Sulle questioni rilevanti, il governo Draghi procede come un panzer. Intendiamoci: il vero governo Draghi è quello dei “tecnici” scelti direttamente dal Grande Capo. Poi c’è il sub-governo fatti di sottobosco dei partiti, che s’accapiglia per questioni secondarie o comunque “a gratis”, che non comportano modifiche alle voci di spesa.
In questi giorni, il governo vero sta imponendo la riforma della giustizia così come indicato dall’Unione Europea. Per essere più persuasiva, la stessa Unione minaccia di togliere all’Ungheria del fascio-omofobo Orbàn parte dei miliardi destinati dal Recovery Fund a quel paese.
Al di là del ribrezzo che fa il caudillo magiaro, in questa mossa c’è un intento pedagogico generale: su qualsiasi questione l’Unione deve prevalere rispetto alle scelte nazionali. Può essere su problemi di diritti civili – e allora il pubblico progressista è invitato a far scattare l’applauso – ma quasi sempre è su temi vitali dell’economia, e dunque dei diritti sociali (al welfare, la sanità, il salario, le norme sul lavoro, i contratti, ecc). E allora una persona dabbene non può che incazzarsi.
Come abbiamo provato più volte a spiegare, ci sono diritti che non implicano costi per gli Stati o per imprese, e allora lì si può anche largheggiare in vedute moderne. E diritti che implicano una diversa redistribuzione sociale della ricchezza annualmente prodotta. In quei casi, senza sorprese, l’Unione Europea si dimostra totalmente retrograda e reazionaria. Quanto e più dello stesso Orbàn…
Così, mentre sulla destinazione dei fondi del Recovery Plan non vola una mosca, per non disturbare il manovratore, sul ddl Zan lo strepito è massimo. E una legge tutto sommato moderatamente civile diventa il terreno su cui si cerca di mantenere una parvenza di “alternatività” tra forze che sostengono – in assoluto silenzio e obbedienza – lo stesso governo, la stessa linea di politica economica, lo stesso “disegno riformatore” reazionario e lo stesso “vincolo esterno” continentale.
Un pizzico di verve in più è portato dalla “riforma della giustizia”, anche qui su input diretto dell’Unione. Tema sicuramente complesso, visto che si tratta di inserire modifiche importanti in un impianto giuridico altamente sfasciato – quanto a princìpi costituzionali – da decenni di interventi “emergenziali”, ad hoc, “eccezionali”.
Basta però ricordare che per l’Unione la parte più importante riguarda la giustizia civile – su cui, non stranamente, regna un silenzio di tomba – perché il business internazionale abituato al just in time non può certo attendere i tempi secolari dei tribunali civili italiani in fatto di fallimenti, fusioni, risarcimenti, ecc.
Così tutta l’”ansia politica” viene indirizzata sull’istituto della prescrizione – che esiste solo nella giustizia penale – e sul quanto anche questa volta dovranno cedere i Cinque Stelle, alfieri di quel “testo Buonafede” (l’ex ministro della giustizia) che era stato letteralmente dettato dall’ala ultrareazionaria delle Procure (ossia dagli uffici della pubblica accusa, o “inquirente”).
L’istituto della prescrizione è un normale principio di civiltà giuridica, applicabile solo nel “penale” perché investe direttamente la libertà delle singole persone. Un principio che stabilisce, a seconda della gravità del reato, un termine massimo per arrivare alla condanna, altrimenti il processo si annulla.In pratica, non si può tenere qualcuno in galera a vita senza neanche una condanna formalmente erogata.
Lo stesso principio vale anche per la possibilità di far eseguire la condanna, se “il reo” si è reso latitante per un tot di anni (anche qui in proporzione alla gravità del reato e ad esclusione di quelli punibili con l’ergastolo).
E si è visto plasticamente, nel caso degli esuli in Francia che ora questo governo vorrebbe incarcerare, quanta sia la distanza tra un paese che cambia le regole secondo la convenienza politica contingente (il nostro, purtroppo) e uno di normale “civiltà giuridica europea” (la Francia), lanciato però verso il burrone in cui è già precipitata l’Italia (e tutta la Ue, vista la cancellazione dell’immunità parlamentare europea per gli indipendentisti catalani eletti a Strasburgo).
Un principio del resto perfettamente in linea col dettato costituzionale delle origini (la Resistenza antifascista), secondo cui il passare del tempo (decenni, non mesi) fa scemare l’interesse pubblico ad eseguire una condanna.
Ogni principio deve però fare i conti con la struttura concreta esistente per realizzare quello scopo. E l’organizzazione della giustizia in Italia tutto è meno che una macchina efficiente. Qualsiasi processo può durare decenni (specie nel “privato”) e dunque l’abolizione pura e semplice della prescrizione implicherebbe un allungamento dei processi stessi (mentre l’imputato magari invecchia in galera). Perché il giudice non avrebbe neanche quell’incentivo ad “arrivare al punto”.
Ovvio che esista anche la giusta contraria, ossia le pratiche dilatorie degli avvocati per “arrivare alla prescrizione” ed evitare un sicura condanna dell’imputato (i processi a Berlusconi sono un manuale, in tal senso).
Ma chiunque sia passato almeno una volta per i tribunali sa che i tempi biblici dei processi – per l’umanità “normale”, quella che non ha milioni da spendere in avvocati di grido – dipendono fondamentalmente da disorganizzazione, distrazione, disinteresse, della magistratura. A meno che un certo processo non comporti una visibilità mediatica di prim’ordine o non sia “incentivato” dallo Stato (tutti i processi “di guerra”, ossia “antiterrorismo”, antimafia, ecc).
E chiunque abbia fatto quell’esperienza sa che la maggior parte dei magistrati è “avvicinabile”, “sensibile” alle lusinghe della politica o degli affari; e che dunque gli avvocati considerati migliori sono quelli che di solito vanno a cena o in vacanza con i giudici…
Detto questo, senza dilungarsi ancora, emerge con chiarezza che le esigenze europee di riforma della giustizia non hanno nulla a che vedere con l’auspicabile rapidità e obbiettività dei processi, e molto con la creazione di un ambiente legale che dia certezze alle imprese e alla finanza. Nessun “grande imprenditore”, men che mai una multinazionale, vuole essere impelagato nel caos di un suk mediorientale che però può decidere sulle sorti degli affari.
Dal punto di vista europeo, insomma, al vero governo Draghi è stato dato in subappalto il compito di creare “il contesto giusto” perché quel livello di imprenditoria possa scorrazzare senza troppi intoppi.
Sia che si tratti di mercato del lavoro, diritti sindacali e sociali, limiti giuridici e garbugli giudiziari. Un lavoro complesso che si fa più agevolmente nell’oscurità e nel silenzio, fuori dall’occhio dei media e dell’attenzione pubblica.
Che va dunque distratta con spettacoli poco costosi…
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