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Assolto Erri, ma il regime avanza lo stesso

Quella su Erri De Luca è una sentenza a molte facce. La prima, di cui siamo felici, è l’assoluzione senza se e senza ma – il fatto non sussiste – nei confronti di uno scrittore con cui abbiamo fatto un lunghissimo tratto di strada e con cui ci sentiamo di poter discutere tranquillamente anche le più divisive divergenze.

Ma siamo sicuri che sia anche una sentenza che dimostra come in Italia la libertà di espressione – dunque l’ultima frontiera oltre la quale non c’è più alcuna libertà – non sia in pericolo?

Sinceramente, non ci sembra. Per capire la profondità dei guasti alla cultura politica del tempo, quindi anche a quella giuridica, bisogna uscire un attimo dalla sentenza in quanto tale (in attesa, oltretutto, delle motivazioni che arriveranno tra tre mesi) e guardare sia alle reazioni degli opinionisti che al tran tran quotidiano delle attività repressive.

L’assoluzione è stata salutata da tutti come doverosa, nel quadro delle disposizioni costituzionali (ancora) in vigore e delle leggi (ancora) vigenti. La libertà di espressione, in questo quadro, è garantita a prescindere dal fatto che l’opinione espressa sia controversa o opposta al regime politico dominante, e anche dal fatto che possa suonare a giustificazione di pratiche considerate dal potere stesso un reato. Per essere più espliciti, nessun pubblico ministero, neanche nel momento più aspro degli anni ’70, si sognò mai di ipotizzare un’incriminazione per Eugenio Montale che si smarcò decisamente dall’obbligo di obbedienza dichiarandosi “né con lo Stato, né con le Br”. E nessun pubblico ministero si mosse per sanzionare un Leonardo Sciascia che ironizzava sui “professionisti dell’antimafia” (alcuni arresti recenti continuano a dargli ragione, peraltro).

Ma non c’è commentatore “autorevole” – in realtà soltanto “autorizzato” – che non continui a stigmatizzare le frasi pronunciate, ribadite e rivendicate da Erri sulla legittimità della resistenza, dunque anche del sabotaggio contro la Tav. Una cartina tornasole è stato il comportamento viscido di Roberto Saviano, che prima della sentenza aveva definito il processo una “barbarie”, ma sottolineando di non condividere affatto le dichiarazioni di Erri su “cesoia” e “sabotaggio”. Che erano poi le uniche parole incriminate, su cui i pm Rinaudo e Padalino – smentiti mesi fa dai giudici di primo grando anche sulla contestazione dell’aggravante di “terrorismo” per quattro ragazzi No Tav – hanno imbastito il loro inconsistente capo d’accusa. Come dire: non dovevi parlare e dire quelle cose, ma è stato eccessivo mandarti sotto processo.

Il risultato, o l’obiettivo, sono identici: silenziare la parola contraria. Con la “pressione ambientale” o con il processo penale, è solo questione di strumenti differenti.

Ecco, noi invitiamo a guardare quel che avviene per ora soprattutto fuori dalle aule di Tribunale, pur senza dimenticare che la Procura di Torino prova a instaurare una nuova formulazione del concetto di legalità, che esclude ogni possibilità di opposizione che oltrepassi la soglia del pensiero, traducendosi in parola o azione.

Invitiamo a guardare gli studenti caricati e pestati dalla polizia perché protestavano contro l’essere stati esclusi dall’accesso all’università cui sono iscritti – a meno di non pagare il biglitto d’ingresso – perché concessa “eccezionalmente” alla mostra Maker Faire, con relativo blocco della didattica per tre giorni (a proposito di servizi pubblici garantiti…). Oppure allo stillicidio di sgomberi effettuati in questi mesi, senza nessuna differenza tra occupazioni abitative, spazi sociali, centri culturali, ecc. Alla marea di denunce e fogli di via, di obblighi di firma e divieti di residenza che tempestano da mesi centinaia di attivisti in tutto il paese. E persino alla dialettica parlamentare, sempre più limitata alla ratifica delle decisioni del governo, tra un finto “dibattito” in mezzo agli insulti che si conclude nell’immancabile “voto di fiducia” a maggioranza flessibile, o addirittura senza neanche la maggioranza degli aventi diritto (persino alcuni articoli della “riforma costituzionale” sono stati approvati da una minoranza numerica di questo tipo).

Tutto si tiene, immancabilmente. La costruzione di un regime autoritario marcia a tappe forzate e con quasi nessuna resistenza, derivato inevitabile dell’assoluta incapacità diffusa di cogliere l’unità di intenti del potere nel colpire opposizioni che vivono – più che “marciare” – ognuna per conto suo (basta guardare al microcosmo degli “sgomberati”, incapaci di imbastire una vertenza comune).

Al posto di Erri, vogliamo dire, probabilmente quasi tutti sarebbero stati condannati. È un suo merito indiscutibile aver tenuto il punto – nessuna marcia indietro, rinuncia preventiva all’appello in caso di condanna – costringendo così il giudice a dover scegliere tra una condanna extralegale che avrebbe sollevato scandalo (quasi esclusivamente) nell’intellettualità europea, riportando questo paese ai tempi del fascismo, o l’assoluzione che salva le apparenze della “democrazia” mentre la sostanza viene quotidiamente cancellata.

Il quadro costituzionale e legale che impediva la condanna di Erri, insomma, è in via di smantellamento. Nel silenzio.

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