Parlare di Partito Comunista qui ed ora non è certo cosa facile e da l’idea di parlare di un altro mondo e di un’altra epoca tanto è stata devastante la storia delle organizzazioni comuniste di questi ultimi decenni in Italia ma anche nel resto dell’Europa. Questa constatazione e lo stato d’animo che ne deriva, che ha spinto molti militanti a rivolgersi verso altri orizzonti anch’essi bruciati in tempi molto rapidi, ci deve invece spingere ad operare un salto di qualità teorico nell’affrontare la questione del partito che in realtà è la questione di come le classi subalterne resistono e reagiscono allo stato attuale delle cose. Parlare di partito significa dunque parlare della classe con cui abbiamo a che fare, reale e non mitologica, ma significa avere anche una idea dei processi generali e di quelli storici che stanno modellando il mondo attuale.
Se abbiamo dato una lettura dei processi storici legata al rapporto contraddittorio tra sviluppo delle forze produttive e rapporti sociali di produzione individuando fasi egemoniche e fasi di crisi non possiamo non leggere sotto questa luce anche la storia delle organizzazioni del movimento operaio. Il succedersi di periodi “rivoluzionari” e regressivi della borghesia hanno determinato anche i caratteri dei partiti operai e dei partiti comunisti i quali hanno dovuto fare i conti con gli sviluppi prodotti dalle classi dominanti modificandosi, evolvendo o cambiando natura. Processi questi che negli ultimi trent’anni abbiamo visto materializzarsi fornendoci una esperienza diretta, forse storicamente unica, di come la dialettica della realtà costringe a fare i conti con se stessi.
Per essere più concreti nell’analisi riportiamo una parte dello scritto di Giorgio Gattei, prodotto in occasione di un nostro seminario tenuto nel 1999, riportato sul quaderno “Partito e Teoria” che fornisce un’utilissima chiave di lettura non solo storica ma anche funzionale alle questioni che abbiamo oggi sul nodo strategico dell’organizzazione dei comunisti: “Ma allora per comprendere le diverse modalità del suo apparire storico pare necessario istituire un qualche rapporto tra la forma d’organizzazione politica che di volta in volta si è data la classe e la sua particolare “composizione” che le diverse maniere del produrre capitalistico,anch’esse di volta in volta storicamente determinate, pongono in essere.
La premessa è che si deve riconoscere che la storia del modo capitalistico di produzione, pur nell’invarianza dei suoi connotati strutturali di fondo (che sono la compravendita della forza lavoro e l’estorsione di plusvalore), non resta immutabile ma è segnata da una successione di modificazioni che ne variano, in particolare, l’organizzazione del lavoro.
Si parla al proposito di veri e propri “mutamenti di forma” dell’intero ordine produttivo e se ne individuano, pur all’interno dell’identità del modo capitalista, almeno queste diverse configurazioni: la rivoluzione della fabbrica a vapore alla fine del XVIII secolo, la novità della, produzione meccanizzata”di serie” a mezzo del XIX secolo, l’avvento della produzione Tayloristica “in linea” alla svolta del XX secolo, il trapasso alla produzione/consumazione di massa che s’impone alla metà del XX secolo (rispetto alla fase precedente la trasformazione non è di poco conto, come poi si vedrà) ed infine l’affermazione di quella produzione “flessibile” (o snella o comunque la si voglia chiamare) che segna il nostro trapasso di secolo.
Ad ogni trasformazione della maniera capitalistica del produrre ha di volta in volta corrisposto una modificazione del carattere della “composizione di classe”: Dall’operaio generico delle fabbriche di primo ottocento all’operaio “di mestiere”di metà secolo scorso; dall’operaio “alla catena” del primo novecento all’operaio/consumatore-massa di metà secolo nostro, ed infine a quell’operaio “debole” (o comunque lo si voglia chiamare)col quale stiamo entrando nel terzo millennio di cronologia cristiana.
