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Tutto, ma lo sciopero nooo!

Si sentiva nell’aria che questo 8 marzo sarebbe stato una novità. Nei movimenti delle donne di tutti i paesi, infatti, le tematiche relative ai diritti di libertà e di genere si vanno progressivamente saldando a quelle dei diritti sociali, nel e sul lavoro. Qualsiasi libertà individuale, del resto, è effettivamente esigibile solo se c’è indipendenza economica. La regressione sociale che si è abbattuta in molti paesi in questi dieci/quindici anni, sta invece lasciando ferite profonde a tutti i livelli.

Questa novità è stata colta in tutta la sua importanza, almeno in Italia, dai sindacati di base, che hanno proclamato lo sciopero generale dando così copertura a tutte le donne – e gli uomini – che intendevano fare di questa giornata una scadenza di lotta reale, non solo una festa.

La novità era invece completamente sfuggita alla classe dirigente di questo paese, e ai media di regime, confermatisi “fabbricanti di opinioni padronali”, impenetrabili e indifferenti – se non apertamente ostili – a quel che si muove nella società.

Per giorni, fino alla mattina dell’8 marzo, avevano riempito pagine e ore di video con tutta una serie di temi sicuramente giusti, ma singolarmente inoffensivi per il sistema di vita in cui siamo immersi.

Stamattina, invece, nessun quotidiano di prima fascia portava traccia – nelle prime pagine, quelle più importanti – della straordinaria mobilitazione di ieri. Soltanto uno, il Corriere della Sera, ne ha parlato. Ma l’ha fatto con un editoriale del vicedirettore, Dario Di Vico, dal titolo inequivocabile: Perché lo sciopero è stato un errore.

Non sembra perciò una forzatura considerare il suo punto di vista rappresentativo del mainstream italico, sorpreso e impaurito dalla riuscita dello sciopero più ancora che dalle manifestazioni. O meglio, impaurito dalla inedita composizione sociale emersa dalla giornata. Non più solo femministe storiche e qualche ragazza incuriosita, ma donne che lavorano, migliaia e migliaia di ragazze che stanno scoprendo la disparità femminile sui luoghi del lavoro precario, nel ricatto – spesso anche sessuale – che scatta sulla porta d’ingresso di qualsiasi azienda. Ben che ti vada, infatti, verrai pagata di meno, dovrai dilazionare la maternità fin quasi al limite della menopausa, farai una progressione di carriera più lenta; dovrai comunque diventare un’acrobata che balla tra impegni di lavoro, faccende domestiche, cure parentali, impegni personali. E in più c'erano uomini, tanti uomini, a dare forza numerica e migliori rapporti di forza aziendali allo sciopero.

Se ne duole apertamente, Di Vico: lo sciopero delle donne proclamato ieri si è rivelato un disastro… Hanno scioperato più uomini che donne. Forse perché sono di più al lavoro? Per rabbia pura mette in campo i soliti luoghi comuni usati contro tutti gli scioperi (alla fine il settore più colpito è stato quello del trasporto pubblico), giocati come sempre in chiave di guerra tra poveri (con tutte le ricadute che ben sappiamo sugli strati meno abbienti della società).

Non si risparmia neppure un tocco specificamente “femminile” e classista (l’astensione dal lavoro nei trasporti e nelle scuole ha finito per pesare su altre donne che sono dovute rimanere a casa perché magari la baby sitter non poteva raggiungerle).

Perchè il cuore di tutto il ragionamento è il classico “comprendo le ragioni” (La piattaforma elaborata dall’associazione Nonunadimeno era corretta… tutte issue più che condivisibili), MA LO SCIOPERO NO.

Cosa significa? Che il movimento delle donne questa volta ha colpito davvero nel segno, superando per la prima volta l’invisibile confine che deve separare – a insindacabile giudizio dell’establishment – le proteste ammissibili (per i diritti civili) da quelle inammissibili (per i diritti sociali: lavoro, welfare, istruzione, salute).

I primi sono infatti gratuiti in molti sensi: non richiedono particolari strutture istituzionali, non comportano maggiori costi per le imprese, richiedono semplicemente un disinteresse dello Stato verso certi comportamenti. I secondi, invece, “costano”; aumentano la spesa pubblica e riducono i profitti privati. Un esempio? Proprio nelle stesse ore il ministro Enrico Costa spiegava alla Camera che sono stati tagliati i fondi per le politiche sociali (da 311 a 99 milioni) e quelli per i non autosufficienti (da 500 a 450 milioni). Questo significherà meno soldi per le famiglie, gli asili nido, i centri antiviolenza femminile, e più cure parentali sulle spalle delle donne.

