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E’ restaurazione. Più contro il popolo che contro il populismo

In soli dieci giorni l’orizzonte italiano si è rovesciato. Eravamo in una situazione terribile, con un governo “incapace di fare le riforme”, una classe politica al di sotto di ogni considerazione, categorie commerciali in rivolta, un caos di messaggi “comunicativi” contrastanti, nessuna luce in fondo al tunnel, se non quella del treno che ci stava arrivando addosso.

Il mondo occidentale era nelle stesse condizioni. La pandemia galoppante stava lì a dimostrare che il neoliberismo in versione tedesco-anglossassone – quello che voleva “convivere con il virus” per mantenere in piedi l’economia – non reggeva il confronto con il “socialismo con caratteristiche cinesi” e neanche con le economie capitalistiche del Pacifico, che avevano limitato i danni economici (o addirittura erano cresciute, come Pechino) preoccupandosi di salvare la popolazione impedendo o tenendo sotto controllo i contagi.

Un modo sull’orlo dell’abisso, insomma, segnato dall’assalto suprematista a Capitol Hill, paradigmatico dei rischi che stavano precipitandoci sulla testa.

Poi la luce, la calma dopo la tempesta (ma non era prima?), il roseo futuro che ci attende con Biden alla casa Bianca e, soprattutto, con Mario Draghi a Palazzo Chigi (subito) e poi al Quirinale (tra un anno).

Chiaro che questa “calma” esiste solo nella comunicazione del media mainstream, mai come oggi “voce del padrone”. L’informazione, il giornalismo, non abitano più lì…

In quella cerchia è avvenuta istantaneamente la stessa “conversione”che ha stravolto i cosiddetti partiti. C’è ora un solo Partito Unico Liberale, che incarica non a caso i fascisti alla Meloni di fare l’”opposizione della corona” (con lo spazio riservato un tempo ai giullari di corte). E c’è un solo megafono mediatico a reti e testate unificate.

E c’è un solo messaggio: “è l’ora dei competenti, è l’ora del merito”. I più avvezzi alle questioni ideologiche sintetizzano così: “è la fine del populismo”. I più sguaiati infieriscono contro l’”uno vale uno”, indicando per nome e cognome gli “scappati di casa” che hanno avuto “il culo” di entrare in Parlamento con appena qualche decina di preferenze.

Si respira – diciamolo apertamente – un clima di restaurazione. Come all’inizio degli anni ‘80, dopo i 33 giorni alla Fiat e passando cinque anni dopo attraverso il referendum (perso) sulla scala mobile. La parola uscì di bocca a Gianni Agnelli, monarca di quel tempo.

Nella foia della restaurazione le parole stanno sempre per qualcos’altro. E’ così anche per l’odiato populismo.

Da talk show ed editoriali si può notare che viene fatta una distinzione netta. C’è quello della Lega, sguaiato e parafascista, ma accettabile e accettato perché espressione del mondo delle piccole e medie imprese, fino al commercio e al turismo. Un populismo padronale, votato da “gente perbene, che lavora, dal Nord produttivo” (dimenticando di proposito i voti rimediati grazie alle cordate para-malavitose, al sud come in Brianza…).

E si capisce che il vero bersaglio, fin dall’inizio, è stato il populismo grillino, un populismo da partite Iva, piccoli professionisti metropolitani, “autoimprenditoria” autosfruttata, ecc. Un mondo a metà strada tra il lavoratore dipendente tout court (occupato e disoccupato, pensionato o precario) e il sogno della “piccola impresa”.

Un mondo culturalmente sperduto nella complessità contemporanea, fatto di individui che non riescono – per la posizione assunta nel processo produttivo, non per limiti culturali – a ricostruire l’insieme delle relazioni sociali che stanno a fondamento della produzione complessiva, della politica, delle istituzioni (oltretutto complicate dalle dipendenze rispetto alle entità sovranazionali).