Conseguentemente fino ad ora sono state quattro le “forme partito” che si sono presentate sulla scena storica, ossia tante quante sono state le trasformazioni strategiche della “composizione di classe” indotte dalle modificazioni della “maniera del produrre” che si sono succedute dalla rivoluzione industriale. E se ne attende naturalmente una quinta, adeguata al livello dell’accumulazione “flessibile” e del lavoratore “debole”, ma essa è ancora di là da venire o almeno è ancora difficile da distinguere nella confusione del nostro tempo.”
Questa relazione tra capacità egemonica, composizione di classe e carattere del partito di classe va vista non in modo automatico ne può essere scambiata per una interpretazione sociologica della politica. Come sempre è utile andare a recuperare nel bagaglio del movimento operaio storico elaborazioni fatte in altri momenti non come riferimento sacrale ma come capacità di cogliere le tendenze di fondo sapendo che le forme concrete non possono che essere date dal contesto storico che agisce nel tempo preso in considerazione. In questo senso è estremamente utile riandare ad un articolo di Lenin del 1916 “L’imperialismo e la scissione del Socialismo” in cui mette in relazione la vittoria dell’imperialismo nel coinvolgere il movimento operaio nella prima guerra mondiale con l’emergere nella classe dell’aristocrazia operaia subalterna alla borghesia, prodotta dalla riorganizzazione produttiva e dalla conseguente modifica della composizione di classe, con la scissione del movimento socialista che non ha solo riguardato la linea politica ma anche la forma della stessa organizzazione di partito.
Se adottassimo un approccio meccanicistico sarebbe facile fare un parallelo diretto, tante sono le somiglianze, con la subalternità della sinistra di oggi all’imperialismo della UE, la scomposizione e separazione della classe dovuta ai processi di ristrutturazione e la necessità di una organizzazione antagonista e rivoluzionaria oltre la nostra sinistra. Purtroppo le cose non sono così semplici perché le condizioni sono molto diverse ma il metodo di analisi proposto da Lenin in quello scritto è ancora valido adeguandolo al contesto storico che caratterizza la nostra epoca. Bisogna, dunque, partire dalla modificazione del contesto complessivo che si avvia con la fine dell’URSS e con una trasformazione completa del contesto strutturale internazionale ancor prima che quella realizzatasi sul piano politico e dei rapporti di forza internazionali.
- a) Un metodo da applicare ancora
Il primo elemento da prendere in considerazione è che nel dopoguerra con un partito comunista uscito vittorioso dalla guerra di liberazione, anche come conferma dell’ assetto organizzativo e politico prodottosi nella lotta antifascista, il problema che si pone Togliatti, e con lui la quasi totalità del partito comunista, è proprio il cambiamento del ruolo e dell’assetto del partito stesso. E’ il “partito nuovo” che deve cambiare se stesso in base alle mutate condizioni complessive. La fine del fascismo e la battaglia politica sui caratteri della democrazia italiana, il ruolo della classe operaia nella lotta antifascista ed il radicamento che il partito aveva, era stato conquistato con la vecchia forma organizzata; la nascita delle democrazie di transizione nell’Est Europa e la divisione del mondo in blocchi sono le condizioni generali che hanno portato alla trasformazione del PC, clandestino prima e poi combattente armato nella resistenza, a cambiare radicalmente i propri caratteri mantenendo però il carattere di classe che ha poi segnato il conflitto politico nel nostro paese per i successivi decenni.
La vittoria sul Fascismo non portò a confermare il modello politico che pure aveva vinto, ma si produsse invece una radicale trasformazione del partito che, abbandonata la dimensione limitata, prima per scelte settarie e poi per la clandestinità imposta dal fascismo, modificava se stesso per poter accedere alla dimensione del partito di massa. Gli sviluppi successivi hanno indubbiamente confermato che quelle scelte erano adeguate al nuovo contesto nazionale ed internazionale, anche se la discussione di merito sulle opzioni possibili all’epoca non va certo data per scontata. Come non si può rimuovere dalla riflessione l’evoluzione riformista avuta dal PCI soprattutto a partire dagli anni ’70 e concretizzatasi con la strategia del compromesso storico, di cui oggi nel PD ne vediamo gli esiti finali.
