Si moltiplicano gli allarmi, gli avvertimenti, le previsioni plumbee. Per quanto prevedere il futuro sia diventato un esercizio di fantasia, alcune cose si possono certamente dire.
Fin qui la caduta dell’occupazione e dei redditi, specie quelli più bassi, è stata relativamente contenuta con una dose massiccia di ammortizzatori sociali (cassa integrazione, sussidi di ogni genere ed entità, ecc). Strumenti che ovviamente hanno un costo proporzionale alla platea degli interessati (milioni di lavoratori e imprese) e per definizione impossibili da mantenere a lungo.
Il governo Conte sta meditando la loro estensione fino al 31 dicembre (la scadenza attuale è ad agosto). Ma è chiaro che si tratta solo di un rinvio, che riguarda però il grosso del sistema produttivo e commerciale italiano.
Nel frattempo non è che tutto sia rimasto in sospeso. Le aziende hanno licenziato lo stesso, eliminando pressoché completamente i contratti a termine col semplice meccanismo del non rinnovo.
Già ad aprile 2020 il numero degli occupati era diminuito di 274mila unità, una variazione mensile mai vista negli ultimi decenni. Rispetto allo stesso mese del 2019, il calo è di 497mila occupati. Mancano ancora i dati di maggio, ma certo non faranno segnare una situazione migliore.
La fine degli ammortizzatori sociali – è una certezza dichiarata dalle stesse imprese, non una “previsione pessimistica” – permetterà alle aziende di liberarsi della forza lavoro in eccesso rispetto a ordinativi di produzione in netto calo.
In più, come si può capire dall’insistenza di alcuni “ideologi del capitale” come Tito Boeri, ci sarà il disperato tentativo di riguadagnare margini di profitto sostituendo parte dei lavoratori a tempo indeterminato con altri a termine. Meno potere contrattuale, minore salario, niente diritti…
E’ importante sottolineare però quali sono già oggi le figure sociali che pagano il prezzo più alto alla crisi da pandemia. Giovani, donne, lavoratori e lavoratrici precarie, persone di origine straniera, residenti nel Meridione, ecc, già prima dell’epidemia boccheggiavano.
In pratica, è lo spezzone centrale del “blocco sociale” che sarà più sollecitato ad entrare in conflitto per la sopravvivenza. Perché un conto è la povertà, i redditi bassi, l’assenza di servizi sociali decenti. Un’altra è il nulla assoluto.
L’annuncio di questo futuro prossimo è ben sintetizzato dalle oscene proposte di lavoro pubblicizzate qualche giorno fa tramite post sui social: “Dalle 9 alle 19, orario continuato, il sabato solo dalle 9 alle 13, la domenica dalle 9 alle 20. E’ un full time. Il primo mese è di prova, purtroppo non rimborsiamo gli spostamenti. Poi successivamente sono 380 euro mensili”.
Un rapido calcolo permette di quantificare: 1,3 euro l’ora.
Il commento del “titolare” al messaggio di rifiuto è invece indicativo del contenuto ideologico che sarà dispiegato nei confronti di chi chiede semplicemente un salario decente: “Evidentemente non hai voglia di lavorare”.
Fin qui siamo alle previsioni semplici, quelle riguardanti la normale dinamica della lotta di classe quotidiana.
Queste vanno però inserite, giocoforza, nelle dinamiche continentali che fanno da cornice e “linee guida” per qualsiasi scelta governativa nazionale.
Il semestre europeo a guida tedesca è stato infatti aperto da Angela Merkel con un messaggio chiaro al nostro Paese: “i fondi del recovery fund saranno vincolati a riforme”. In un attimo, tutte le litanie degli europeisti di casa nostra (“non ci sono condizioni neanche nel Mes”) sono state stracciate senza pietà. Così come le illusioni degli euro-cauti alla Cinque Stelle (“puntiamo al recovery fund perché è senza condizioni”).
In questa Unione Europea non ci sono regali per nessuno, neanche – o soprattutto – in una crisi di dimensioni sistemiche.
Risulta peraltro abbastanza chiaro, dai resoconti che arrivano da Bruxelles e Berlino, che l’establishment europeo punta tutto su questo semestre a guida Merkel per ridisegnare una baracca che scricchiola da tutte le parti e rischia di crollare sotto i colpi di una crisi di cui ancora non si ha la misura esatta. Solo per ricordare un’incognita decisiva: quale sarà la portata della “seconda ondata” della pandemia? Da zero a 100 cambia parecchio…
I nodi della partita, a quel livello, sono molti, e tutti parecchio ingarbugliati. Anche volendo accettare soltanto quelli recepiti da Repubblica, abbiamo una lista rognosissima: “il Recovery Fund, il nodo delle politiche migratorie, la protezione sociale attraverso la disoccupazione unica e il salario minimo, la re-europeizzazione delle produzioni di determinati beni che si sono rivelate importanti durante la pandemia”.
Sembra scontato che le centinaia di miliardi in ballo – nessuno “regalato” – saranno “il grasso e l’olio” con cui eliminare attriti e resistenze, per ottenere quelle “riforme” che debbono spianare gli ostacoli alla marcia (non più trionfale, anzi, molto affannata) del capitale multinazionale europeo. Se volete conoscere quelle “riforme” nei dettagli, chiedete ai greci…
Un doppio movimento a strangolare le condizioni di lavoro e di vita della parte più grande e più debole delle popolazioni europee, a cominciare dai Paesi mediterranei. A livello continentale la pressione feroce della “borghesia multinazionale europea”, a livello “locale-nazionale” quella di un’imprenditoria minore in preda al panico (quella che offre 380 euro al mese per 65 ore di lavoro alla settimana).
E’ scontato che il clima sociale non sarà più tanto pacificato, né facilmente pacificabile. Ad autunno ci vediamo nelle strade.
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