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L’era Draghi. Altro ciclo, altro gioco

Un ciclo si è chiuso, in Italia. L’incarico a Mario Draghi di formare un governo mette fine al tentativo di creare una gestione politico-economica del Paese che fosse coerente con le indicazioni vincolanti dell’Unione Europea, ma utilizzando le “risorse” endogene, ossia la “classe politica” nazionale.

Questo è d’altronde lo schema istituzionale previsto dai trattati europei, che assumono classicamente la forma del “vincolo esterno”. Uno schema in cui ogni singolo paese deve autonomamente ridisegnare la propria struttura economica e istituzionale secondo le “linee guida” che la Commissione Europea (il “governo” della Ue) controlla minuziosamente, co-gestendo le politiche di bilancio di tutti gli Stati membri.

Per la quarta volta negli ultimi 30 anni questo schema è stato rotto. Le difficoltà nel costruire stabili maggioranze di governo in grado di mettere a punto “riforme” altamente impopolari – da quella sulle pensioni a quelle sul mercato del lavoro, dalla distruzione della sanità pubblica a quella di scuola ed università altrettanto pubbliche, ecc – si è sempre tradotto in rissosità politica, frammentazione partitica, crisi di governo.

E ogni volta la risposta temporanea è stata: un governo tecnico, guidato da uomini formati nella Banca d’Italia e/o nelle istituzioni economiche sovranazionali.

E’ stato così con il governo Ciampi, nel 1993. Non a caso pochi mesi dopo la firma degli accordi di Maastricht (con annessa esplosione di Tangentopoli e fine della “Prima Repubblica”), che hanno cambiato per sempre la governance politico-economica continentale istituendo “la gabbia” entro cui ogni scelta di governo, e dunque di spesa. Carlo Azeglio Ciampi e aveva appena concluso il mandato da governatore della Banca d’Italia.

E’ stato così nel 1996, con la caduta del primo governo Berlusconi e l’incarico a Lamberto Dini, ex direttore generale di Bankitalia e ministro dell’economia proprio con il Caimano.

E’ stato così, alla fine del 2011, con Mario Monti, ex presidente della Bocconi e due volte Commissario Europeo, prima al mercato interno e poi alla concorrenza.

Oggi tocca a Mario Draghi. Ma con tutta evidenza non si tratta di un semplice replay, ma di un passo avanti ed in alto nella scala che porta al commissariamento della gestione di un Paese ancora inserito tra i primi dieci del mondo industrializzato.

Dalla caduta del governo Monti (2013) alle elezioni del marzo 2018 si era avuta la crescita inarrestabile dell’”euroscetticismo” a livello popolare, a causa dell’evidente rapporto tra peggioramento delle condizioni di lavoro e di vita e le “riforme”, imposte con lo slogan “lo vuole l’Europa”.

Il tentativo di gestire quella torsione antipopolare secondo una diversa narrazione – “dobbiamo fare le riforme perché servono all’Italia, non perché ce lo chiede qualcuno” – affidato ai governi Letta-Renzi-Gentiloni, era clamorosamente fallito, provocando una reazione che soltanto il Movimento 5 Stelle, e in parte minore la Lega, erano poi riusciti ad incanalare.

Quell’”euroscetticismo” era quindi diretto e “narrato” da due forze espressione – fondamentalmente – di due parti diverse della “piccola e media borghesia” italiana: quella delle “professioni” vecchie o nuove e dell’antico mondo delle piccole-medie imprese del Nord, che si trascinavano dietro anche la microimprenditoria commerciale e turistica.

Due strati sociali privi di proiezione internazionale, di visione generale, molto in basso nella gerarchia dei capitali che, nel frattempo e sull’onda della perdurante crisi economica esplosa nel 2008, andavano decisamente prendendo la via della concentrazione e della finanziarizzazione.

Ma il consenso popolare andato a quelle due forze politiche impediva di proseguire linearmente sulla strada della “riforma neoliberista dell’Italia”, richiesta dai capitali maggiori e “interpretata” dall’Unione Europea.

Era stato chiaro con l’affidamento – durato un solo giorno – dell’incarico a Carlo Cottarelli, che ha passato poi i successivi tre anni nei talk show per “tenere caldo” il proprio nome come possibile “risorsa per le emergenze”.

Ci sono voluti tre anni per “tritare” quei due insiemi sconclusionati di bisogni “populisti” e progetti balzani, conditi da conati giustizialisti e pulsioni razziste, ma fondati su interessi troppo limitati per esprimere direzione politica di alto profilo e al tempo stesso battagliare seriamente con il “vincolo esterno”.

L’establishment “europeista”, nazionale e continentale, ha alternato bastone e carota, intimazioni (accompagnate da impennate dello spread) e interventi calmieratori della Bce, dividendo e scomponendo correnti e piccole ambizioni, frammentando e direzionando nel vicolo cieco in cui, poi, il solito serial killer è potuto intervenire decretando la crisi politica.

Il ciclo dell’euroscetticismo piccolo-borghese si è chiuso, dunque.

Ma proprio il colpo di maglio assestato a quellinconsistente espressione politica del “malessere sociale” può diventare un problema e un ostacolo alla piena affermazione del progetto che l’ha giustificato.

Non si governa contro il popolo, recita una proverbio millenario. Dunque serve che alla forza, manifestata con l’azzeramento di questa “classe politica” e la nomina di Draghi, si accompagni un consenso.

Lega e Cinque Stelle – rimanendo interi o soffrendo scissioni – devono semplicemente arrendersi e dare supporto parlamentare all’esecutivo del capitale finanziario multinazionale. Quello cui si sono malamente “opposti” in questi dieci anni, quello che dovrà portare a termine la grande razzia che è poi la sostanza economica del Recovery Fund.

Il compito di Draghi è dunque almeno duplice: realizzare il “piano di riforme” e creare un primo credibile nucleo della “classe politica” che dovrà, dal 2023 in poi, gestire il nuovo ordine in questo Paese.

Le variabili e le incertezze sono però infinite. Ottenere tutto questo mantenendo una totale “pace sociale” sarà piuttosto difficile, specie quando la suadente parola “riforma” assumerà le sembianze pratiche del solito “lacrime e sangue”.

Di certo, non saranno i resti delle due formazioni ex-”euroscettiche” a potersi candidare per rappresentare quel “nuovo malessere”.

Il gioco si fa duro, si scriveva ieri. C’è qualcuno disposto a giocare questa partita?

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1 Commento


  • Ernesto Sattaneo

    Noi non abbiamo ricette per l’osteria dell’avvenire e del presente…..
    e mentre si scrive in sottofondo una canzone di

    Giorgio Gaber: Un’idea un concetto….

    … Ad una conferenza di donne femministe
    si parlava di presa di coscienza e di liberazione
    .. tutte cose giuste ma per un’altra generazione…. ??

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