Quello che però a noi oggi interessa capire ed evidenziare è il metodo di analisi della fase complessiva relativa al dopoguerra, la capacità di cogliere le trasformazioni sociali, in primo luogo il ruolo centrale della classe operaia di fabbrica riferito a quell’assetto produttivo, ed, infine, la capacità di dotarsi delle forme di organizzazione adeguate a raccogliere la spinta del conflitto di classe di quel periodo.
Oggi siamo da tempo dentro una modifica altrettanto radicale del contesto in cui agiamo dove alla crisi del movimento di classe, oltre che comunista, corrisponde una profonda crisi dell’assetto capitalistico che fa riemergere le sue contraddizioni strutturali, lucidamente interpretate dalle categorie del pensiero marxista. Non si può pensare di affrontare una fase di cambiamento come questa senza porsi i problemi relativi alla forma organizzata dei partiti e delle organizzazioni di classe e comuniste.
Quello che non si può negare è la capacità che il movimento comunista ha avuto nello strutturare i suoi partiti in base alle condizioni che si manifestavano nei diversi singoli paesi, ribadendo in questo modo che l’organizzazione rimane sempre uno strumento, da modificare quando necessario e contro ogni feticismo organizzativistico.
Siamo in Italia, in Europa, cioè in uno dei cuori della trasformazione avviata dal capitale per far fronte di nuovo alle proprie contraddizioni, trasformazioni che riguardano in primo luogo le condizioni dei popoli e delle classi subalterne di questo continente; eppure su come si deve organizzare il movimento di classe e con esso i comunisti siamo all’afonia totale, si naviga più che nella confusione nella ignavia di chi intende svolgere un ruolo antagonista. Le organizzazioni presenti, inclusi i partiti, vivono una condizione che non è di massa, in quanto sono caduti quasi tutti i rapporti con le classi subalterne, ma non è neanche di militanti poiché il concetto di militanza è stato svuotato dall’accettazione della cultura egemone, che al massimo ci concede il “volontariato”, e da una pratica interna alle organizzazioni schiacciata sulla contingenza, piuttosto che su quello della qualità e della formazione, e sul protagonismo individuale.
- b) Le nuove condizioni.
Ricostruire perciò un confronto tra le condizioni attuali e quelle della fase precedente, relativa al partito di massa, mettere a fuoco le differenze e le differenti necessità politiche alle quali deve fare fronte un’organizzazione comunista, è un lavoro utile a definire per approssimazione lo strumento organizzativo di cui dotarci oggi.
1) Oltre la Nazione. Un elemento di evidente differenza tra la nascita del partito comunista di massa e la situazione attuale è il “teatro” della lotta di classe. Il PCI fin dal 1944 si pone come forza nazionale ovvero reclama per la classe operaia un ruolo nazionale e di ricostruzione dal tracollo prodotto dal Fascismo, ma anche di ricomposizione dei settori sociali diversi dalla classe operaia, dai contadini fino agli intellettuali, dalle donne ai giovani, tutti segnati dalla vicenda bellica, ricomposizione intesa come “Blocco Storico” che riprende la lezione del Gramsci della “questione nazionale” e di quella meridionale. L’ambito materiale dentro il quale svolgere la lotta di classe ed una funzione emancipatrice generale era la Nazione. Era anche la presa d’atto della divisione del mondo in sfere di influenza tra USA e URSS e del fatto che la rivoluzione doveva ripiegare su una democrazia progressiva. In realtà questa è stata la condizione obiettiva in cui si è fatto politica fino agli anni ’90, e quando, nei momenti di acutizzazione del conflitto politico e di classe, si è cercato di rompere quell’equilibrio la risposta del potere è stata di tipo golpistico, terroristico e violento.
