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Elezioni. Le metropoli voltano le spalle al Pd

Dopo lo stesso Matteo Renzi, anche gli stessi media renziani hanno dovuto ammettere il risultato non proprio esaltante del voto amministrativo di domenica.
Se è vero che trattandosi di un voto locale ed essendo in presenza di situazioni non sempre omogenee tra di loro è difficile tracciare un quadro organico a livello nazionale, è anche vero che alcune tendenze generali sono più che visibili.

E tra queste la principale è proprio la debacle del Pd militarizzato da Matteo Renzi e dal suo cerchio magico. Se a Napoli la candidata renziana Valente non riesce neanche ad accedere al ballottaggio e a Roma il fido Giachetti ci riesce per un soffio e solo in virtù della spaccatura di un centrodestra sempre più in crisi, anche a Bologna e a Torino il risultato del centrosinistra è assai inferiore alle aspettative, con Merola e Fassino che non riescono a passare al primo turno e si fermano assai lontani da quel 50% che sembrava invece alla loro portata.
Si tratta di un brutto colpo per un governo che in questi mesi ha tentato di allargare la propria base di consenso aprendosi a destra a pezzi consistenti dell’ex blocco berlusconiano e che ha basato la propria politica su una continua e irrefrenabile opera propagandistica a base di elargizioni al popolo – gli 80 euro, la riduzione di alcune tasse, il rimando ai prossimi anni dei sacrifici imposti dall’Unione Europea – che in molti casi si sono rivelate del tutto virtuali. In sostanza, il “populismo dall’alto” di Matteo Renzi alla lunga non ha convinto quei settori popolari che domenica sembrano avergli voltato le spalle, rendendogli da ora assai difficile arrivare con il vento in poppa al fatidico e cruciale appuntamento del referendum contro-costituzionale di ottobre.

