Uno dei capitoli del rapporto che il Comitato di esperti in materia economica e sociale presieduto da Vittorio Colao ha consegnato al Presidente del Consiglio riguarda “Istruzione, Ricerca e Competenze, fattori chiave per lo sviluppo”.
È evidente che, per un’uscita dalla crisi provocata dalla pandemia, scuola e università sono fondamentali. Nel comitato, però, di esperti di tali settori non ce n’era nemmeno uno.
Ciò non stupisce più di tanto. Infatti è evidente che da molti anni le decisioni in materia di scuola e università le prendono le grandi centrali economiche, le associazioni imprenditoriali, istituzioni come l’OCSE, la Tavola Rotonda Europea degli industriali, il FMI. Una situazione a cui hanno contribuito anche la politica e le raccomandazioni dell’Unione Europea a cui tali organismi fanno riferimento.
Il Comitato nominato dalla Presidenza del Consiglio era quindi una rappresentazione in sedicesimo di tale scenario, dove sul tema del sistema formativo si sono esercitati economisti, manager d’impresa, grandi operatori della finanza come lo stesso Colao, per giungere a una conclusione scontata: la formazione deve essere al servizio delle imprese e della competitività economica.
Per la verità, il rapporto del Comitato parla poco di scuola e molto più di università, probabilmente più attrattiva per le imprese. Per quanto riguarda la scuola, ci si limita a rilevare che i risultati dei test PISA collocano la nostra scuola al di sotto della media europea. Un dato che, citato in modo generico e senza un’analisi approfondita, non ha significato e può distorcere la realtà.
Tre sono gli assi su cui si orienta il rapporto della Commissione: la compartecipazione, anche economica, tra pubblico e privato, la sottomissione dei programmi di studio e della ricerca alle esigenze delle imprese, la valutazione della ricerca e la competizione.
Nel lamentare gli scarsi fondi a disposizione della ricerca, la Commissione lamenta infatti la scarsa compartecipazione tra pubblico e privato. È chiaro che il timore che una ricerca finanziata dai privati possa essere orientata solo verso i loro interessi non tocca la Commissione, perché anzi è ciò che essa desidera.
L’università infatti, secondo gli orientamenti del documento deve ricercare e formare per le aziende e superare il mismatch (lo scostamento, il disallineamento) “tra l’offerta di competenze prodotte dal sistema formativo e la domanda del tessuto socio-economico”. In altre parole, ciò che si vuole è che l’Università lavori per le imprese e che dunque i profili di formazione siano quelli che servono loro.
Non è un caso che il documento, a proposito dei dottorati di ricerca riprenda una proposta già presente in diversi documenti della Confindustria in cui si parla di “dottorati d’impresa”. Nel caso della Commissione Colao si parla di dottorati che mirino “profili più specialistici e coerenti con le esigenze del mercato del lavoro (applied PhD)”.
Basta, dunque, con gli inutili dottorati su Dante Alighieri o sulle opere di Salieri, si formino invece menti manageriali che abbiano studiato quanto serve alla produzione.
Collegato a questa impostazione è il discorso sulle competenze e il “diritto alle competenze”. Si badi, la Commissione non parla di diritto allo studio, come possibilità per tutti di apprendere e di emanciparsi ma, appunto, di diritto alle competenze, con un taglio quindi decisamente orientato all’acquisizione di quanto serve per un inserimento diretto nel mondo produttivo con un “orientamento alle scelte precoce e multidisciplinare” e con la creazione di una piattaforma Education-to-employment attraverso la quale, testualmente, “le aziende possano sviluppare corsi di formazione sulla base delle competenze di cui hanno bisogno, sia gratuiti sia a pagamento”.
In pratica, avete diritto a essere quello che noi vogliamo. La sconcertante brutalità liberista del documento ha il vantaggio di essere chiaramente comprensibile.
Naturalmente, a chiudere il cerchio è la valutazione della qualità della ricerca, che dovrebbe differenziare tra loro (in modo smart, ma che significa?) le università. In pratica, si lamenta che le università italiane siano troppo poco gerarchizzate e i ricercatori migliori troppo dispersi nelle varie sedi.
Ciò sarebbe la causa, secondo la Commissione, dell’assenza delle università italiane dalle classifiche internazionali dei migliori atenei, che le renderebbe poco appetibili per i finanziamenti dei privati (venture capital).
Per risolvere questo problema, si dovrebbe promuovere la creazione di poli d’eccellenza capaci d’attrarre i migliori ricercatori e, naturalmente, una buona quantità di capitali privati. Poco importa alla Commissione se questo porterà alla creazione di poche università privilegiate e di molte altre con scarsi mezzi e poca ricerca, alle aziende alla fine serve che ci siano dei poli efficienti al loro servizio. Di sicuro, tutto ciò porterà a una competitività accentuata tra gli atenei, coerente con la logica del capitalismo liberista.
Esiste una straordinaria analogia tra quanto la commissione Colao propone per l’università e ciò che, progressivamente, è stato fatto nella sanità. Questi due settori vanno quasi sempre di pari passo: il concetto di aziendalizzazione di attività che sono servizi pubblici fondamentali e non aziende, la compenetrazione di pubblico e privato, la creazione di eccellenze e la competitività.
Tutti questi sono i progetti che hanno portato allo sfascio la sanità pubblica in Italia e che stanno conducendovi anche il sistema formativo.
Non è, al momento, credibile l’ipotesi che le proposte del Comitato d’esperti possano essere tramutate direttamente in leggi. Tra l’altro, è evidente che il governo e il parlamento possono nominare dei consulenti, ma sarebbe inusitato e incostituzionale che l’organizzazione e la gestione delle attività economiche e sociali fosse affidata a un comitato d’esperti.
Tuttavia, è interessante analizzare le proposte contenute nel documento per decifrare alcune linee progettuali sulle quali governo e Confindustria si orientano per il prossimo futuro. In effetti, è difficile distinguere le linee guida del documento del Comitato da quelle che leggiamo nei testi confindustriali.
Per quanto attiene alla scuola e non all’Università, si sa ancora poco di quel che accadrà domani. Per quel settore, è competente un ennesimo comitato d’esperti, presieduto da Patrizio Bianchi, già assessore all’Istruzione dell’Emilia. Di cosa stia facendo questo comitato si sa poco, poiché il documento di sessanta pagine che ha consegnato alla ministra Azzolina non è stato reso pubblico.
Tuttavia, in una intervista a Radio Tre, Patrizio Bianchi ha dichiarato che il perno del lavoro di tale Comitato è il rilancio dell’autonomia scolastica, introdotta dalla legge Bassanini del 1997, poiché ciò significherebbe legare le scuole alle realtà territoriali ed eliminare delle “rigidità” che rendono difficile la vita delle scuola.
Purtroppo, il prof. Bianchi non vuole ammettere che l’autonomia scolastica ha fornito il grimaldello per le riforme della ministra Gelmini, per l’aziendalizzazione delle scuole e per la loro messa in competizione e infine per i diversi ingressi del privato, soprattutto nella secondaria superiore.
Quanto alle “rigidità”, vedremo e valuteremo perché non vorremmo che ciò possa significare ulteriori implicazioni con il privato, esternalizzazioni di servizi a cooperative del terzo settore e attacco ai diritti sindacali.
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