Diventa inevitabile comprendere come le diverse condizioni storiche possano determinare diversi modi di agire ed organizzarsi dei comunisti. Non partiamo da zero, nel senso che in Italia la fine del PCI non ha corrisposto alla diaspora e scomparsa dei comunisti, anzi è cresciuta un’esperienza come quella della Rifondazione Comunista che ha continuato sulla strada tracciata dal PCI, ma anche delle organizzazioni politiche degli anni ’70, riproponendo un partito di massa che, per senso comune dei militanti, era l’unica strada da intraprendere visto anche l’entusiasmo con cui è iniziata negli anni ’90 quell’esperienza, per la gran parte di quei militanti che non volevano accettare la liquidazione di una storia importante.
Certamente la conclusione, di fatto, di quel tipo di realtà può essere messa nel conto di dirigenti “deviati” quali Cossutta e Bertinotti, ma questa sarebbe poco più di una scusa che riconsegnerebbe la Storia in mano agli individui e non ai processi generali. Dobbiamo dunque andare più a fondo e indubbiamente balza agli occhi il venir meno della dimensione nazionale, che era stata la culla nella quale era cresciuto il movimento di classe e comunista: è bene ricordare ambedue i fattori. Un venir meno prodotto dal balzo in avanti delle forze produttive che richiedevano altri involucri statuali per poter produrre profitti e competere in modo più cospicuo; per noi ciò ha significato la costituzione sempre più concreta dell’Unione Europea. Forze produttive che però hanno trascinato con sé tutti gli aspetti della vita dei popoli coinvolti, dalla comunicazione alla formazione culturale, dagli apparati produttivi alle istituzioni politiche, insomma un salto storico del quale si è sottovalutato il rilievo fino al sopraggiungere della crisi finanziaria del 2007.
In negativo è scontato indicare le responsabilità, la miopia, di quei gruppi dirigenti in tutt’altre faccende affaccendati, ad esempio quelle elettorali, ma allo stato attuale il problema principale è quello di capire come adeguare, di nuovo, il movimento di classe e comunista alla nuova dimensione storica che ha superato la precedente dimensione nazionale. Naturalmente questo processo di superamento dei confini nazionali coinvolge tutte le aree economiche e monetarie che, in diversi modi, si sono predisposti a questo passaggio dimensionale della produzione e della circolazione di capitale, vedi il ruolo del NAFTA per gli USA. Ma riconcepire una prospettiva per i comunisti del nostro paese significa accettare in primis la sfida della qualità teorica e politica, la sola cosa che può metterli in condizione di comprendere le dinamiche della realtà e di attrezzarsi adeguatamente, anche concependo ipotesi alternative e di rottura a quelle della Unione Europea, ideologicamente presentata come unico esito possibile per i popoli del continente.
2) Fine della democrazia borghese? Un altro dato di fondo che ha caratterizzato la nascita e l’affermazione del partito di massa è stata la lotta per la democrazia. Attorno a questo nodo del conflitto di classe nel nostro paese ci sono stati momenti costitutivi di quel periodo storico, la battaglia vinta contro la legge truffa nel 1953, il governo Tambroni caduto dopo il tentativo nel ’60 di rilegittimare i fascisti accettando il loro appoggio all’esecutivo, la ventennale lotta nei posti di lavoro per i diritti sindacali in cui centrale è stato lo scontro con la FIAT Vallettiana, altri momenti ancora di conflitto politico sono stati fondamentali per allargare gli spazi democratici in un paese in cui la classe dirigente portava ancora i caratteri della cultura reazionaria sopravvissuta al fascismo.
Va chiarito però un carattere centrale di quel periodo. La battaglia sulla democrazia, l’allargamento dei suoi spazi non erano finalizzati solo all’affermazione di principi generali ma erano vissuti, dal movimento di classe nel nostro paese, come una “tappa” della lotta per la trasformazione sociale in Italia. Era ormai chiaro che non si poteva fare “come in Russia” ma si poteva ipotizzare una transizione democratica e pacifica verso un sistema sociale più equilibrato e non ancora socialista.
