E’ ora di bussare forte al portone del potere. Mai come oggi – da qualche decennio a questa parte – la frattura tra classe dirigente (multinazionali, imprese, banche, classe politica, ecc) e popoli è stata così evidente e netta.
Una frattura sottolineata non solo dalla dimensione delle manifestazioni contro il genocidio, le politiche guerrafondaie e il riarmo, l’impoverimento crescente dei ceti popolari fino al “ceto medio”, ma anche dalla riduzione ai minimi termini della partecipazione al rito elettorale.
Se fosse necessario lo stesso quorum preteso per i referendum (50% più uno) non ci sarebbe più una sola votazione valida. Europee, Marche, Calabria e persino la Toscana hanno registrato votanti nettamente inferiori alla metà degli aventi diritto.
E’ una sentenza: la rappresentanza politica non è più credibile per la maggioranza dei cittadini.
Chi vota ancora lo fa – in parte decrescente – per un residuo bisogno di esprimere almeno un’opinione, oppure perché è vincolato a clientele da cui ottiene, o spera di ottenere, qualche vantaggio personale o familiare. Gli altri possono anche stare a casa, tanto i loro interessi generali non trovano un riferimento attendibile.
Il voto in Toscana non cambia di molto questa valutazione, anche se il risultato di Antonella Bundu è stato decisamente straordinario (5,2%), proprio perché non esiste alcun automatismo tra ritorno della partecipazione alle mobilitazioni e risultati elettorali.
Giustamente lei stessa ha chiarito che “qualche persona magari ha fatto un collegamento” tra scendere in piazza e scegliere Toscana Rossa nell’urna. Ma la stragrande maggioranza dei milioni che hanno bloccato tutto il 22 settembre e poi di nuovo il 3 e il 4 ottobre è da tempo indifferente ai riti della politica istituzionale, percepita come distante e soprattutto nemica.
E quindi ci troviamo davanti a un bel paradosso da risolvere, se si vuol mettere insieme un progetto di alternativa complessiva – valoriale, ideologica, sindacale e politica – in grado di rovesciare l’assetto dominante in questo paese e in questo declinante continente.
Da un lato abbiamo visto il ritorno prepotente dell’indignazione di tanti che hanno voluto dire addio all’individualismo impotente degli ultimi 30 anni. Non si blocca un porto o una stazione o una tangenziale da soli. Tanto meno l’intero paese. Occorre essere in tanti, con un briciolo di organizzazione e un forte comun sentire. Tanti da scoraggiare in partenza qualsiasi malintenzionata repressione poliziesca, che resta lì, sempre pronta, in mano a governi terrorizzati.
Dall’altro, questa voglia di contare e mettersi insieme non ha a disposizione, per il momento, forme e strumenti per farsi valere al di fuori del puro manifestare.
La sfida è ovviamente molto più ampia. La “crisi della democrazia rappresentativa” non si risolve inventando un’altra lista da esporre sullo scaffale dell’”offerta politica” e che verrebbe riguardata come tutte le altre. Se in tutto il mondo euro-atlantico la situazione è praticamente identica questo indica la fine di uno storico sistema politico-giuridico nato per ricondurre ogni conflittualità sociale dentro un quadro di compatibilità previste e che nessuno può pensare di infrangere, per quanto radicali siano le istanze che rappresenta.
L’Unione Europea e i suoi trattati vincolanti incentrati sul controllo dei bilanci statali hanno segnato il punto più alto di questo ferreo controllo di classe su ogni possibilità di cambiamento, sia pure solo “riformista” (l’esperienza della Grecia nel 2015 è esemplare).
Il trasferimento della “sovranità” dai popoli ai “mercati” ha certificato, nello stesso tempo, la sottrazione della decisione politica ai mutevoli equilibri sociali, svuotando così di senso ogni processo elettorale, a prescindere dai diversi sistemi (guardate la Francia, per decenni indicata come esempio di “stabilità bipolare”).