Il Partito Democratico ed il suo blocco di potere hanno perso in ogni città decine di migliaia di voti, soprattutto nei quartieri popolari delle metropoli. Anche volendo escludere il “caso limite” di Napoli, città “derenzizzata” grazie all’evoluzione progressista e partecipativa del progetto di Luigi De Magistris, basta vedere i dati di Roma e Torino, ed in parte anche di Bologna e Milano, per accorgersi che il PD spopola ancora nei quartieri della borghesia e nei centri cittadini gentrificati, ma subisce un innegabile tracollo nei quartieri proletari delle periferie, ed accusa il colpo anche nelle zone abitate da quel ceto medio che anni di austerità hanno scaraventato in basso.
Tutto questo in un quadro che vede il rafforzamento dell’astensionismo e un ulteriore allontanamento di consistenti fette di elettorato dall’agone politico-istituzionale, una tendenza particolarmente forte al nord ed in particolare nelle grandi città. A Roma e in generale nel Mezzogiorno d’Italia – a parte Napoli – si registra invece un relativo aumento o comunque una tenuta della partecipazione alle elezioni amministrative, seppur per motivi spesso contingenti o di carattere locale, il che rappresenta una relativa inversione di tendenza rispetto al passato.
Ad approfittare di questo terremoto che investe il blocco di potere renziano – garante delle direttive dell’Unione Europea e dei poteri forti continentali – non è un centrodestra rissoso e sfilacciato che se da una parte vede la crescita delle correnti ‘lepeniste’ – a volte nella versione Fratelli d’Italia, altre in quella leghista – in generale non riesce a intercettare i consensi in fuga dal Pd o dalle urne. Anzi, nella maggior parte dei casi ad un tracollo del centrosinistra renziano corrisponde una debacle anche del centrodestra, anche laddove si presenta unito. E non vanno meglio le aggregazioni centriste, rafforzate negli ultimi mesi dall’arrivo di nuove pattuglie in fuga dal blocco berlusconiano in disfacimento. Il caso del flop di Marchini a Roma è da questo punto di vista rivelatore.
Neanche la sinistra “a sinistra del Pd” – definirla radicale sarebbe davvero paradossale vista la presenza di forze governiste come Sel e di pezzi consistenti in fuga dai Dem solo dopo l’occupazione del partito da parte di Renzi – riesce ad approfittare dell’arretramento del blocco egemone e del fuggi fuggi di elettori di sinistra in cerca di un appiglio più consono ad un progetto progressista o di trasformazione. Nelle principali città dove si votava le liste della Sinistra Italiana rimangono sotto il 5%, anche laddove i candidati erano volti assai noti e influenti – o almeno così pensavano – come nel caso di Milano o di Roma. A Torino addirittura l’ex dirigente della Fiom e parlamentare di Sel Airaudo è rimasto sotto il 4%. A parte Martelloni a Bologna – arrivato al 7% – qualche buon risultato per la sinistra arriva solo in quelle città – come Cagliari o Rimini – dove la sbrindellata coalizione ha scelto di andare alla competizione direttamente insieme a quel partito dal quale pure ora si definisce se non indipendente quantomeno autonoma, cioè il PD. Una autonomia declamata ma poco fattiva che quasi sicuramente verrà mandata in soffitta in nome del sostegno ai candidati del centrosinistra al secondo turno tra due settimane. Come scrive efficacemente Emilia Patta su “Il Sole 24 Ore”: “Gli elettori delusi dal PD si rifugiano nell’astensione o vanno verso il M5S (…) Questo primo turno delle comunali 2016 dimostra, se ancora ce ne fosse bisogno, che in un’Italia deideologizzata lo spazio per una sinistra extra-PD di stampo tradizionale è estremamente ridotto”. In particolare, è il caso di aggiungere, quando la scelta di correre da soli è circostanziale e frutto più della scelta del blocco dominante che di una rottura con quel menopeggismo che ha contraddistinto la parabola della sinistra radicale degli ultimi anni.
L’unica forza in grado di intercettare i voti in fuga dal PD, in particolare a Roma e a Torino, è stato un Movimento 5 stelle che pesca in tutte le direzioni, e i cui candidati oscillano tra la denuncia dei misfatti della casta e la proposta di un buon governo basata sugli esperti e sui tecnici. Una opportunità a disposizione, quella fornita dall’exploit del Movimento 5 Stelle, che rafforza la possibilità per le forze antagoniste di ‘bastonare il cane che affoga’, in questo caso Matteo Renzi ed il blocco di potere strumento dell’Unione Europea.
Ma per ora non si configura alcun blocco potenzialmente alternativo, dal punto di vista generale e sistemico, rispetto a quello dominante. Un blocco sociale e politico che invece sembra configurarsi almeno a Napoli, dove la variegata coalizione guidata da De Magistris si è affermata in virtù della piena ed esplicita rottura, occorrerebbe dire conflittualità, nei confronti della filiera economico-politica che da Bruxelles passa per Roma ed arriva sul territorio campano legandosi e incarnandosi in lobby, clientele, interessi voraci e di rapina, tanto nella versione legale quanto illegale.
Nel caos e nel mosaico di difficile lettura che il voto locale restituisce balza comunque agli occhi l’importanza che le aree metropolitane stanno assumendo rispetto alla possibilità di un’inversione di tendenza ancora incompiuta. E’ indubbio che le grandi aree metropolitane del paese, in particolare Roma e Napoli ma come abbiamo visto ormai anche Torino e Bologna, esprimono ormai sul fronte della rappresentanza politica una netta ed esplicita sofferenza nei confronti dello status quo; ma è altrettanto vero che queste aree metropolitane, e le aree popolari e periferiche in special modo, non esprimono una particolare o continua mobilitazione e vertenzialità nei confronti degli assetti di potere e dei sempre più stringenti vincoli dettati dall’alto. Una contraddizione sulla quale i comunisti e le forze antagoniste dovranno concentrarsi e lavorare, estendendo la propria capacità di costruire organizzazione e insediamento sociale e di trasformare le vertenze tematiche spesso separate le une dalle altre in rivendicazione politica generale.

 

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