Un piccolo mondo che aveva dato vita (breve) a una piccola ideologia politica, in cui – in fondo – per far andar bene le cose bastava un po’ di “onestà” e “legalità”, di mano dura con delinquenti e corrotti (senza grandi distinguo tra reati da poveracci e pratiche di potere), un po’ di reddito di cittadinanza per i più sfortunati, ecc. E un’organizzazione in cui la decisione collettiva poteva essere affidata a una “piattaforma” rispetto alla quale – appunto – “uno vale uno”.

Abbiamo spesso affondato il bisturi della critica in questa ideologia da quattro soldi. Prevedendone – era molto facile, lo ammettiamo – il tracollo in breve tempo.

Non è un caso che il tracollo sia avvenuto alla prova del governo. Quando bisogna fare quel che si pensa, trasformare le idee (le illusioni) in azioni e si va a sbattere contro la durezza dei fatti, la complessità del reale, l’esistenza di avversari che hanno una visione e una dimensione internazionale, una strategia e un’infinità di tattiche.

Uno vale uno” diventa ridicolo quando esci dalle discussioni “di principio” e devi nominare un ministro o qualunque altro ruolo. Esperienza e capacità diventano indispensabili, mentre per votare non servono.

Era successo lo stesso anche “a sinistra”, addirittura tra i “comunisti”, quando nella Rifondazione bertinottiana divenne dominante il motto “ognuno dice la sua”. E anche lì avevamo affondato il bisturi critico, individuando in una pratica presuntamente “democratica” il tumore dell’individualismo che rifiuta e impedisce di creare collettività.

Non ci stupisce, insomma, che l’offensiva del mainstream contro quel tipo di “populismo” sfrutti i punti debolissimi di quell’ideologia per affermare – al contrario – la “santità” del dominio dei “competenti”.

Ma si capisce anche che quell’odio per il “populismo” vela appena, e molto malamente, l’odio per il popolo. La classe dirigente, in questo momento e attraverso l’imposizione di Draghi alla guida di un governo senza opposizione – e senza alcun mandato elettorale, si sarebbe detto fino a dieci giorni fa – può finalmente rivendicare di aver diritto al potere assoluto sulla massa dei cittadini, “sulla plebe”, che deve restare sotto il tallone e non fiatare più.

E’ il modo in cui si concretizzano i pensosi editoriali sull’”epistemocrazia” (il “governo dei filosofi”, diceva Platone) o esplicitamente sull’”aristocrazia” (Eugenio Scalfari, ma non solo).

E ovviamente il “merito” e i “competenti” di cui si tessono le lodi sono sempre e solo funzionari del “pensiero unico neoliberista”, attivi a Bruxelles o nella Banca d’Italia, in Confindustria o alla Bocconi, ecc.

Sono “competenti” che stanno dalla parte giusta, quella del capitale finanziario multinazionale. E non potrebbe essere altrimenti, se si sta formando il primo governo guidato direttamente dalla Troika (Draghi quello è stato, negli ultimi dieci anni).

Siamo troppo cattivi? Non ci sembra proprio. E facciamo un esempio concreto: la Grecia del primo governo Tsipras, nel 2015, aveva un ministro dell’economia mondialmente riconosciuto come “molto competente”. Yanis Varoufakis era in grado di capire cosa “gli organismi sovranazionali” – a partire dall’Unione Europea, dalla Bce e dal Fmi (la Troika, appunto) – pretendevano dal suo Paese. Ma, proprio per questo, “ostacolava con competenza”. Dunque andava rimosso e sostituito, in un governo addomesticato.

Naturalmente, quest’aria di restaurazione cambia anche “l’ambiente” in cui noi agiamo, i modi per costruire mobilitazione e creare una rappresentanza politica, un'”alternativa di sistema”.

La stagione “populista” è effettivamente finita e dunque anche molte formulazioni nate in quel clima oggi diventano inservibili, persino sul piano della semplice “comunicazione”. E’ il caso di prenderne atto molto rapidamente, perché la stagione che si va aprendo non lascia margini per illusioni e giochi di parole.

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