Raddoppiare le pene e condannare anche gli assolti. E’ quanto chiede il procuratore generale di Roma Antonio Marini nell’ambito del processo d’appello contro sei imputati colpevoli, a suo dire, di voler ricostituire una specie di gruppo armato in continuità con l’esperienza delle Brigate Rosse. Nella sua requisitoria finale Marini ha chiesto quindi chiesto 15 anni di carcere per Massimo Riccardo Porcile e Gianfranco Zoja (condannati in primo grado a sette anni e mezzo il primo e a otto anni e mezzo il secondo), 12 anni e otto mesi per Bernardino Vincenti (in primo grado condannato a quattro anni e mezzo). E anche 10 anni e sette mesi per Bruno Bellomonte, sei anni per Manolo Pietro Morlacchi e sei anni per Costantino Virgilio, tutti e tre assolti in primo grado. Tutti nuovamente accusati, a seconda dei casi, di associazione sovversiva con finalità di terrorismo, banda armata e violazione della legge sulle armi, atti di terrorismo con ordigni micidiali e ricettazione. Nella sua requisitoria Marini ha puntato l’indice contro i magistrati rei a suo dire di aver rovinato il processo di primo grado: «I giudici hanno svilito i fatti leggendoli e giudicandoli i maniera avulsa l’uno dall’altro. La sentenza deve essere riformata perché non giusta. Questo non è un processo fondato su documenti ideologici, nei capi d’imputazione si parla di atti terroristici. Tutto quello che il gruppo ha scritto lo ha realizzato, aveva intenzione di farlo o comunque ha cominciato a farlo» ha tuonato Marini.
Se il carcere duro non avesse già ucciso Luigi Fallico, un altro degli imputati,all’interno del carcere viterbese di Mammagialla Marini avrebbe chiesto una pena esemplare anche per lui, visto che per gli inquirenti si trattava del leader dell’improbabile gruppo. Un gruppo armato formato da persone di ideologia e traiettoria politica distinte. Tra questi l’indipendentista sardo Bruno Bellomonte, accusato di aver ordito e partecipato al progetto di un attacco contro il G8 della Maddalena, con degli aeroplanini telecomandati (!), poi abortito in quanto il vertice fu spostato da Berlusconi all’Aquila. Perché mai un indipendentista sardo avrebbe dovuto partecipare a un gruppo armato italiano? Gli inquirenti non hanno saputo spiegarlo, così come non hanno saputo sostanziare molte delle loro fantasiose e infamanti accuse. Tant’è che metà degli imputati sono stati scagionati, non senza aver subito una persecuzione giuridica e mediatica degna da far rabbrividire.
In particolare l’accanimento ha preso di mira il già citato Bruno Bellomonte: capostazione e attivista sindacale, oltre che militante della sinistra indipendentista sarda, venne arrestato e incarcerato nel posto forse più lontano e difficile da raggiungere dalla Sardegna – in Calabria – e fu licenziato da Trenitalia a processo ancora in corso. Poi, il 21 novembre del 2011, la sentenza di assoluzione che metteva fine a 29 mesi di carcerazione preventiva e di angherie, tra le quali l’impedimento a votare quando A Manca pro s’Indipendentzia e altre forze della sinistra sarda lo candidarono a sindaco di Sassari.
“Assolto perché il fatto non sussiste” sentenziò il presidente della Corte d’Assise di Roma. Ma quell’assoluzione non sembra fermare la verve persecutoria di certi ambienti giudiziari. Il processo dovrebbe concludersi il 29 ottobre o qualche giorno dopo. Proprio alla vigilia della grande manifestazione che la Consulta Rivoluzionaria sarda ha convocato a Cagliari. Un caso?
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