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Tre governi in uno

Se il buongiorno si vede dal mattino, il governo grillin-leghista ha più problemi che capelli. Non passa ora, in pratica, che non si verifichino rovesciamenti radicali di posizioni, sdoganamento di personaggi appartenenti a mondi fin qui “nemici”, abbandono di “valori” che costituivano addirittura l’identità fondante dei soggetti che hanno dato vita a questa maggioranza.

Di Salvini è oggettivamente difficile dire peggio senza rischiare una denuncia o qualcosa di più pesante. Un ministro dell’interno ha molti strumenti a sua disposizione, ed un ministro particolarmente disinvolto rispetto alle regole istituzionali è più pericoloso della media.

Le sue sortite sono fin qui avvenute sul terreno preferito, quello che gli ha dato le maggiori soddisfazioni prima e dopo le elezioni: i migranti. Persino il “no” alla revisione del regolamento di Dublino, che ha reso impossibile qualsiasi mediazione tra i paesi dell’Unione Europea, va per ora a suo vantaggio. Teoricamente poteva essere un boomerang – l’Italia, che voleva quote certe di redistribuzione in altri paesi, si è ritrovata al fianco dell’ungherese Orbàn e altri che pretendono l’esatto opposto – ma si è capito presto che in realtà è la stessa Ue ad essere pronta ad accettare i respingimenti in mare. E quindi a ridurre quantitativamente il numero di migranti che arrivano in Europa consegnandoli agli squali veri e propri.

Su Russia e Nato, entrambe le formazioni di governo sono costrette ad equilibrismi continui, tipici della vecchia Democrazia Cristiana, tra rinnovati giuramenti di fedeltà atlantica e suggerimenti contrari al mantenimento di sanzioni che danneggiano in primo luogo le esportazioni italiane (notoriamente la Germania fa solo finta di applicarle, ma commercia con Mosca come nulla fosse).

Sul fronte interno, comunque, sono i Cinque Stelle ad esser costretti a giravolte molto imbarazzanti, che in un momento diverso – siamo in piena “luna di miele”, con l’elettorato felice di vedere i propri beniamini lì e quindi disponibile a perdonare quasi tutto – costerebbero cari in termini di consenso.

La sortita di Di Maio in Confcommercio è stata gestita in puro stile berlusconiano e andreottiano. “Avete la mia parola qui a Confcommercio che l’Iva non aumenterà e le clausole di salvaguardia saranno disinnescate” (e fin qui è una notizia mezzo buona anche per i consumatori…), ma soprattutto quell’impegnativo “Aboliremo tutti gli strumenti come lo spesometro e il redditometro e inseriremo l’inversione dell’onere della prova. Perché siete tutti onesti ed è onere dello Stato provare il contrario.

Un “capo politico” del movimento arrivato al governo cavalcando il grido “onestà, onestà” dovrebbe essere il primo a sapere che i commercianti, in questo paese, sono – sul piano quantitativo – la figura sociale che contribuisce maggiormente al fenomeno dell’evasione fiscale. Non sono ovviamente quelli che evadono di più (in questo le grandi imprese multinazionali e la finanza sono decisamente imbattibili), ma rappresentano la platea più grande: circa 5 milioni di contribuenti a partita Iva. Indubbiamente i commercianti sono anche una di quelle categorie penalizzate dalla crescente concentrazione nella distribuzione intorno ai grandi gruppi multinazionali. Il commercio “di prossimità” ne viene stritolato, come avviene in altri settori. In secondo luogo non è possibile tacere sul silenzio dei commercianti su una delle loro maggiori voci di uscita: gli affitti. Il silenzio quando il “padrone” dei locali magari raddoppia l’affitto e la pretesa che quella uscita – una rendita, dovuta a interessi prettamente privati – debba essere compensata esclusivamente da una riduzione del contributo agli interessi pubblici (le imposte). Insomma cane non mangia cane, ma così la protesta sulle tasse diventa al massimo una furbata.

Del resto, non è un segreto per nessuno – da decenni – che le dichiarazioni dei redditi presentate da questa politicamente potente categoria sociale sono estremamente “improbabili”, diciamo così. Al limite del ridicolo o della presa per i fondelli, con i poveri gioiellieri costretti a sopravvivere con appena 17.000 euro annui. Meno di un bidello di scuola elementare, ma soprattutto meno dei loro stessi commessi!

Uno scandalo pluridecennale che ha costretto alcuni governi – sotto la pressione di un bilancio nazionale ormai supervisionato dall’Unione Europea – a inventarsi strumenti come redditometro e spesometro, con i quali i commercianti e altri professionisti furono obbligati a dimostrare di non aver raggiunto i livelli di reddito annuale presunti in base all’attività svolta o altrimenti a pagare una cifra certa.

Non siamo dei fan di questi strumenti intrusivi, naturalmente, ma in assenza di controlli capillari della Guardia di finanza o almeno del Pos per il pagamento elettronico nei negozi, in qualche misura garantiscono che anche i commercianti paghino un contributo minimo alle casse dello Stato.

Promettere di abolirli era la classica promessa di Silvio Berlusconi, ogni anno, tra un abbraccio e l’altro con il loro presidente eterno, Carlo Sangalli. Se ora è Di Maio a farla, vuol dire che il peso degli interessi sociali tipici del centrodestra ha la prevalenza nel determinare la linea di politica fiscale, e dunque economica, del governo.

Diventa insomma palese che questo esecutivo è la sintesi di tre diversi governi. Due interni e uno esterno.

Il primo governo, come detto, è l’espressione politica del blocco sociale di centrodestra (piccola e media impresa del Nord, commercianti, ma anche una quota di classe operaia che ha creduto nell’eliminazione della legge Fornero). Gente che vuole la flat tax o qualcosa che ci somigli molto, e cui viene ora promessa anche una “indifferenza fiscale” da parte dello Stato.

Il secondo governo è il classico “vaso di coccio”, ben rappresentato dai grillini. Le figure sociali qui interessate sono molto diverse (dalle masse di precari e disoccupati, specie meridionali, fino al mondo degli “startuppari” hi tech, a larghe fasce del mondo giovanile meno smagato), e il collante usato per tenerle insieme era per un verso la carota del reddito di cittadinanza, per l’altro il vasto armamentario “anti-kasta”, tutto manette, lotta all’evasione, ai privilegi, alle raccomandazioni, all’uso privato di beni pubblici, ecc.

Il terzo, e dominante, governo è quello imposto del capitale multinazionale, finanziario e non, rappresentato dai trattati europei e dalle relative istituzioni (Ue, Commissione, Bce, Fmi, ecc). Quest’ultimo fissa i confini, poco trattabili, in cui si può svolgere la lotta dei primi due per soddisfare almeno in parte il proprio blocco sociale.

Questo primo periodo, insomma, sarà caratterizzato da fibrillazioni continue – l’esempio principale resta il balletto dei governi possibili, da Conte a Cottarelli e di nuovo a Conte, nel giro di 48 ore – in cui sarà sempre la Ue a determinare il segno vero.

Non vedere questa compresenza, e i diversi profili, porta a immaginare una opposizione sociale e politica “come prima”, indifferenziata. Come se fossero tutti uguali e rappresentanti degli stessi interessi. Ma chi non riesce a vedere queste contraddizioni nel nuovo governo non può neppure combatterlo efficacemente.

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