D’altra parte in quegli anni i paesi dell’est europeo non avevano immediatamente adottato il modello sovietico, esisteva infatti la proprietà privata seppure controllata, c’erano altri partiti oltre quelli comunisti, ed era chiaro che in quelle condizioni continuava la lotta di classe, cioè era chiaro che la società era ancora suddivisa in classi. Esplicativo dell’orientamento del PCI dell’epoca sono gli articoli di Eugenio Reale e di Eugenio Varga pubblicati sui numeri di Rinascita di Maggio e Giugno 1947 dove questa lettura dei paesi dell’est Europa viene spiegata in modo dettagliato.
Era questo lo sfondo in cui si sviluppava nel nostro paese, ed in altri in Europa, la battaglia per la democrazia intesa in modo “progressivo”, un contesto in cui si poteva anche ipotizzare una riunificazione dei partiti di classe ovvero del PCI e del PSI.
E’ chiara anche la differenza tra quella democrazia come terreno del conflitto per la trasformazione e quella di cui si è parlato dopo. Infatti già dall’inizio degli anni ’70 questa concezione progressiva viene meno da parte del PCI il quale, a causa del forte scontro politico, accetta in pieno la concezione della democrazia formale ovvero borghese. La difesa della Costituzione Italiana diventa perciò di tipo “religioso” come accettazione di tavole inviolabili ed immodificabili; avendo abbandonato ogni ipotesi di transizione si fa diventare la democrazia borghese il terreno politico più avanzato non in termini di classe ma in termini di valori generali, socialmente indistinti. Si assume lo Stato borghese così com’è, come baluardo da difendere tout court.
Non vogliamo qui dare giudizi di merito su quelle modifiche politiche ma rilevare come la questione democratica si sia trasformata e come il partito di massa abbia adeguato la propria concezione e relazioni alle condizioni specifiche di quei tempi, arrivando cioè ad una sostanziale modifica della propria finalità strategica.
Questo passaggio non ha avuto solo effetti sulla sua linea politica ma ha inciso profondamente sul modo d’essere del partito di massa e delle sue relazioni interne. Venendo meno il “Fine”, ovvero la “Rivoluzione” intesa anche nelle sue forme democratiche così come le aveva concepite il PCI (sono di quel periodo le dichiarazioni di Berlinguer sull’utilità dell’ “ombrello” della NATO e sulla fine della spinta propulsiva dell’URSS) al primo posto è balzata la politica vista come tattica, esclusivamente relativa agli scenari politico/elettorali del momento. Ciò ha causato una mutazione della percezione della politica da parte dei quadri del partito, rimuovendo l’aspetto strategico e facendoli acconciare sulla sola dimensione pratica o, per meglio dire, pragmatica.
Tutto ciò ha avuto un effetto sulla “teoria”, ovvero sulla capacità di interpretare il mondo nelle sue dinamiche fondamentali, ed ha avuto un sottoprodotto dapprima inavvertito ma poi manifesto sui ruoli individuali, sempre più prevalenti nei gruppi dirigenti: chi non ricorda il supponente protagonismo di Occhetto? Questa maturazione perversa si è poi palesata appieno con la rottura degli involucri organizzativi delle organizzazioni della sinistra, non solo del PCI, ed è stata un presupposto della corruzione politica ed economica che ha poi portato alla devastazione attuale.
Oggi la situazione è ulteriormente modificata, la democrazia è diventata, come il lavoro, una variabile dipendente e dunque disponibile alle modifiche necessarie al livello di sviluppo delle attuali società capitalistiche. La crisi, la costruzione del Polo Imperialista Europeo, la trasformazione delle classi dirigenti a classi dominanti, portano evidentemente alla riduzione della democrazia borghese fino alla sua scomparsa di fatto, a causa delle condizioni generali imposte dal livello sempre più intenso della competizione globale che l’assetto capitalistico richiede.
