“Siamo sull’orlo di un evento che segnerebbe la fine dell’Occidente (sotto la guida americana)”. Ad affermarlo non è un militante antimperialista né un protocampista. E’ Martin Wolf, uno dei maggiori editorialisti del Financial Times in un articolo uscito mercoledi. Wolf accredita lo status di evento scatenante alla possibile vittoria di Trump nelle elezioni presidenziali statunitensi. “L’imprevedibilità è il marchio di fabbrica di Trump e del suo approccio transnazionale… sarebbe un cambiamento di regime per il mondo intero… la sua presidenza non renderebbe grande l’America, al contrario, potrebbe mandare in pezzi il pianeta”, scrive Wolf.
Tra le righe del suo editoriale leggiamo però qualcosa di molto più pesante di un semplice endorsement per Hillary Clinton o l’ennesimo appello a fermare le variabili impazzite nelle leadership dell’Occidente (in fondo, Berlusconi è stato in questo quasi un precursore).
Per Wolf – e non solo per lui – è l’intera architettura, la sovrastruttura ideologica e psicologica mondiale, che rischiano di saltare se gli Usa non avranno più una guida sostanzialmente simile a tutte quelle che l’hanno preceduta. “Molti hanno sempre guardato con sospetto alle motivazioni degli americani, però pensavano che sapessero come si gestisce un sistema capitalista: la crisi ha mandato in frantumi questa fiducia”.
Il XXI Secolo dunque non sarà più il “Secolo americano”? Di questo si vanno convincendo e dunque preoccupando in molti, soprattutto nel campo nemico. Ma è una domanda che deve porsi con rigore (e non con atteggiamenti da tifoseria) anche chi per tutta la vita si è opposto al principale polo imperialista mondiale, perchè delinea un passaggio che segna in ogni caso un cambiamento di fase storica. Altrettanto epocale del passaggio di consegne della leadership mondiale dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti o della “caduta del Muro” (da cui è ormai passato oltre un quarto di secolo…).
Almeno tre generazioni sono cresciute e si sono formate all’insegna della subalternità o della lotta al modello statunitense in campo economico, ideologico e militare. Una egemonia contrastata fino al 1991 dall’esistenza di quello che è stato definito il “socialismo reale” in una parte del mondo e da movimenti di liberazione anticoloniale, vittoriosi fino al 1979. Con la violenta controffensiva scatenata negli anni ’80 a tutti i livelli, gli Stati Uniti avevano giocato tutte le loro carte: da quelle più brutali degli interventi militari a quella ideologica del nesso inscindibile tra prevalenza della proprietà privata, individualismo, consumi e democrazia fino al totem della forza “progressiva” di una globalizzazione finanziaria a guida statunitense con cui imbrigliare e conformare l’intera comunità umana su questa pianeta.
La dissoluzione dell’Urss nel 1991 aveva fatto dire al politologo statunitense Francis Fukuyama che “la storia era finita” e che il capitalismo reale a guida Usa poteva ritenersi la sintesi massima dello sviluppo umano in tutte le sue forme. Non era la prima volta che un temporaneo vincitore si guardava allo specchio e immaginava di rendere eterno quell'attimo di gloria, dimenticando che nella Storia ogni arrivo è solo un punto di partenza.
Eppure l’allarme sulla fragilità di questo scenario lo avevano suonato proprio i neocons statunitensi, con un documento riservato pubblicato nel 1992 sul Washington Post, che anticipava i temi, le ambizioni e le preoccupazioni che saranno risistematizzate otto anni dopo dai pensatori più reazionari nel Pnac (il Progetto per un Nuovo Secolo Americano), che supportò ideologicamente lo scatenamento della guerra infinita in Afghanistan, Iraq, Medio Oriente e Libia.
I neoconservatori statunitensi, nonostante la vittoria storica degli anni Novanta, intuivano il rischio del declino Usa e temevano come la peste “l’emersione di potenze rivali che possano mettere in discussione il primato statunitense nel mondo”. Alla luce di quello che stiamo vedendo, possiamo dire che avevano intuito bene, ma le guerre scatenate dalla amministrazioni statunitensi dal 1991 in poi non sono servite a fermare questo declino, né ad avviare una duratura controtendenza.
