Sembra che l'unico “risultato” del vertice del cosiddetto “quartetto normanno” di mercoledì notte a Berlino – conclusosi senza alcun documento scritto – sia stato l'assenso sulla messa a punto di una road map per l'adempimento degli accordi di Minsk. Dunque, come osserva ironicamente Leonid Krutakov su novorosinform: “una road map della della road map”, o “talks about talks”. L'accordo di Minsk del febbraio 2015 costituiva già di per sé una road map per cercare di giungere a una soluzione non militare della questione del Donbass e il piano tracciato lo scorso settembre dai Ministri degli esteri di Germania e Francia, Frank-Walter Steinmeier e Jean-Marc Ayrault, non faceva altro che ripetere quanto previsto per l'attivazione degli accordi di Minsk.
Così che il nuovo vertice “normanno” – il precedente si era svolto esattamente un anno fa e, dopo gli attentati ucraini in Crimea dello scorso agosto, Vladimir Putin aveva escluso ogni incontro con Petro Porošenko – non ha prodotto altro che una tabella di marcia per seguire la stessa tabella di marcia scandita due anni fa e che, a detta della maggior parte degli osservatori, è già morta e sepolta da un pezzo. E' evidente che nessun “formato normanno” (Berlino, Parigi, Mosca e Kiev) è in grado di costringere Porošenko a rispettare gli accordi di Minsk, tanto più che è sempre il principale convitato di pietra, Washington, a dettare lo schema delle mosse di Kiev. Le comparsate franco-tedesche per dimostrare una propria autonomia e un proprio ruolo non hanno effetti concreti sui golpisti ucraini. L'unico motivo che, nel febbraio 2015, aveva obbligato Porošenko a mettere anche la propria firma sotto quella lista di impegni che prese il nome di “Minsk 2” (il primo incontro dei quattro leader a Minsk c'era stato nel settembre precedente) fu la disperazione per la disfatta delle truppe ucraine a Debaltsevo.
E proprio su Debaltsevo si è concentrata una delle discussioni dell'incontro berlinese, oltre a quella, forse decisiva, sull'allargamento e l'armamento della missione Osce. Su quest'ultima questione è tuttora in corso un piccolo “giallo”, tanto che il sito del PC di Gennadij Zjuganov si chiede: “Chi esprime la posizione del Cremlino: Peskov o il Ministero degli esteri?”. Secondo il portavoce presidenziale russo Dmitrij Peskov, infatti, Putin avrebbe acconsentito all'armamento degli osservatori come preteso da Kiev, mentre vi si oppongono fermamente le Repubbliche popolari.
Di tutt'altro avviso il rappresentante permanente russo presso l'Osce, Aleksandr Lukaševič, secondo il quale non ci sono i prerequisiti per il dispiegamento di una missione armata Osce nel Donbass – che Kiev maschera dietro la formula di “pacchetto sulla sicurezza” – in aggiunta alla missione di monitoraggio già alle prese con notevoli difficoltà. "E' un'invenzione degli ucraini. Non ci sono presupposti per dispiegare tale missione. Non c'è la legge sulle elezioni e, in secondo luogo, non è chiaro cosa dovrebbe fare quella missione e, in terzo luogo, cosa più importante, Donetsk e Lugansk non accetteranno mai rappresentanti armati di organizzazioni internazionali ".
Il continuo riferimento ucraino alla “sicurezza” che, secondo Kiev dovrebbe precedere ogni azione prevista dagli accordi di Minsk, consiste nella pura e semplice pretesa di assicurarsi il controllo sulle frontiere con la Russia, oggi presidiate dalle milizie popolari, estendendo il ruolo e armando la missione Osce e solo dopo, forse, “concedere” elezioni locali nel Donbass, purché DNR e LNR ammettano a parteciparvi anche i nazisti di Pravyj Sektor. In realtà, se Merkel ha parlato dell'armamento degli osservatori Osce come di “una lontana prospettiva”, Putin ha riferito “l'allargamento della missione Osce” non al suo armamento, bensì all'accesso ai depositi di armi pesanti nelle retrovie (dove dovrebbero essere state ritirate da tempo, secondo il piano di Minsk), ma senza parlare di un qualche tipo di presenza armata.