Oggi è evidente che parlare di come i comunisti debbano organizzarsi e di quale funzione debbano avere non può prescindere da questa evoluzione politica e di come il contesto democratico del nostro paese stia sempre più degradando; il partito di massa così come è stato “imbalsamato” negli ultimi decenni mostra in questa fase il suo superamento se non altro perché i partiti della sinistra italiana sono stati espulsi, non avendo alcun eletto, dal contesto istituzionale.
3) Dal bipolarismo al multipolarismo. Il cambiamento “ambientale” dell’agire dei comunisti non ha riguardato solo la dimensione nazionale ma coinvolge in pieno anche il dato internazionale che sempre ha determinato nell’ultimo secolo anche le dinamiche più specificamente nazionali. E’ quasi superfluo starle a ricordare in questo dibattito tanto sono evidenti: sostanzialmente si è passati dal bipolarismo prodotto dalla competizione, anch’essa globale, tra URSS ed USA ad un mondo multipolare dove le aree imperialiste si trovano a collaborare/competere con paesi che imperialisti non sono, in una dinamica che non ha mostrato ancora i suoi effetti ultimi. E’ una situazione storicamente inedita in cui lo strapotere dei paesi dominanti non è così completo pur in assenza di una compiuta alternativa sociale al capitalismo. Questo mutamento richiede una qualità nella capacità di analisi dell’organizzazione ben diversa dalla fase precedente.
Sono infatti venuti meno alcuni parametri fondamentali che hanno formato generazioni di giovani, militanti, semplici iscritti ai partiti. Uno è certamente la questione dell’imperialismo; dal 1945 l’unico imperialismo noto è stato quello degli USA, contrariamente a quanto avvenuto nelle fasi storiche precedenti alla seconda guerra mondiale, quando non esisteva l’imperialismo ma “gli imperialismi”, una differenza non da poco per chi ha percepito nella propria esperienza pratica solo quello USA.
Con la fine dell’URSS e con il ruotare della storia all’indietro, verso l’inizio del ‘900, si è continuato a pensare come prima ad un solo imperialismo ignorando il ruolo che sempre più assumeva l’Unione Europea e l’Euro come protagonisti della competizione globale, cosa questa che oggi invece emerge chiaramente dentro la crisi finanziaria mondiale. Non è stato solo un errore di carattere teorico ma ha anche fatto emergere l’incapacità di lettura sulle dinamiche della società e dei settori di classe del nostro paese, che nel frattempo accumulavano modifiche materiali, culturali e politiche sempre più forti. Se ci fosse stata questa capacità, sarebbe stato infatti chiaro che queste modifiche imponevano di riflettere, rivedere e riconcepire le relazioni tra la soggettività politica organizzata e la realtà della classe in via di modificazione.
Ma il passaggio ad uno scenario mondiale multipolare ha posto un altro ostacolo alla capacità politica delle forze comuniste; infatti mentre si continuava giustamente a concepire la necessità della trasformazione sociale, della rivoluzione, il modello da seguire, il come concretamente si poteva organizzare una società alternativa, è venuto meno con la fine dell’URSS e ciò ha richiesto anche qui un salto di qualità politica e teorica. La critica all’URSS non risale certo alla fine di quell’assetto statuale ma essa era presente, ed a ragione, già dagli anni ’60 con la posizione del Partito Comunista Cinese e si è poi sviluppata con il crescere dei movimenti rivoluzionari internazionali fino agli anni ’70 e, dunque, anche nel nostro paese. Ma se quel modello non era certo il migliore da seguire oggi nella nostra condizione politica possiamo toccare con mano il ruolo antimperialista che oggettivamente svolgeva e non certo sul versante “reazionario” della Storia.
