Per esempio Confindustria o i berlusconiani docg, che ne avrebbero voluta una ancora peggiore. E non era possibile, a meno di non tornare allo schiavismo, che però ha le sue controindicazioni (il corpo dello schiavo è “capitale” che il proprietario deve conservare in forze per poterlo casomai rivendere; il lavoratore dipendente si strizza e si getta via quando non serve più, deve badare a se stesso da solo).
Quella che la Camera sta approvando in via definitiva, consentendo a Mario Monti di presentarsi a Bruxelles con uno scalpo in mano, è l’inizio di un’era tragica. Ma non “nuova”. Due decenni di abuso di questo aggettivo ne hanno svuotato il significato, fino a ridurlo a “domani è un altro giorno” e quindi…
Non c’è nulla di “nuovo” nella cancellazione dell’articolo 18. Si torna alla situazione antecedente al 1966, con il dipendente licenziabile in qualsiasi momento adducendo un qualsiasi pretesto “economico” che non potrà subire alcuna verifica da parte di terzi; men che meno di un giudice.
Non c’è nulla di nuovo nella riduzione drastica degli ammortizzatori sociali a un solo anno di indennità di licenziamento, o a un solo anno di cassa integrazione ordinaria (quella per “eventi imprevedibili”, come incendi o alluvioni o terremoti).
Non c’è nulla di “nuovo” nella conferma aggravata della precarietà contrattuale.
Eppure questo ingranaggio complesso disegna un altro – non “nuovo” – campo di gioco nel conflitto sociale. Sindacalisti onesti, militanti di movimento, soggetti sociali sono chiamati a prendergli subito le misure. È un campo che relega in un angolo la “mediazione sociale” e i diritti consolidati. Che affida dunque la risoluzione di ogni vertenza ai puri rapporti di forza esprimibili immediatamente, con sullo sfondo la chiamata in causa delle forze dell’ordine (come già si vede in decine di occasioni: gli operai vengono manganellati tanto quanto gli “estremisti dei centri sociali”, e la stampa padronale li accomuna sempre più nel novero delle figure “illegittime”).
La fase che si apre richiede perciò determinazione e prudenza, assenza di paura e capacità di calcolo, fermezza sui princìpi e massima convergenza possibile sulle iniziative di mobilitazione. Tutte qualità che, diciamolo con franchezza, a sinistra scarseggiano da anni. I due decenni che ci separano dalla caduta del Muro hanno premiato i “simulatori” del conflitto, i rètori che andavano a trovare i subcomandanti in altri continenti per meglio sedersi su volgarissime poltrone in Italia. Questa genia di ceto politico di risulta è stata prima distrutta elettoralmente e poi dimenticata.
Ma anche chi si è opposto a questa deriva ha dovuto pagare un prezzo alto, vedendo restringersi fino al solipsismo gli spazi del confronto politico, della mobilitazione comune, gli orizzonti entro cui misurare la capacità di incidere sui rapporto tra le classi e sull’evoluzione politica del paese.
Uscire dal minoritarismo è decisivo. Uscirne con un punto di vista solido, altrettanto. Saper distinguere il piano della necessaria unità nella mobilitazione da quello, più difficile, della “ricostruzione scientifica” della realtà, diventa un compito da assolvere con acume e senza urla.
Il campo su cui da oggi ci muoviamo tutti è difficile, ma non sconosciuto. Somiglia tantissimo a quelli dei decenni più lontani, se non addirittura a quelli ottocenteschi.
Sarebbe bene che anche la serietà militante venisse “rinnovata” recuperando struttura. Ovvero spina dorsale e cervello collettivo. Emarginando per sempre l’individualismo legato alla necessità di “apparire” e la passione triste per la frammentazione.
Scriveva Paolo Volponi che la sinistra italiana è fratricida, anziché parricida. Composta dunque da figli che non diventano adulti e che mirano solo a dividersi l’eredità paterna, anziché mirare a far meglio dei padri “aumentando il patrimonio” (di conoscenza, organizzazione, cultura, ecc).
Invitiamo tutti – a partire da noi stessi – a lasciarsi alle spalle quella miseria. Su questo “campo di gioco” non c’è più spazio per chi palleggia da fermo, non corre e non passa mai la palla.
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giancarlo staffo
segnalo articolo: il Corriere allarmato per crescita sindacalismo conflittuale tira le orecchie a governo e sindacati cgil-cisl- uil:
Corriere della Sera
Pagina 56(23 giugno 2012) –
la Protesta Paralizza le Città quando la Piazza Sfugge ai Sindacati
Lo sciopero generale di ieri è stato ben visibile, almeno nelle grandi città come Roma e Milano, nonostante a proclamarlo fossero stati i cobas e non Cgil, Cisl e Uil. Ma soprattutto lo sciopero si è sentito. Complice il caldo infernale e la buona presenza dei sindacati di base nel settore dei trasporti, i disagi sono stati evidenti: linee della metropolitana ferme, autobus e tram a mezzo servizio, traffico sconvolto. A Roma, l’ Atac, azienda del trasporto pubblico locale, ha affermato che il 41 per cento dei lavoratori ha aderito allo sciopero indetto da Usb, Cub, Unicobas, Snater, Usi e Cobas. Numeri che vanno ben oltre gli iscritti alle diverse sigle dei sindacati antagonisti di estrema sinistra. Segno che la protesta «contro l’ attacco alle condizioni e al diritto del lavoro, lo smantellamento dell’ articolo 18, l’ Imu e l’ aumento dell’ Iva» ha raccolto un consenso più ampio. I cortei a Roma e Milano si sono notati. Alcune migliaia di persone vi hanno partecipato. Nei comizi si sono ascoltati messaggi sbagliati, per esempio contro l’ euro e l’ Europa accusati di essere all’ origine di tutti i problemi. Frange di partecipanti hanno messo in atto azioni simboliche da condannare, come lanciare uova e pomodori contro le vetrine di alcune banche o murare con mattoni uno sportello bancomat. La protesta ha però dato voce anche a lavoratori in cassa integrazione o mobilità, a famiglie senza casa, a studenti e precari che non vedono una prospettiva. Lo sciopero di ieri sicuramente indurrà qualche riflessione nei sindacati confederali, dove è aperto il dibattito tra chi avrebbe voluto lo sciopero generale prima dell’ estate e chi ha preferito aspettare. Fa impressione, per esempio, che ieri perfino il leader della Fiom, il duro Maurizio Landini, sia stato contestato a Bergamo al grido di «traditore» da un gruppo di lavoratori e giovani dei centri sociali. Ma qualche riflessione dovrebbe farla anche il governo. Forse è il momento di riaprire il dialogo con Cgil, Cisl e Uil: un incontro col sindacato confederale, che tante volte ha dato prova di responsabilità nei momenti di crisi, forse non sarebbe tempo perso. E farebbe sentire meno disorientati tanti lavoratori che vorrebbero appunto parlare col governo. Altrimenti, per qualcuno, non resta che la protesta.
Marro Enrico