Da “terrorista” super-ricercato ad alleato fedele o leader con cui comunque discutere… è un attimo.
La lista, nella storia, è praticamente infinita. Ma ogni volta riesce a sorprendere la massa altrettanto sterminata di servi o semplici cretini che per anni hanno bevuto fideisticamente la favoletta sui “mostri” indicati dal padrone politico (nel nostro caso il governo degli Stati Uniti, seguito da tutti gli “alleati” scodinzolanti).
Vale per gli “opinionisti” e i semplici cronisti, costretti ad aggiornare nell’arco di 24 ore sia i nomi delle organizzazioni che quello dei singoli “mostri”. Vale a maggior ragione per i telespettatori passivi che fanno da vasca di raccolta del liquame mediatico trasmesso dagli schermi e dai giornali.
“Al Joulani” – al secolo Ahmed al-Shareh – e la sua Hay’at Tahrir al Sham stanno ricevendo il trattamento di “demo-washing” più rapido che si ricordi. La filiale di Al Qaeda per la Siria era già stata ribattezzata “i ribelli” al tempo della prima conquista di Aleppo, nel 2011, ma gli schedari e le definizioni erano rimasti molto più prudenti. In fondo, come facevi a fidarti di chi aveva buttato giù le Torri Gemelle facendo 3.000 morti?
Ma il tempo e il nemico cambiano spesso. Così il fatto di combattere Assad, e poi abbattere il suo regime, ha pian piano “sbiancato” e “angelicato” l’immagine di questo signore della guerra.
Gli Stati Uniti erano rimasti comunque sul chi vive (Al Julani si era distinto anche in Iraq, finendo per cinque anni in prigioni Usa), lasciando sempre ben visibile il “wanted” nei suoi confronti, e soprattutto la taglia da 10 milioni di dollari sulla sua testa.
Che è ancora valida, in questi giorni.
Poi, certo, ai piani alti stanno cercando di rimediare… L’emittente “Nbc News”, rende noto infatti che sono in corso discussioni nell’amministrazione Biden per “creare un percorso che possa consentire al mondo di interagire con il nuovo governo” in Siria. Insomma per rimuovere velocemente il suo nome e quello di Hts dalla “lista nera”.
Niente di nuovo, si diceva. Era accaduto anche con Menachem Begin, leader dell’Irgun (organizzazione terroristica sionista), mente e braccio dell’attentato che distrusse l’ambasciata britannica a Roma (1946), nonché il King David Hotel di Gerusalemme (90 morti, nel 1946).
Era accaduto anche con personaggi decisamente migliori, come Nelson Mandela e Yasser Arafat, Pepe Mujica (ex dirigente dei Tupamaros poi presidente dellUruguay) e Dilma Roussef (ex guerrigliera poi presidente del Brasile), Patrick McGuinness (capo militare dell’Ira e poi parlamentare irlandese protagonista della trattativa con la Gran Bretagna insieme al “capo politico”, Gerry Adams).
Quindi quale lezione dobbiamo obbligatoriamente trarre da queste e altre centinaia di riscritture dell’identità politica?
Intanto che il termine “terrorismo” non ha alcun significato condiviso. Ogni combattente, di una qualsiasi causa, è “terrorista” per qualcuno e un “santo liberatore” per qualcun altro. Detto in termini generali: “terrorista” è sempre e solo “il nemico”. E’ un sinonimo, non una definizione…
E lo resta finché non vince. Allora diventa un soggetto con cui bisogna fare necessariamente i conti e passa perciò dalla lista dei “terroristi” a quella degli “statisti”.
Se perde, invece, resta per sempre nella lista nera e viene inseguito in giro per il mondo anche a distanza di 50 anni…
Come diceva Franklyn Delano Roosevelt di Anastasio Somoza (dittatore del Nicaragua, poi rovesciato dai Sandinisti): “E’ un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana”. Dunque va bene se ci serve e fin quando ci serve, poi si vede e casomai se ne trova un altro…
E’ il principio della realpolitik, non c’è da meravigliarsi. In politica e in guerra la morale entra soltanto nella formazione delle ragioni per cui si combatte. Combattere per sterminare un popolo è genocidio, combattere per liberarsi da un occupante o dagli sfruttatori è sacrosanto e rivoluzionario, comunque positivo.
Ma in entrambi i casi si combatte. Le distinzioni si fanno allora sui metodi e sugli obiettivi. E la casistica su cosa è vietato fare anche in guerra è diventata la base su cui provare a creare un diritto internazionale credibile. Ossia non disegnato sugli interessi mutevoli della potenza temporaneamente egemone sul mondo.
Il resto, sembra chiaro, è solo retorica ipocrita e parecchio infame. Semplice giustificazione delle scelte fatte per interessi inconfessabili, ma di solare evidenza.
Al Julani e gli ex Al Qaeda tornano come i freedom fighters esaltati nella serie Rambo poi perseguiti e combattuti in tutto il mondo dopo l’11 settembre, ma che oggi possono di nuovo tornare utili agli interessi occidentali.
Basta ricordarsene, quando si legge un giornale o si ascolta la tv…
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