Guardando al calendario delle mobilitazioni in corso, o programmate, contro il Jobs Act e in generale gli effetti delle politiche di austerità, si viene colti da una strana sensazione. Sembra quasi che stia montando un “possente movimento”, come negli anni ’70. Un movimento che, pur partendo da posizioni e quindi iniziative diverse, converge “oggettivamente” contro il comune nemico.
Non è così, lo sappiamo benissimo. Dietro le tante date sul calendario ci sono cose medie, piccole o piccolissime; che costano sforzi sovrumani di ristrette avanguardie sindacali e politiche, di lavoratori e studenti, di movimenti territoriali o settoriali. Che raramente convergono, più spesso si frammentano ulteriormente.
Lo stesso “nemico” non è affatto identificato con chiarezza. Per qualcuno è Renzi, per altri (sempre di più, per fortuna) è l’Unione Europea, per altri ancora – nella sinistra ex radicale – continua a essere “il pericolo che torni Berlusconi” (in modo da poter ritenere il Pd ancora “accettabile” come treno elettorale). E naturalmente non mancano dietrologi, astrologi e psicologi, che cercano il nemico in oscuri complotti anziché nelle forze materiali – evidentissime – che stanno rovesciando il mondo in cui tutti ci eravamo abituati a vivere.
Sì, proprio quel mondo rifiutato a parole in quanto riformista, keynesiano, socialdemocratico, concertativo, compatibilista, ecc. Ma pienamente accettato e rivendicato con nostalgia ogni volta che si metteva mano a un diritto, in campo lavorativo o persino in quello repressivo.
Uno strabismo ben poco “di Venere”, che non ha per nulla contribuito ad abbellire le molte “sinistre” (libertarie, radicali, antagoniste, movimentiste, settarie, nostalgiche, ecc), condannandole invece all’ininfluenza. In molti agiscono il conflitto, ma tranne qualche rara eccezione – comunque insufficiente alla bisogna – sono tutti conflitti “a km zero”. Piccoli fuochi accesi nel buio, che non arrivano ad illuminare molto più che il proprio cortile. E da cui, quasi sempre, ci si rifiuta di guardar fuori per trovarne altri. Di riconoscerli e farsi riconoscere.
Ne discende un modo di far opposizione (conflitto, agitazione politica… chiamatela come volete) come un “dovere”, un sacrificio alla lunga noioso e ripetitivo, “impiegatizio” nello spirito e nella pratica quotidiana. Per tigna, orgoglio, abitudine, “non saper far altro”. Ma sapendo che, in fondo, non è che si otterranno grandi risultati. Al massimo si pianterà una bandierina, si potrà dire “l’avevo detto”, cullandosi nella confortevole condanna dell’atteggiamento altrui. Più che interiorizzazione della sconfitta si deve qui parlare di consapevolezza quasi esplicita dell’inutilità.
La lotta politica, invece, ha senso solo se punta a “vincere”. Certo, si può anche perdere, come in ogni lotta. Magari anche in modo disastroso. Certo, si deve essere realisti, quindi consapevoli che “la vittoria” – il cambiamento effettivo dei meccanismi fondamentali del modo di produzione globale – è cosa può richiedere decenni o secoli. Oppure prodursi, come possibilità, nel pieno di una crisi globale dai tempi non così infiniti.
Ci si può orientare, in questo oceano di incertezze, soltanto se si possiede – e si è in grado di indicare con parole chiare, “comunicative” nella lingua ordinaria di un paese o di un continente – una “prospettiva”, una direzione di marcia, un orizzonte.
La “caduta del Muro”, esattamente un quarto di secolo fa, ha cancellato in Occidente la prospettiva del socialismo come “concreto possibile”. Neanche sette anni di crisi nera del capitalismo – qui in Europa, almeno – hanno sollevato domande sul “dove stiamo andando”. Cioè sulla prospettiva concreta, sulla risoluzione degli infiniti problemi che questa crisi genera e moltiplica.
C’è insomma il più che fondato sospetto che oltre questo mondo non si sappia andare, che lo si sia accettato, anche quando gli si sputa contro per avere di più di quanto – sempre meno – ci è concesso.
Siamo tutti davvero ridotti a questo punto? O, più semplicemente, è la “solitudine” dei tanti cervelli critici-critici ad impedire quel salto di qualità, quel confronto con la complessità che solo un ‘”intellettuale collettivo” – irrelato e procedente come un motore unitario a km illimitati, secondo un “programma comune” – può garantire? Comunismo è in fondo l’atto di mettere in comune. La propria intelligenza, quanto meno.
Una cosa ci è chiara: il tempo per fare questo salto è ora.
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alberto .gabriele
Barontini ha ragione, ma ancora una volta la realta’ e’ abbastanza disperante. Con chi si potrebbero e dovrebbero mettere in comune l’intelligenza e la volonta’ di vittoria? Tutti i maggiori soggetti organizzati hanno delle magagne grosse come case, a cominciare dalla CGIL. Non sono redimibili in quanto tali, anche se i tanti compagni che ci stanno ancora dentro meritano sempre rispetto e considerazione. Credo che per ora non si possa fare molto di piu’ che continuare a produrre elaborazioni, critiche e proposte, oltre a qualche iniziativa di lotta di portata limitata, dialogando (quasi) con tutti – e in particolare, anche se cio’ e’ difficilissimo, con il M5 – ma evitando come la peste alleanze opportunistiche della serie lista Tsipras.
E’ probabile che tra non molto la crisi aprira’ nuovi e grandi spazi politici, che saranno occupati da chi ne avra’ la forza e la radicalita’, e non certo da chi sara’ ancora associato dal popolo (a torto o a ragione) con le vecchie forme di consociativismo e di opportunismo tipiche della CGIL ma anche, ad esempio, di SEL, del PRC e del PdCI.