Rimasti spiazzati e sotto botta dalle impressionanti manifestazioni popolari per Gaza di queste settimane, in Italia i filo-israeliani e i “normalizzatori” stanno cercando di recuperare terreno e riportare la percezione della situazione a quella in cui sia la narrazione israeliana sulla realtà che quella reazionaria e individualista sulla società erano dominanti.
Proviamo a fissare i puntini e poi ad unirli per ricavarne un quadro che ci aiuti ad affrontare la prossima fase.
1) Sul campo ci si appiglia al ‘Piano Trump’ artificiosamente definito “piano di pace”. Israele continua però nella logica di “fare la guerra come se non si negoziasse e negoziare come se non si fosse in guerra”. Netanyahu ha già detto che il suo obiettivo è la vittoria finale e non il rilascio degli ostaggi. Del resto il tentato omicidio dei negoziatori di Hamas a Doha qualche settimana fa spiega benissimo quanto sia forte l’attitudine israeliana al negoziato.
Il risultato è che mentre a Sharm el Sheik si negozia, a Gaza ancora si bombarda e si muore. I punti indigeribili del Piano Trump per i palestinesi sono troppi, ma nella narrazione mainstream già viene diffusa la versione secondo cui si è “a un passo dalla pace” e che l’eventuale fallimento sarebbe solo colpa di Hamas. Non dei bombardamenti che continuano. L’attuazione del Piano Trump riporterebbe la questione palestinese ad una situazione peggiore a quella di prima del 7 ottobre 2023 e l’autodeterminazione tornerebbe ad essere una ipotesi fumosa e rinviata nel tempo.
2) Diffondere l’idea della “pace vicina” in compenso serve a disinnescare la mobilitazione morale e politica su Gaza e generare una attesa immobilizzante piuttosto che una osservazione degli eventi in grado di mobilitare.
Questo obiettivo è diventato ancora più urgente di fronte alle enormi manifestazioni e ai due scioperi generali che hanno visto centinaia di migliaia di persone scendere in piazza per Gaza, ma non solo.
Questo aspetto era stato colto benissimo da Moni Ovadia che metteva in guardia dal momento in cui si sarebbero fermate le armi a Gaza e in cui sarebbero riemerse tutte le forze politiche e ideologiche impegnate a ripristinare la narrazione precedente.
3) La campagna di demonizzazione dei soggetti più attivi nella denuncia del genocidio israeliano sta rialzando i toni. Particolarmente velenosa quella contro la Relatrice speciale dell’Onu, Francesca Albanese (campagna che, come resoconta e alimenta la testata Open di Enrico Mentana, sta crescendo anche dentro il PD, ndr). E subito dopo la campagna contro la Global Sumud Flotilla e gli attivisti che l’hanno realizzata, mettendo in serissima difficoltà sia il governo israeliano che quello italiano, rivelatosi ancora una volta complice e subalterno a Tel Aviv.
Balza agli occhi poi l’offensiva filoisraeliana e reazionaria sui social attraverso il proliferare di “bot and troll” a pagamento, per diffondere ostilità contro iniziative e personalità impegnate nelle mobilitazioni e nella denuncia di Israele e del governo.
In questa zona grigia occorre anche guardarsi dagli “agenti di influenza” e da chi vive mettendo zizzania all’interno del dibattito e delle mobilitazioni, alimentando dicerie, insinuazioni, divisioni artificiali, pettegolezzo, chiacchiericcio solo apparentemente innocuo.
Infine, la demonizzazione delle enormi e riuscite manifestazioni popolari per Gaza, evidenziando scontri marginali spesso innescati dalla polizia per alimentare artificiosi allarmi sull’ordine pubblico.
Si badi bene, su queste chiavi di lettura e propaganda non convergono solo i filo-israeliani più sguaiati ma anche i commentatori “liberali”, ora seriamente preoccupati dalle mobilitazione popolari e dalla fine della “letargia sociale” a cui avevano lavorato alacremente, utilizzando sia la clava della destra che la moral suasion del “campo largo” del centro-sinistra.
4) Infine, ma non per importanza, la straordinaria partecipazione popolare, in primo luogo giovanile, ai due scioperi generali e alle manifestazioni di queste settimane ha portato allo scoperto una disponibilità alla mobilitazione che difficilmente potrà essere facilmente disinnescata.
Dopo mesi di indignazione, ma anche di frustrazione spesso vissuta individualmente, ognuna e ognuno ha potuto verificare che erano in tanti a vivere la stessa necessità di rompere il recinto, di esprimere pubblicamente l’indignazione per il genocidio di un popolo, di far pesare questa indignazione contro il governo e una fintissima opposizione. Facendo così tracimare la “rivolta morale” sulla stessa situazione sociale, politica e morale interna al nostro paese.
E qui si evidenzia un dato politico. Il pezzo di società che è sceso nella strade in queste settimane (lavoratori, studenti, giovani, genitori, educatori etc.), lo ha fatto al di fuori e indipendentemente dalla cosiddetta “società politica” ufficiale, dai suoi riti e dai suoi perimetri organizzativi ed ideologici.
Il dare continuità alle mobilitazioni sulla Palestina e l’insieme delle ingiustizie non è possibile dentro i parametri forniti dalla politica disponibile sul mercato. Di questo sono consapevoli i protagonisti di queste giornate, che ben difficilmente perciò votano e voteranno per qualcuno che vedono come pezzo dell’establishment.
Le dimensioni assunte dall’astensionismo elettorale già dicono molto, ma se questo avviene contestualmente ad una ripresa mobilitazione di massa nelle piazze il ragionamento va ben oltre il refrain stantio su “piazze piene, urne vuote”.
La domanda di politica espressa dalla gente scesa in strada è assai diversa da quella messa a disposizione nei luoghi istituzionali come nei talk show televisivi, che mai come oggi fanno parlare chiunque, meno che i protagonisti delle piazze.
E’ innanzitutto una domanda di coerenza tra parole e fatti. Su questo l’appello dei portuali di Genova a bloccare tutto e lo sciopero dell’Usb hanno mandato segnali forti e chiari.
In secondo luogo, occorre andare a verificare se questa domanda esprima una voglia di “indipendenza politica” più ampia e radicale, per lo meno a medio termine.
Foto di Patrizia Cortellessa
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maria
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