Ai primi di settembre era stato l’esperto strategico del Corriere della Sera, Franco Venturini, a disegnare uno scenario sconfortato del vertice del G20 a Huangzou, in Cina. Un Obama che rischia di essere ricordato come “il presidente che ha perso il Medio Oriente”, la Turchia di Erdogan uscita più forte dal fallito golpe sobillato dai “fratelli coltelli” nella Nato, una Russia tornata protagonista della scena internazionale con l’intervento in Siria che ha stoppato le velleità dei nemici del governo Assad, con il riavvicinamento con la Turchia e la politica dei fatti compiuti sulla Crimea, una Cina che non è crollata sul piano economico come ipotizzavano (e speravano) molti osservatori internazionali. Venturini spera che lo scenario dei prossimi anni non corrisponda a queste tendenze. “L’America è necessaria, e ha ragione Robert Kaplan quando dice che un declino americano sarà sempre relativo. L’Europa deve salvarsi, elettori e migranti permettendo. Russia e Cina devono essere tanto forti da accettare anche compromessi scomodi”, scrive l’editorialista del Corriere “Deve nascere, in definitiva, un ordine multipolare capace di gestire le tensioni di un dopo-Muro che è stato sin qui sinonimo di stragi e di impotenze. Comprese quelle del G20”.
Mercoledi, infine, in una intervista al Corriere della Sera, è stato Carlo De Benedetti ad affermare che “Siamo alla vigilia di una nuova, grave crisi economica. Che aggraverà il pericolo della fine delle democrazie, così come le abbiamo conosciute” (vedi l’intervista e il commento del nostro Dante Barontini su Contropiano di mercoledi). Anche l’Ingegner De Benedetti vede come una jattura la eventuale vittoria di Trump alle elezioni statunitensi, ma sottolinea soprattutto che “Oggi proprio la progressiva distruzione della classe media mette a rischio la democrazia; senza che si sia risolto il problema della stagnazione. Peggiorato dalla folle scelta europea dell’austerity in un periodo di piena deflazione, il che equivale a curare un malato di polmonite mettendolo a dieta”.
Insomma tre analisi “catastrofiste” in pochi giorni, da parte di esponenti rilevanti dell’establishment e sui loro principali strumenti di orientamento, sono qualcosa di più di “tre indizi che fanno una prova”. Emerge piuttosto la consapevolezza (oltre alla paura) che il piccolo mondo antico stia finendo anche per i capitalisti, ormai abituati a muoversi, decidere e agire in un sistema di alleanze, valori e parametri economici/ideologici dominante perché efficace e senza più avversari all'altezza. I padroni non controllano più il mondo come prima, “fan finta di sapere” diceva una canzone.
Ancora Martin Wolff ci ricorda che la quota di ricchezza prodotta dai paesi occidentali, sul totale del Pil mondiale, scenderà dal 64% del 1990 al 39% del 2020. Un processo che non avviene per una redistribuzione della ricchezza su basi di classe, ma dentro nuovi rapporti economici, politici e di forza nel mondo che vedono declinare gli Usa e i loro alleati storici. Gli stati europei, soprattutto.
Il problema è che nessun imperialismo dominante ha accettato di declinare senza ricorrere a tutti i mezzi per evitarlo. In questi 25 anni si sono accaniti sui salari e sui lavoratori per raspare margini di profitto sempre più sottili; si sono dedicati al saccheggio sistematico delle risorse dei paesi più deboli e hanno riempito il mondo di carta straccia pomposamente chiamata “prodotti finanziari”. Adesso stanno liquidando anche la democrazia rappresentativa che doveva rappresentare il “valore aggiunto” intrinseco dell’economia di mercato, il fiore all'occhiello che legittimava qualsiasi porcata.
La partita che si sta aprendo non è e non sarà una battaglia di opinioni ma lotta per la sopravvivenza e la trasformazione come necessità della sopravvivenza. La cui soluzione, come spiegava Marx, non può che essere “una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o la rovina comune delle classi in lotta".
Non si scherza più, se mai si è scherzato. Il tramonto sta scendendo, ma l'alba non arriverà da sola…
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IlCarbonetto
Va beh, daccordo, queste cose gia' le sappiamo… E dunque, che suggerisci?
Possibile che ci sia cosi' tanta poverta' creativa in chi, da sinistra, pensa di cambiare il mondo?
ilCarbonetto
Alessandro Cardonelli
Tre cose nei prossimi tre mesi e una un pò più in là:
– votare NO al referendum per difendere la democrazia
– Riprendere la campagna per l'Ital/Exit e portare il nostro paese fuori dall'Unione Europea e dall'euro
– nazionalizzare banche e industrie strategiche
– sedersi sulla riva del fiume e aspettare di veder passare il cadavere del nemico
Al
Programma interessantissino, ma ahimè inattuabile.
Alberto Capece
E' significativo che sostanzialmente il male si identifichi con l'imprevedibilità, ossia con qualcosa che fondamentalmente non piace al potere. Ma è un discorso sciocco, perché ormai l'imprevedibilità, vadi caso siriano, nasce proprio dalla prevedibilità dei disegni, è nelle cose.. Quanto al resto è davvero patetico che il Financial Times, ovvero l'organo pressoché ufficiale della Trilateral, sia diventato un faro per la sinistra quando c'è qualcosa che sembra accordarsi con i suoi totem e tabù.