Lo storytelling si è interrotto brutalmente. Abituati come siamo a sentirci raccontare “palle” ben strutturate, ripetute come un sol uomo da tutti i media principali, alla fine non capiamo più nulla. E ci beviamo tutto.
Poi, d’improvviso, un’esplosione di eventi ci riporta alla realtà, strappando la sceneggiatura mielosa che avvolge i rapporti reali tra parti in conflitto nella società concreta.
In poche ore siamo passati dall’assistere impotenti al rosario di omicidi razzisti che costituiscono la prassi quotidiana della polizia Usa alla vendetta organizzata, su princìpi militari, che ha lasciato – mentre scriviamo – cinque poliziotti uccisi e sei feriti a Dallas.
I video che avevano riempito gli occhi inorriditi di tutto il mondo avevano mostrato una violenza assassina e senza alcuna ragione plausibile: un uomo bloccato a terra ucciso con colpi a bruciapelo, un padre di famiglia ammazzato davanti a moglie e figlio, e via così, in un crescendo di esecuzioni gratuite.
La psicologia malata degli sbirri Usa non è una spiegazione, ma un risultato. Dietro quella percezione di onnipotenza omicida ci sono decenni di “neri” lasciati per terra, senza mai un poliziotto condannato, una tradizione che affonda le radici nello schiavismo legale e nel Ku Klux Klan. E in un codicillo regolamentare ripetuto ossessivamente da ogni killer in divisa: “mi sono sentito in pericolo di vita, dunque…”.
Un tempo questo era sufficiente. Non c’erano mai testimoni ritenuti abbastanza attendibili da smentire la versione unilaterale degli assassini (altri “negri” come la vittima, quindi “prevenuti”), mai un giudice disponibile ad indagare (negli Usa la carica di procuratore – ossia dell’accusa nel processo – è elettiva, ossia politica). Oggi i device pronti per registrare ogni attimo della vita metropolitana sono in mano a chiunque. E vengono usati. Ogni sparatoria ha uno o più video che ne riprendono alcune fasi. La violenza omicida un tempo solo immaginata o narrata ora viene vista da milioni di persone. E non c’è storytelling che tenga, davanti a un omicidio in diretta.
È possibile che un di più di aggressività recente nella polizia Usa sia legato al fatto che il primo presidente “negro” stia per lasciare la Casa Bianca senza aver ottenuto nulla nei confronti dei comportamenti polizieschi. E che l’esplosione del fenomeno Trump abbia rafforzato l’antica abitudine all’impunità, “liberando” istinti mai troppo repressi. E sicuramente la noncuranza razzista del linguaggio di Trump è in perfetta sintonia con lo slang da caserma dei pistoleri legalizzati.
Al fondo c’è l’idea razzista – non solo statunitense – che un “non bianco” non sia veramente un essere umano; e quindi la sua uccisione può esser considerata un “eccesso”, ma non un crimine di cui essere e sentirsi colpevoli. Che la vita di un “negro” o di un indiano non valga insomma granché.
Ma questo azzeramento del valore è un vento che semina tempesta, e non solo sul pano dell’appartenenza etnica o “di colore”. Se la mia vita non conta nulla e io posso morire in ogni istante quando incontro il poliziotto sbagliato, allora non devo preoccuparmi di organizzare la mia esistenza sul lungo periodo. Sono un morto che cammina in attesa della fine.
Brutta condizione, certo. Che produce facilmente, ad un certo punto di accumulazione della frustrazione collettiva, la risposta “offensiva”: morto per morto. Facile, negli Usa, comprare legalmente un’arma e addestrarsi al suo uso. E proprio la libera circolazione delle armi da fuoco – mai contrastata per compiacere alla lobby dei fabbricanti- rende i poliziotti ancora più pronti a premere il grilletto, prima ancora che una minaccia reale venga percepita veramente. Chiunque venga fermato può possedere una pistola, o un fucile da guerra: i poliziotti lo sanno e sparano per primi, che il fermato ne abbia una o meno.
Più complesso organizzare un attacco militare come quello di Dallas, ma non mancano davvero – tra i cittadini neri o comunque “non bianchi” – ex combattenti nei cento scenari di guerra in cui è stato impegnato l’imperialismo yankee.
Ed ecco che la guerra civile globale che hai seminato per il mondo ti ritorna in casa per due vie diverse: quella del jihadismo (la “guerra esterna” sotto forma di attentati contro la popolazione civile) e quella della guerra civile interna, su base razziale ma in qualche misura anche sociale (i “non bianchi” sono comunque la stragrande maggioranza negli strati sociali più poveri).
Nel suo piccolo, in Italia, il tentativo fascioleghista di ridurre a “ragazzata” o “episodio da curva” l’omicidio razzista di Fermo, è figlio della stessa demenza. Una fetta di classe politica che da trent’anni sdogana il razzismo è responsabile di star creando un contesto alla lunga pericolosissimo. Come l’anatomia dell’uomo spiega quella della scimmia, così il buco nero statunitense spiega i piccoli tumori del panorama nostrano.
Vogliamo davvero una evoluzione di quel tipo?
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