La giornata di ieri, superando quel confine, ha messo tutto il movimento delle donne su un sentiero diverso da quello – rassicurante e inoffensivo – del mazzetto di mimosa una volta l’anno. Le soluzioni concrete per questa nuova piattaforma richiedono un cambiamento sociale radicale, una inversione drastica delle priorità su cui si base questo modo di vivere, produrre e riprodursi. Questo movimento promette di stare in piazza tutti i giorni dell’anno, in qualsiasi ambito, in qualsiasi città o anfratto sociale.

 

Foto di Patrizia Cortellessa

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5 Commenti


  • roberto

    Lo sciopero vero contro il sistema (contro la guerra e la suddivisione in classi) l'hanno fatto per prime Lisistrata e le cittadine greche nel 400 a.C. E le uniche sono rimaste.

    La pagliacciata di ieri è stato l'ennesimo tentativo (riuscito) di annacquare le differenze di classe e mascherare i veri problemi; né più né meno di quando si combattono le battaglie che l'articolo definisce "ammissibili", quelle dei diritti cd. civili.

    Cosa fa pensare che le proteste "inammissibili", quelle per il welfare, l'istruzione e la salute siano problemi esclusivi delle donne? Davvero qualcuno pensa che la signorina Boschi o la signorina Mogherini siano discriminate rispetto a un operaio uomo o a un lavoratore dei call center o a un disoccupato, tanto da dover scendere in piazza in nome di tutte le donne senza distinzione?

    Patetico.


    • Redazione Contropiano

      con patetico intendevi il tuo commento, vero?…


  • Carlo Marzane

    Roberto sostanzialmente ha ragione. Non a caso la partecipazione è stata minimale.


  • anton svoboda

    ottima manifestazione, almeno 10000 persone, la rabbia e la determinazione si sentivano. Buone le parole d'ordine oltre i soliti slogan. Peccato il tratto interclassista e la mancanza (ancora) di una direzione politica COMUNISTA. La strada da percorrere è ancora lunga ma sono fiducioso. 


  • Fabrizio Marchi

    Una interpretazione di classe della realtà non può essere compatibile con una interpretazione di genere. Questo è il tentativo (maldestro) che una parte del femminismo (quello, diciamo così, che si proclama "antagonista", meno compromesso con il sistema politico-mediatico dominante) sta tentando di portare avanti, anche per cercare di recuparare una credibilità politica. Questa parte del femminismo si è infatti resa conto della deriva "neoborghese" e del tutto funzionale se non organica al dominio capitalista della parte maggioritaria del femminismo, ormai un mattone fondamentale dell'ideologia politically correct dominante. E solo uno sciocco poteva non accorgersene. 

    Ma anche questo, come dicevo, è un tentativo maldestro, perchè poggia su una intepretazione strutturalmente errata. Possiamo (o meglio, potete…) anche dare del patetico a Roberto (il primo che ha commentato) ma nella sostanza ha ragione. Parlare di donne, come se fossero una categoria in sè, NON ha nessun senso. Ci sono donne ricche e donne povere, donne borghesi e donne proletarie, così come uomini borghesi e e uomini proletari. E una donna ricca e borghese, sia essa una top manager, una diva del cinema o "soltanto" la moglie di un industriale o di un banchiere, non ha nessun interesse in comune nè con la donna proletaria nè con l'uomo proletario, e tanto meno quest'ultimo è, in quanto maschio (questo il minimo comune denominatore di tutti i femminismi…) in una condizione di privilegio e di dominio nei confronti di quella donna. A mio parere non lo è affatto neanche nei confronti delle altre donne. Perchè qualcuno/a mi dovrebbe spiegare dove, come, quando, in che modo e perchè oggi, nell'attuale contesto storico e sociale, un operaio, un precario, un impiegato, un disoccupato, sarebbe in una condizione di privilegio e di dominio nei confronti di un operaia o di un'impiegata ecc.

    Al contrario, se proprio vogliamo entrare nela stessa logica di genere (che non è la mia) sono in grado di dimostrarvi (qualora voleste aprire un dibattito in tal senso) che oggi le cose sono addirittura capovolte rispetto alla tradizionale interpretazione femminista e/o neofemminista dela relazione fra i sessi, e che la maggior parte degli uomini, vivono una condizione di subordinazione non solo in quanto soggetti sociali ma anche in quanto soggetti sessuati (maschili). Ma sarebbe un discorso troppo lungo e non credo neanche che abbiate la voglia di aprirlo. La ragione la sapete voi…

    Una cosa però. Prima di dare dei patetici alle persone, pensateci bene. Ha sbagliato Roberto ad esordire in quel modo ma restituirgli l'epiteto non serve a nulla, tanto meno alla comprensione della realtà. Una realtà dalla quale chi sposa in toto il femminismo dimostra di essere lontano anni luce.

     

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