Che voti a fare Tizio o Caio se il programma di governo – curiosità locali a parte – non può cambiare mai?
Sembrava perfetto. In alto i tecnoburocrati raggiungibili solo dalle lobbies multinazionali e a seconda della loro potenza; in mezzo gli amministratori nazionali (regionali, comunali, circoscrizionali) vincolati con trattati non rivedibili; sotto tutti gli altri, comunque la pensassero e comunque si organizzassero.
La crisi economica, i salari in drastico calo, il welfare sempre più rachitico, hanno prodotto a lungo solo un mugugno impotente. La guerra alle porte e soprattutto il genocidio in diretta tv hanno rotto il coperchio e l’ebollizione sociale è tornata a manifestarsi.
Gaza ci ha fatto vedere l’orizzonte verso cui tutti noi siamo nei fatti diretti. Ognuno di noi ha potuto riconoscersi in quella massa disperata e meravigliosa che persino sotto le bombe e la fame si comporta da popolo in lotta, non da individui con il prezzo incollato sulla fronte (i collaborazionisti, come ovunque, non sono mancati, ma finiscono tutti nello stesso modo).
Ognuno di noi ha perciò potuto imparare a dire basta, a muoversi, a sollevare lo sguardo dallo smartphone e scoprire lo sguardo dei nostri simili. Riconoscersi come essere umano e misurare la distanza siderale da “definisci bambino”. E riconoscere in quell’abiezione il risultato di un suprematismo razzista che è contemporaneamente anche un “razzismo di classe” che da secoli divide gli umani in “eletti” e “sacrificabili”.
E’ tutto in nuce, allo stato aurorale, certo. Ma già irriducibile ai tentativi di recupero verso una “normalità” che non risulta fisicamente possibile.
Non a Gaza o in Cisgiordania, dove Israele e i suoi coloni fremono per riprendere la mattanza e il furto di terra. Non nei programmi di riarmo che spudoratamente chiedono di eliminare la spesa sociale per nutrire quella militare, così da portarci il prima possibile nelle condizioni di Gaza, o peggio. Non nelle normali “relazioni industriali”, dove le imprese continuano a chiedere aiuti per sé e a rifiutare qualsiasi aumento salariale.
Non è questa la “normalità vivibile” che può far rientrare nelle case le coscienze che si sono sollevate per un moto di indignazione incontenibile. Va avanti la logica guerrafondaia e genocida, e quindi andrà avanti quel movimento. Fatto dopo fatto, orrore dopo orrore, traendo forse più forza ogni volta.
Ascoltare e supportare, sperimentare forme organizzative a ogni livello (quelle territoriali sono indispensabili, ma da sole non basterebbero), sviluppare visioni e culture convergenti, all’altezza della cambiamento radicale – davvero epocale – che l’inversione della direzione del mondo richiede.
Allargare le alleanze sociali e politiche che si sono fin qui create, favorire ogni processo aggregativo che non perda il senso totalmente alternativo di questa esplosione sociale improvvisa.
Un blocco sociale potenzialmente egemone non si aggrega e organizza da solo, ma non tollera nuove gabbie già preparate per altre stagioni. Si può e si deve provare anche la sfida della rappresentanza politica, ma non come fine in sé. Non esistono più, infatti, “deleghe in bianco” rilasciate su base puramente ideologica o simbolica.
Quando un popolo, un “blocco sociale in formazione”, torna a voler dire la sua, non si accontenta di parole prese in prestito. Cerca quelle che lo fanno esprimere appieno e riconosce solo chi parla la stessa lingua.
Hic Rhodus, hic salta.
* foto di Patrizia Cortellessa
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Oigroig
Non sono per nulla in disaccordo, ma «bussare forte al portone del potere» non significa portare il discorso per prima cosa sul piano elettorale. E se non esistono «deleghe in bianco» bisognerebbe cominciare a discutere un programma che non sia fatto di parole vaghe e suggestive che si pensa possano piacere a questo presunto «blocco sociale»…