Per quanto riguarda Debaltsevo, secondo Interfax, Mosca – e a maggior ragione le milizie popolari – è contraria al passaggio della città sotto controllo ucraino, mentre, nella visione di Porošenko, la sottoscrizione della road map del 12 febbraio 2015 (“Minsk 2”) avrebbe preso atto della situazione del 19 settembre 2014 (“Minsk 1”), allorché la città era occupata dalle forze di Kiev e, quindi, oggi, la situazione dovrebbe tornare a quella di due anni fa. Peccato per Kiev che siano ancora nella memoria di tutti le immagini del golpista N.1 che, quella notte del 12 febbraio, andava e veniva dalla sala della riunione per informarsi su come stessero le sorti delle migliaia di soldati ucraini accerchiati a Debaltsevo e solo quando fu chiaro che l'unica via di salvezza era il corridoio lasciato aperto dalle milizie per permettere la loro ritirata dalla sacca, all'astuto Petro non rimase altra scelta che firmare.
Intanto è in programma l'invito ad Aleksandr Zakharčenko a intervenire a una riunione a porte chiuse della Commissione esteri della Duma russa, per illustrare ai deputati la situazione nel Donbass. Situazione che si è fatta estremamente critica: “solo nell'ultima settimana e solo tra gli ufficiali comandanti” ha detto il membro della Commissione esteri Kazbek Tajsaev, “sono morti non meno di dieci miliziani. Ma muoiono persone ogni giorno e i combattimenti non cessano. L'attuale situazione sta bene solo all'Ucraina; non è possibile che soddisfi anche noi”.
A dispetto infatti di tutte le road map di Minsk e delle sedute diurne e notturne di Berlino, durante la giornata di ieri le truppe ucraine hanno continuato a martellare con artiglierie da 152 mm e mortai pesanti Jasinovataja, Gorlovka e l'area meridionale della DNR. Questo, nel momento in cui il “creativo” consigliere del Ministero degli interni ucraino, Zorjan Škirjak – colui che vede in tutto una “pista russa”: dalle bombe in Belgio per “distogliere l'attenzione mondiale dalla condanna di Nadežda Savčenko”, all'assassinio di Pavel Šeremet, a quello del comandante Motorola – dichiara papale papale che Kiev deve “liberare i propri territori” del Donbass con mezzi militari.
Ieri Novorosinform scriveva dell'arrivo di un'ottantina di mercenari italiani e francesi nell'area sotto controllo ucraino di Kramatorsk, mentre un centinaio di polacchi erano giunti un mese fa a Mariupol. Suona così del tutto in linea con altre “scoperte storiche”, sia ucraine che polacche, la dichiarazione comune ucraino-polacca-lituana, adottata ieri anche dalla Rada, sulla responsabilità dell'Unione Sovietica nello scoppio della Seconda guerra mondiale e la condanna “degli aggressori stranieri che tentarono di sopraffare la nostra indipendenza”, mentre si rende omaggio “alle forze nazionali lituane, polacche e ucraine della resistenza anticomunista e antinazista” e si sostiene “il rafforzamento della collaborazione dell'Alleanza Atlantica con l'Ucraina nel suo obiettivo strategico di essere ammessa nella Nato”.
In questo quadro, che ci si riunisca in Germania o in Bielorussia, c'è da attendersi pochi passi in avanti nella soluzione pacifica della crisi nel Donbass. Leonid Krutakov sostiene come se le stesse Berlino e Parigi si fossero impegnate a Minsk, nel febbraio 2015, solo per paura di una escalation bellica nel centro dell'Europa, abbiano oggi organizzato l'incontro di Berlino quasi solo a fini interni, per cercare di contrabbandare una parvenza di autonomia dagli USA. In realtà, afferma Krutakov, il vero mossiere di Kiev, come a suo tempo espresso con tre efficaci parole da Victoria-fuck-the-UE-Nuland, siede al di là dell'oceano e, dunque, l'unico formato possibile non è quello “normanno”, bensì quello “ginevrino”, tra Mosca e Washington. Si tratta solo di attendere, aggiungiamo noi, che gli imperialisti del Potomac si vedano costretti a retrocedere dalla strada della guerra.
Fabrizio Poggi
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