “nuovo regolamento”.

Questo è un altro mondo, rispetto a quello del dopoguerra. Sono altri rapporti di classe. Non più “inclusivi e mediatori”, in cui alla socialdemocrazia e al sindacato veniva riconosciuto un ruolo, delle risorse, uno status di prestigio.

È un mondo che non ha più bisogno di una “sfera politica” autonoma, rappresentativa di valori e interessi differenti che vanno “democraticamente” mediati. La logica d’impresa è, tutto il resto non conta nulla. Se non per quanto può aiutare la logica d’impresa a imporsi senza resistenze. Esagerato? Scusate, ma che altro è il governo Monti e la sua schiera di “tecnici a contractor”, chiamati per fare una strage tra gli istituti che hanno strutturato il welfare del nostro paese? Qualcuno li ha eletti, scelti in base a programmi politici?

In un altro mondo bisogna cambiare modo di vivere, sopravvivere, resistere. Quindi, e in primo luogo, di ragionare. Fare sindacato e fare politica in questo mondo è un’altra cosa rispetto all’universo “keynesiano” postbellico cui tutti, in fondo, eravamo abituati.

Non è però un mondo “mai visto prima”. Per molti versi, anzi, è il mondo originario del capitalismo, prima della nascita di un movimento operaio. Dove non esistono diritti, certezze, benessere; ma solo fatica e sottomissione. Solo interessi diametralmente opposti e, per volontà dell’impresa, senza la mediazione. Sembra un romanzo di Valerio Evangelisti. È il presente marchionnesco e montiano.

La sfida è dunque: siamo pronti a fare movimento operaio secondo le “nuove regole”?

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1 Commento


  • tina conti

    Cari compagni,il 78 èra già il tempo della rivincita del mondo del’lavoro,e questo lo si deve alla fiducia nel sindacato,io avevo 44 anni ed ero delegata x la FILCAMS CGIL,eravamo riusciti a salvare i nostri diritti acquisiti,migliorando il nostro sistema lavorativo e retribuitivo,poi alcuni furbi,( fra noi lavoratori )hanno pensato di far da se ,arrivando agli accordi sotto banco ,con i manutengoli aziendali,(e fù così)che il mondo del’lavoro si ritrovò con il sedere x terra,oggi i nostri giovani si chiedono il xchè di tanta disfatta,questo fù uno dei motivi,poi seguono altri da attribuire alla casta la…na .e politica sporca….il resto è noto.

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