Oggi a oltre venti anni di distanza possiamo dire che la Storia si è rimessa in qualche modo in movimento mostrando, prima di tutto, che il capitalismo mantiene tutte le proprie contraddizioni con i tragici effetti sociali, economici e bellici che possiamo osservare ma soprattutto che la fine del cosiddetto socialismo reale non ha significato la fine di tutte le esperienze rivoluzionarie che sono nate nel corso del secolo scorso.
Sapere che il capitalismo non è la fine della Storia è certamente un elemento importante, ma per noi il problema è anche come una struttura comunista si organizza per interpretare e collocare nella propria azione questa nuova realtà internazionale. Realtà che incide concretamente nella dimensione nazionale ma che non offre più, come prima avveniva, un modello sociale alternativo “certo”. Tutto questo ovviamente è rilevante per le caratteristiche dell’ “intellettuale collettivo” da costruire in un contesto in cui un modello alternativo di società non è immediatamente proponibile ai settori sociali di un paese interno all’ Unione Europea.
4) Attraversando il deserto culturale. Nell’affermare ciò non ci riferiamo alla Cultura con la C maiuscola che appartiene, naturalmente, agli intellettuali ma a quel bagaglio, a quel sapere collettivo che nasce dalle esperienze storiche concrete dei popoli e delle classi e che è fatto di riferimenti, di valori, di rapporti e comportamenti che producono una conseguente coscienza ed identità di se stessi.
Il passaggio dal partito clandestino del periodo fascista a quello di massa avviene in un drammatico periodo storico segnato dalla guerra e dalla lotta di liberazione, dove le mistificazioni ideologiche non avevano più senso, dove la verità emergeva dalla durezza dello scontro e dove ognuno era costretto a prendersi le proprie responsabilità schierandosi da una o dall’altra parte. Una simile scelta implicava inevitabilmente la necessità di capire bene la realtà, le sue evoluzioni ed i propri interessi, per questo esistevano allora i pensieri forti che “fornivano” riferimenti e valori. Alla fine della guerra e della lotta di liberazione le classi subalterne del nostro paese uscivano in una condizione politica ribaltata da quella vissuta nel fascismo dove la passività e la sudditanza erano i valori del regime. A questa imponente impresa aveva contribuito il partito clandestino, di quadri, e la lotta di liberazione ma proprio da questo risultato nasceva l’ipotesi del partito di massa anche perché la cultura popolare che si era generata da quel passaggio storico permetteva la mutazione alla dimensione di massa.
Oggi qual’ è la condizione che vive su questa dimensione una forza comunista? Conosciamo bene lo stato di arretratezza della coscienza, non di classe ma perfino di quella civile; venti anni di devastanti campagne ideologiche hanno costruito artatamente valori e riferimenti culturali che solo la crisi attuale sta smontando lentamente. Ma più determinante è stata la scomparsa di ogni riferimento realmente alternativo ed antagonista; per quanto riguarda la sinistra in Italia va detto che è stata promossa una sorta di pentitismo di massa, cioè è stata diffusa la convinzione che tutto quello che era stato fatto nel ’900 era comunque sbagliato. Va aggiunto anche che questo visione delle cose in realtà è penetrata a fondo nel vasto popolo della sinistra, che non è stato portato a ragionare sugli errori di merito, tanti e seri, ma su un’idea di fallimento che spingeva a pensare secondo schemi ideologici che l’avversario di classe “gentilmente” ci forniva.
L’affermazione del partito del leader, che ha sostituito l’intellettuale collettivo e le pratiche democratiche nelle organizzazioni, l’accettazione del berlusconismo come male assoluto, l’assunzione politicamente paralizzante della logica del meno peggio, la perdita del valore dell’indipendenza della classe e comunque il profondo senso di impotenza e subordinazione alle dinamiche istituzionali sono le forme in cui si è manifestata l’accettazione dello stato delle cose esistente. E’ in questa condizione, caratterizzata dalle macerie culturali della classe, che l’idea del partito di massa entra in crisi ma è comunque in tale situazione che va riconcepito il ruolo dell’organizzazione comunista e di una conseguente egemonia sui settori sociali.
(segue)
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